Portare il caos...

 

San Vittore: Portare il "caos" nell’ordine carcerario vigente

 di Sergio Segio (pubblicato in Fuoriluogo, 30 settembre 1997)

 

San Vittore, l’antico carcere milanese, è un vero caos, parola del suo direttore. Caos non tanto nel senso di bolgia, quanto in quello della "fucina di iniziative, di impegno, di voglia di vivere, di rifiutare il ruolo del compatito": così lo definisce Luigi Pagano, direttore del penitenziario, nel presentare l’Agenda di San Vittore, significativamente chiamata "Evasioni 1997".

L’evasione possibile, organizzata nella prigione milanese, cammina sulle gambe del protagonismo e della soggettività degli uomini e delle donne reclusi. Possibile ed efficace, perché mette il dito nella piaga, cioè affronta e tenta di risolvere il vero nodo, la filosofia gestionale che fa del detenuto una non-persona: ovvero l’infantilizzazione dello stesso, il suo essere un semplice oggetto di trattamento. Un paziente passivo e acritico al quale - come a tutti i bambini o gli ammalati - si consente un’unica arma: quella di captare la benevolenza dell’adulto, accettando, anzi accentuando, la propria inferiorità e debolezza, in quotidiani riti di sottomissione e obbedienza. Il recluso che rifiuta di essere compatito e, soprattutto, di autocompatirsi è, di per ciò solo, persona libera e "guarita", per quanto costretti siano resi i suoi movimenti e gli spazi in cui si svolgono.

Complice di concorso in questa prolungata "evasione" milanese, è senz’altro Luigi Pagano, direttore così meritoriamente insolito da arrivare a teorizzare la propria disoccupazione: "Il carcere, è indubbio, è istituzione che va eliminata, ma fino a quando esiste bisogna impegnarsi per eliminarne residui di inciviltà", scrive sempre nell’Agenda. Residui, per la verità, di gran consistenza e resistenza, poiché, oltre che materialmente assai diffusi, risultano irrimediabilmente connaturati all’esistenza stessa dell’istituzione. Ma, indubbiamente, da San Vittore arriva qualche robusta picconata al carcere incivile, dunque al carcere in sé, e al "carcere-asilo" in particolare.

 

Un vademecum per le riforme

 

Una di queste si chiama "Gruppo di lavoro per una Carta europea delle comunità carcerarie", titolo assai impegnativo per una doverosa "lista della spesa", che potrebbe e dovrebbe costituire un articolato vademecum per qualsiasi azione seriamente riformatrice. I contributi spaziano dai problemi di giustizia processuale (carcere preventivo, "pentitismo" e reati associativi, parità tra le parti, limiti alla discrezionalità, depenalizzazione, abolizione ergastolo, etc.) alla vivibilità carceraria, all’esecuzione pena (compiti e limiti dei tribunali di sorveglianza, revisione delle pene accessorie, territorialità della detenzione, assistenza post-detentiva, etc.) al lavoro interno ed esterno, all’esame degli iter parlamentari e del "pacchetto Flick".

Nella lettura della copiosa documentazione prodotta e dell’ampio arco delle proposte avanzate (e regolarmente inoltrate a numerosi interlocutori istituzionali, tra cui la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, senza grandi riscontri), esce forte la sensazione che il segno (sicuramente voluto e consapevole) distintivo di questo lavoro è un pragmatico "buon senso", in apparenza e paradossalmente scevro dall’auspicio abolizionista espresso da Pagano. Un realismo spinto talvolta all’eccesso, con proposte, in alcuni casi, quantitativamente minori d’altre, simili, d’iniziativa parlamentare.

Ma, in carcere, il buon senso e la buona volontà non sono sufficienti, neppure per ottenere risultati minimali ("pochi, maledetti, ma subito"). E rischia di essere illusoria la dichiarata premessa "costituente" del Gruppo di lavoro: "In questa fase, il mondo politico vuole risolvere alcune sue problematiche giudiziarie di particolare attualità ed urgenza e quindi è il momento opportuno per inserire nella discussione tecnico/giuridica e politico/parlamentare tutte le urgenze e le esigenze dell’intera comunità carceraria".

Fosse così semplice, non si capirebbe come mai, proprio San Vittore, avvantaggiato dalla gestione illuminata già descritta, viva gli stessi, e talvolta ancor più drammatici, problemi di molte altre carceri: non solo quello del sovraffollamento (che spesso diventa una "coperta", un problema "oggettivo", sotto di cui nascondere ogni responsabilità e omissione), ma quello dei suicidi, della scarsa applicazione delle misure alternative, delle ottusità burocratiche, di episodi di tensione tra detenuti e custodia, etc. etc. Ma, soprattutto, non si capirebbe come mai, non solo l’indulto o l’abolizione dell’ergastolo, ma provvedimenti, assai piccoli e da tutti a parole condivisi, come la legge cd. Simeoni e la depenalizzazione, regolarmente si incagliano in qualche Commissione e finiscono "in sonno". Non si capirebbe come mai nessuna forza politica si pone il problema di "europeizzare", abbassandole, le pene edittali, o di portare la liberazione condizionale a metà pena, com’è quasi dappertutto. Diversamente, a fine luglio, è agevolmente passata (in sede deliberante in Commissione, cioè senza dibattito e voto in Aula) la riforma dell’abuso di ufficio.

 

Doppi binari e interessi diversi

 

L’idea che tangentisti e tossicodipendenti siano nella stessa barca, che alla ferrea cortina di silenzio sulle stragi e sugli archivi "paralleli" del Viminale possa corrispondere un più rapido iter dell’indulto, che il garantismo per i potenti in qualche modo riverberi sui malati di AIDS o sugli immigrati è, al meglio, una pia illusione. La realtà ci dice invece di un evidente, e assai antico, "doppio binario", uno dei quali è a fondo cieco.

Si capiscono di più le difficoltà e le persistenze di annosi problemi se la chiave di lettura, e la dimensione delle proposte, è quella non (o non solo) del buon senso, ma dell’iniziativa politica e comunicativa. Cosa che, peraltro, il Gruppo di lavoro sembra avere ben presente e che, positivamente, fruisce in modo riflesso della visibilità del suo promotore, Sergio Cusani. Appare meno presente una cultura del protagonismo e delle soggettività collettive, in luogo dello scambio politico, come parte indispensabile di ogni battaglia politica e culturale trasformativa, o anche solo di rivendicazione, per così dire, sindacale.

Il conflitto tra interessi e culture diverse (tra diritti e loro negazione, tra sostenitori di pene il più possibile umane e civili e difensori dello status quo, e, magari, nostalgici dello status quo ante riforma) non è, insomma, annullabile a colpi di buon senso. Il "contenzioso" non è composto solo da specifici e scollegati punti o articoli di legge, né, tanto meno, riconducibile entro la camicia stretta (e strumentalizzante) del, pur reale, conflitto politica-magistratura: a monte, vi sono invece trasversali culture della pena e letture sociali diverse e confliggenti; vi è un’idea oppure un’altra dei diritti, dell’esclusione e delle politiche sociali, dell’immigrazione o delle droghe.

Sarà pur vero che, nella globalizzazione, anche i diritti diventano merce, quindi soggetti a scambio; ma vero è pure che l’interesse di chi è senza diritti, socialmente debole e svantaggiato, è quello di contrastare e combattere tale logica di "mercato". Ad esempio, la questione del lavoro (come opportunità e come diritto) per i detenuti, non è - come è sembrato proporsi - risolvibile ipotizzando una specifica "gabbia salariale", un lavoro sottopagato che diverrebbe uno - l’ennesimo - stigma che andrebbe a gravare sulla persona detenuta.

Ai fini della risocializzazione e dell’ampliamento di opportunità lavorative per chi sta in galera, più che appellarsi al "buon cuore", da un lato, o alla massimizzazione dell’interesse economico dell’imprenditore, dall’altro, appare più utile aprire magari una "vertenza" per capire come e dove sono spesi annualmente centinaia di miliardi. Mica bruscolini. Secondo la consueta relazione della Corte dei Conti, nel 1996, il 21% dei 4.013 miliardi assegnati all’amministrazione penitenziaria è stato stanziato sotto la voce "detenuti", mentre il 72% è andato in stipendi del personale. Altre ingenti cifre, stanziate dalle Regioni e dal fondo sociale europeo, sono utilizzate per corsi di formazione, in gran parte non mirati sul mercato del lavoro e che non residuano alcuna abilità professionale "spendibile" fuori del carcere. Sarà semplicistico, ma viene da pensare che assegnando direttamente tale denaro ai destinatari, reinseriremmo, veramente e non per finta, migliaia di persone, il fenomeno della recidiva subirebbe una drastica contrazione, l’opinione pubblica sarebbe tranquillizzata, pur se qualche "imprenditore morale" o formatore finirebbe disoccupato.

 

Pragmatismo e principi

 

Meno semplicisticamente, il pragmatismo del buon senso non deve mai abbandonare o accettare di sospendere alcuni principi di fondo, tra cui l’indisponibilità a qualsivoglia scambio di alcuni fondamentali diritti di eguaglianza e cittadinanza. Né rinunciare a una convinzione (di cui, in verità, appaiono digiune molte delle persone, realtà od associazioni che intervengono sul carcere) che è ribadita a chiare lettere in un’altra delle iniziative interne di San Vittore, il giornale "Facce & maschere", programmaticamente scritto "in primo luogo da persone che vivono o hanno vissuto direttamente sulla propria pelle l’esperienza della detenzione", perché il principio è quello di "lavorare "con" e non lavorare "per" le detenute e i detenuti". Questo prendere parola in prima persona, senza deleghe, questo voler riprendere in mano la propria vita e il proprio destino, è segnale e invito forte ad ampliare l’orizzonte: ché non solo di "portare a casa" punti di riforma si tratta, ma di incidere, in senso culturale e politico radicalmente trasformativo, sul modo con cui una società guarda e pensa alla pena e al carcere, cominciando magari a ridurne il danno umano e i costi sociali.

 

I confini di Ekotonos

 

"Facce & maschere" nasce all’interno di un altro progetto, in atto a San Vittore dal 1992, pur con minore visibilità mediatica: si chiama "Ekotonos" ed è articolato in commissioni per l’autoassistenza, corsi all’uso della città, alla prevenzione medico-sanitaria, corsi di geografia esperienziale. Eko sta per "casa, abitazione naturale" e tonos per "tensione": vale a dire, tensione all’abitazione naturale (sapendo che mai essa potrà essere il carcere, per riformato che sia), ma, assieme, significa abitare i confini, sviluppare contaminazioni comunicative e cognitive. Un progetto particolarmente attento alle realtà delle tossicodipendenze e a mettere in atto sinergie, all’interno e all’esterno, dell’interno con l’esterno. Tutti gli interessanti documenti del progetto sono disponibili in Internet all’indirizzo http://www.sociol.unimi.it/cayenna, un sito che anch’esso nasce a partire dalle prolifiche attività di San Vittore. A proposito: da settembre è in rete anche l’Associazione Vittime dell’Ingiustizia (oltre che del progetto, ogni tanto bisogna ricordarsi della denuncia...): http://www.barattorock.com/avi.

 

La riforma muove sempre dal basso

 

La mole di proposte sviluppate dal Gruppo di lavoro di Milano costituisce una base non indifferente di cui il legislatore dovrebbe prontamente appropriarsi, integrandolo con le preziose osservazioni che vengono dal carcere di Pisa e da Adriano Sofri in particolare, nonché da altre situazioni, vecchie e nuove, strutturate (la già citata Ekotonos, il gruppo Prometeo di Torino, il lavoro diretto della LILA nelle carceri, il Gruppo Abele sulle droghe, per ricordarne solo alcune di quelle che hanno come spirito quello di lavorare "con" e non "per"; e, così pure, all’esterno, le riflessioni di Antigone e altre associazioni). In fondo, è tempo (e il tempo, in galera, è tutto) e lavoro guadagnato per il Comitato sui problemi penitenziari recentemente istituito in seno alla Commissione Giustizia della Camera.

Altro paio di maniche, naturalmente, è la traduzione in leggi e normative. Le necessità sono, in qualche modo, tutte sul tappeto, ripetute sino alla noia da chi i problemi li conosce da vicino o, meglio, li vive dal di dentro. La questione vera è la volontà politica e la sollecita messa nel calendario dei lavori parlamentari almeno di alcune delle proposte (il che, facilmente, induce al pessimismo). E qui torniamo alla politica, alle sue dinamiche, ai conflitti che la attraversano, alle mediazioni alte che vanno conquistate. Sapendo che non vi è riforma possibile, se vi è silenzio e passività dei diretti interessati, per quanto autorevoli siano le proposte di giuristi e associazioni esterne e meritorie le sensibilità di non pochi parlamentari o politici.

In passato, fu l’iniziativa dei detenuti a determinare le condizioni politiche per le riforme del 1975 e del 1986. Oggi, di nuovo, il carcere torna faticosamente a parlare e proporre, ad essere soggetto politico. Per questo, non per rimorchio di Tangentopoli, nuove riforme si fanno possibili e attuali. Vediamo di non perdere il giro.

San Vittore, di Sergio Segio (pubblicato sul settimanale "il diario" novembre 2001)

 

Si facesse un sondaggio tra reclusi e operatori di San Vittore, l’antico penitenziario milanese non sarebbe sicuramente chiuso. Ma, in questo caso, i partiti che dell’arte della consultazione hanno fatto una contundente arma politica si guarderanno bene dal chiedere l’opinione e il gradimento di quanti vivono e lavorano al numero 2 di piazza Filangieri. Il motivo è assai semplice: riassumibile in una parola, business, e in due cifre, 50.000 metri quadrati (corrispondenti alla superficie dell’area demaniale in questione) e almeno 500 miliardi (vale a dire il valore della stessa ai prezzi correnti). Scusate se è poco.

Dunque, possiamo dare per relativamente certa la prossima chiusura di questo carcere. Come con lo spot del Dash, il Comune probabilmente offrirà in cambio nuovi siti per l’edificazione di una o due nuove carceri. Meglio due: rendono il doppio a costruttori e ingegneri.

A proposito di ingegneri: il progettista di San Vittore e direttore dei lavori (cominciati nel giugno 1872) si chiamava Francesco Lucca. Morì prima di vederne la fine. Il carcere fu ultimato nel 1879 e costò 2.800.000 lire, quasi il doppio di quanto preventivato (1.550.975,19 lire): 3.645 lire per ognuno dei 768 posti, peraltro da subito insufficienti. Nulla di nuovo, insomma: sia rispetto al sovraffollamento, sia riguardo alla lievitazione dei costi.

Dopo 122 anni, e infiniti miliardi di ristrutturazioni, occorre dire che San Vittore non va chiuso. Mi spiace (anzi, un po’ mi vergogno) di essere proprio io a perorare questa causa.

Intendiamoci: anche San Vito, come confidenzialmente lo chiamiamo noi vecchi galeotti, fa schifo, come tutte le carceri (nelle celle si usa dire: la galera è galera, proprio a significare che la mancanza di libertà non si può edulcorare). Come tutte le carceri produce sofferenza, morte, ingiustizie, recidiva, spreco economico e di vite. Tuttavia, non va chiuso e i reclusi, potessero scegliere, non vorrebbero trasferirsi in altra parte per due validi motivi: perché Luigi Pagano è un buon direttore, e questo per la vita dei reclusi significa assai più di celle meno affollate o moderne; ma soprattutto perché un carcere conficcato nel cuore della città ha un alto valore simbolico e "pedagogico". Non già come monito per i malandrini, piuttosto come memento per gli onesti cittadini: a non rimuovere e non nascondere del tutto sotto il tappeto del pregiudizio e dell’indifferenza quella parte di umanità che vive dietro le sbarre. Scusate se è poco.

 

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