Processi ad agenti ed operatori

 

Per non dimenticare: cronaca delle inchieste sulle morti in carcere

 

Il suggerimento di completare il dossier “Morire di carcere” con una ricerca sugli esiti delle inchieste giudiziarie sulle morti dei detenuti ce l’ha dato Sergio Segio che, in un articolo per Fuoriluogo, scrive: “La sensazione è che le morti di carcere non vedano mai o quasi riconosciute le eventuali responsabilità. Tanto che al Dossier si potrebbe forse aggiungere un sottotitolo: L’impunità come regola”.

La documentazione raccolta può sembrare esigua, riguardando “appena” 32 procedimenti e, per di più, relativi a morti avvenute nell’arco di ben 10 anni. Per ottenere questo risultato, però, abbiamo passato al vaglio qualcosa come 5.000 articoli giornalistici riguardanti il carcere, attingendo sia dalla rassegna stampa del Centro di Documentazione Due Palazzi, sia da quella dell’Associazione Antigone, sia dai siti internet di altre Organizzazioni impegnate in ambito penitenziario.

Assieme ai processi sulle morti abbiamo monitorato anche quelli sui presunti pestaggi e sui maltrattamenti subiti dai detenuti: anche in questo caso gli articoli rintracciati hanno permesso di ricostruire solo una ventina d’inchieste, e quasi nessuna fino alla sentenza definitiva.

 

Se una volta su due la morte di un detenuto passa sotto silenzio, nove volte su dieci i processi per queste morti non trovano spazio sui giornali. Tantomeno ne trovano le notizie relative ai processi per le presunte violenze e omissioni commesse a danno dei detenuti, che invece non sono così rari come la gente pensa.

I procedimenti penali in corso, a carico di agenti della Polizia Penitenziaria, sono 643 e riguardano, in totale, 940 uomini. La conferma di queste cifre viene da una fonte non sospettabile, Donato Capece, segretario del Sappe, che in un intervento su “L’Avvenire”, del 16 maggio 2003, le commenta così: “Nel 90% dei casi i processi si concludono con l’assoluzione”. E cita l’esempio di Secondigliano “dove l’anno scorso sono stati denunciati 69 agenti… ma il giudice li ha assolti tutti”. Probabilmente Capece ha ragione e, su oltre 600 processi, forse 60 si concluderanno con una condanna, ma il problema è che sugli organi d’informazione non si trova quasi traccia di queste condanne; neanche sui quotidiani locali, ovviamente i più attenti alle cronache locali.

E poi non ci sono solo i processi a carico degli agenti, spesso finiscono sotto accusa anche i medici penitenziari, in qualche caso anche i direttori e altri operatori “civili” del carcere. Nel complesso, quindi, centinaia e centinaia di avvisi di garanzia, di udienze, di rinvii a giudizio, di sentenze dei quali i giornalisti sembrano non accorgersi. L’opinione pubblica non è interessata? oppure non vogliono dare un dispiacere a qualcuno? La seconda ipotesi è la più probabile.

 

Ogni imputato vorrebbe evitare che sia data pubblicità alla propria vicenda penale, ma quelli che sembrano riuscirci meglio sono gli operatori istituzionali e la ricerca che abbiamo svolto ne è la dimostrazione più evidente: 2 condanne, 5 archiviazioni e 6 assoluzioni sono le uniche sentenze rintracciate (per quanto riguarda i detenuti morti). Di tutti gli altri processi s’è perso il filo conduttore: forse sono terminati senza diventare notizia; forse vanno avanti, tra rinvii ed eccezioni di procedura, e non se ne vede ancora la fine, forse la notizia è stata data in modo che non se ne è accorto nessuno.

Riguardo ai processi per i pestaggi, l’attenzione si concentra sulle vicende più clamorose, da quella del “San Sebastiano” di Sassari, a quella per i “fatti di Biella”, o della “cella X” di Bolzano. In questi casi le testate locali fanno un accurato resoconto di ogni udienza, permettendo a tutti di comprendere il travaglio di un’istituzione chiamata a giudicare se stessa (tribunali e carceri fanno riferimento allo stesso ministero). Le 8 sentenze di condanna (di cui 4 per il presunto maxipestaggio di Sassari) e le 6 assoluzioni costituiscono tutto il risultato del faticoso procedere della giustizia… e del nostro faticoso lavoro di ricerca. Di altri 16 processi non siamo riusciti a conoscere l’epilogo (se c’è mai stato).


Con questi pochi numeri è difficile anche fare una mappatura territoriale sul livello d’illegalità (segnalata, o accertata) presente nelle carceri italiane. È possibile avere un’idea della sua dimensione complessiva però, nel momento in cui dagli istituti di pena della Puglia non uscisse nemmeno una denuncia, dovremmo credere che in quella regione gli operatori si attengano scrupolosamente alle norme di legge, oppure che i detenuti siano talmente sfiduciati e rassegnati da non provare nemmeno a mettersi contro l’istituzione?

In proposito, è interessante la vicenda di Franco Calabrese. L’abbiamo tratta dall’articolo “Un anno di normale disagio a Regina Coeli”, dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino. “Novembre 1999: Franco Calabrese, arrestato per guida senza patente e oltraggio, denuncia che un sabato mattina di novembre, mentre fruiva dell’ora d’aria, ebbe una crisi epilettica. In stato di semi-coscienza, sarebbe stato portato in isolamento con la motivazione di una visita da parte del neurologo. Nella cella, molto piccola, vi era un materasso sporco d’urina. Di notte, secondo quanto da lui sostenuto, viene svegliato da un calcio alla gamba e da urla; avendo rifiutato di dormire sul materasso, il detenuto sarebbe stato violentemente picchiato per molti minuti. Durante la permanenza nella cella di isolamento, a seguito di una richiesta di aiuto gridata al direttore del carcere, afferma di essere stato nuovamente picchiato. A quel punto avrebbe cercato di difendersi. Viene finalmente visitato dall’ortopedico. Ma Calabrese viene a sua volta denunciato dagli agenti di polizia penitenziaria e condannato”.

 

Accade che, dopo un episodio di violenza, i protagonisti dello stesso si cautelino denunciando il detenuto di averli aggrediti. Di fronte alle due contrapposte accuse, la prima depositata da una persona su cui grava un logico pregiudizio e con reputazione nulla, la seconda da un drappello di pubblici ufficiali, il giudice dia regione ai secondi. Però sono le possibili ritorsioni all’interno del carcere a dissuadere i più dal proposito di “far valere i propri diritti”. Nella quotidianità della detenzione, infatti, dipendi completamente dagli operatori: dagli agenti, che aprono e chiudono la cella; fino al direttore, che decide di darti un lavoro, oppure di fare una relazione al ministero “consigliando” il tuo trasferimento all’altro capo della penisola. Solo i detenuti morti sono “inattaccabili”… quelli vivi hanno molto da perdere!

La madre di Marcello Lonzi, morto l’11 luglio 2003 nel carcere di Livorno in circostanze quantomeno sospette, ha un’altra paura: “Adesso ho paura che su questa vicenda non venga mai fatta chiarezza, ho paura che prevalga la volontà di nascondere la verità, di nascondere uno scandalo”. Scrive questo in un’accorata lettera al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e Luigi Manconi, dell’Associazione A buon diritto, aggiunge: “Maria Cioffi ha scritto al Ministro della Giustizia, si è rivolta ad alcuni parlamentari e allo stesso capo dello Stato: vuole la verità. E che sia convincente. C’è un giudice a Livorno? (C’è: e ha aperto un fascicolo). C’è un parlamentare che voglia andare fino in fondo?”. Vedremo se qualcuno vorrà e potrà andare fino in fondo… l’esperienza suggerisce sano scetticismo.

 

In ogni caso, l’individuazione delle responsabilità su di un singolo caso, solo raramente riesce a produrre dei miglioramenti duraturi nella vita di un carcere: se un agente, o un direttore, subisce una condanna, questo non intacca per nulla la mentalità dell’istituzione, contro la quale lottano, peraltro, anche tanti operatori “illuminati”. Ma c’è poco da fare, il carcere è un mostro tremendamente inerte, puoi spezzarti le reni cercando di smuoverlo un po’ e, appena smetti di spingerlo, torna immobile. Alle “Vallette” di Torino e a San Vittore i rispettivi direttori hanno cercato soluzioni nuove per prevenire i suicidi: hanno coinvolto il volontariato e i carcerati più “vecchi” (due risorse finora mai considerate, su questo campo) in progetti di sostegno alle fasce più svantaggiate della popolazione detenuta, cioè i “nuovi giunti”, i “tossici”, gli indigenti. Con quali risultati, vedremo, ma sarà sempre meglio che rinchiudere i detenuti "a rischio" in celle completamente vuote, il che significa soltanto aumentarne ulteriormente le sofferenze, visto che è possibile uccidersi anche sbattendo la testa contro il muro (e un rumeno di 40 anni lo ha fatto davvero, a Rebibbia, lo scorso dicembre).

 

Forse il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (Manconi è stato nominato Garante per il Comune di Roma, ma manca ancora una legge nazionale, che dia effettivi poteri a questa figura) potrà scardinare un po il collaudato sistema di protezioni che fanno del carcere un luogo diverso da quello voluto dalla Costituzione: un luogo dove ai detenuti non si chiede ladeguamento alle regole della civile convivenza attraverso la loro comprensione, ma si chiede un asservimento, una passiva accettazione di tutto ciò che viene deciso sulle loro teste. Un luogo dove la dignità, la salute e la stessa vita dei detenuti troppo spesso valgono poco.

Consiglio d’Europa. Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.)

Stralci dal Rapporto sull’Italia per il periodo 1 gennaio - 31 dicembre 2000

 

Dopo la prima visita periodica del 1992, il C.P.T. era arrivato alla conclusione che fra le persone private della libertà dalle forze dell’ordine, soprattutto alcune categorie (extracomunitari, persone arrestate per violazione della legge sugli stupefacenti, etc.) corrono attualmente un maggior rischio di maltrattamenti.

Visto in particolar modo il comportamento della Polizia di Milano, sembra che la situazione delle persone detenute sia di pari degrado rispetto a quanto riscontrato dopo la prima visita periodica del Comitato. Nel Rapporto relativo alla prima visita periodica, il C.P.T. ha raccomandato che il personale direttivo delle forze dell’ordine indicasse senza ambiguità ai propri subordinati che certi maltrattamenti sono inammissibili e che sarebbero stati severamente sanzionati.

La migliore garanzia possibile contro i maltrattamenti è che il ricorso a tali metodi sia rifiutato senza ambiguità dagli agenti di polizia. Di conseguenza, gli insegnamenti di materie attinenti ai diritti umani ed un’adeguata formazione professionale costituiscono una parte essenziale di una strategia di prevenzione dei maltrattamenti.

 

Il C.P.T. raccomanda

 

che una grande priorità sia accordata all’insegnamento dei diritti umani ed alla formazione professionale dei membri delle forze dell’ordine di tutti i gradi e di tutte le categorie. Esperti non appartenenti a questa categoria devono essere incaricati della formazione;  

che una attitudine alla comunicazione interpersonale divenga un fattore essenziale nella procedura di reclutamento dei membri delle forze dell’ordine e che un’attenzione considerevole sia posta all’acquisizione ed allo sviluppo di tecniche di comunicazione interpersonale durante la loro formazione.

 

Conviene ripetere che un importante mezzo di prevenzione dei maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine consiste in un esame diligente di tutti i reclami formulati a riguardo e nell’applicazione di sanzioni penali appropriate.

Una simile misura può avere effetto dissuasivo sugli appartenenti alle forze dell’ordine inclini a maltrattare persone detenute, i quali possono avere l’impressione di poter agire impunemente. A tal riguardo il C.P.T. ha preso nota delle informazioni trasmesse dalle autorità italiane a proposito dei reclami per maltrattamenti contro membri delle forze dell’ordine e delle sanzioni disciplinari e/o penali inflitte. Il C.P.T. vorrebbe ricevere queste informazioni per l’anno 1996.

Il C.P.T. vorrebbe ugualmente ricevere informazioni dettagliate sulle procedure disciplinari applicate nei casi di denunce di maltrattamenti contro membri delle forze dell’ordine, comprese le garanzie prese a tutela dell’obiettività della decisione.

Statistiche sulla ricerca

 

Causa della morte

 

Suicidio

Malattia

Overdose

Cause "sospette"

9

15

4

6

 

Titolare delle indagini  (n° di procedimenti aperti)

 

Procura della Repubblica

Ministero della Giustizia

Consiglio Superiore della Magistratura

40

5

2

 

Reato ipotizzato  (n° di procedimenti aperti)

 

Omicidio volontario

3

Omicidio colposo

24

Morte in conseguenza di altro reato

1

Lesioni

5

Maltrattamenti

1

Favoreggiamento

4

Falso

1

Occultamento di atti

1

Omissione di atti d’ufficio

1

Non specificato

6

 

Persone inquisite (n° di procedimenti aperti)

 

Agenti di Polizia Penitenziaria

15

Dirigenti sanitari e medici

18

Direttori delle carceri

9

Magistrati di Sorveglianza

2

Psicologi

1

Psichiatri

1

Infermieri

2

Consulenti del Ministero

1

Ignoti

6

 

Esito dei procedimenti

 

Archiviazione

Assoluzione

Condanna

Sconosciuto

(o proced. in corso)

5

6

2*

34

 

* Le condanne riguardano 1 infermiera (Prato) e 3 medici (Padova)

 

 

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