Dossier: "Morire di carcere"

 

"Morire di carcere": dossier agosto 2008

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose

 

Continua il monitoraggio sulle "morti di carcere", che nel mese di agosto registra 7 nuovi casi: 5 morti per malattia, 1 per suicidio ed 1 per sciopero della fame.

 

Nome e cognome

Età

Data morte

Causa morte

Istituto

Dule G., albanese

41 anni

08 agosto 2008

Malattia

Regina Coeli (Roma)

Antonio Serra

45 anni

11 agosto 2008

Suicidio

Nuoro

Ali Jubury

40 anni

15 agosto 2008

Sciopero fame

L’Aquila

Nicola G., italiano

47 anni

21 agosto 2008

Malattia

Rebibbia (Roma)

Okyere Nana Mensah

35 anni

23 agosto 2008

Malattia

San Vittore (Milano)

Rachid B.

29 anni

25 agosto 2008

Malattia

Trento

Franco Paglioni

44 anni

25 agosto 2008

Malattia

Forlì

 

Malattia: 8 agosto 2008, Carcere Regina Coeli

 

Dule G., detenuto albanese di 41 anni, muore di cancro, aspettava la misura alternativa. È morto nel centro clinico del carcere di Regina Coeli mentre attendeva, invano, che le autorità decidessero sulle sue richieste di scontare i pochi mesi di pena residua a casa, visto il peggiorare delle condizioni di salute minate da un tumore. Protagonista della vicenda (avvenuta l’8 agosto e resa nota solo oggi), segnalata dal Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni, un detenuto albanese di 41 anni, Dule G., che avrebbe finito di scontare la pena nel marzo 2009. A quanto risulta al Garante, l’uomo (che aveva una figlia di sei anni ed una convivente con cui aveva regolari colloqui e che ha saputo della morte del compagno dagli operatori del carcere) era arrivato a Regina Coeli dal carcere di Velletri lo scorso maggio e, in poco più di 3 mesi, aveva sostenuto quattro visite mediche specialistiche e presentato due istanze di detenzione domiciliare per motivi di salute, visto l’evidente deperimento fisico. Al momento della sua morte, non risultavano ancora fissate udienze per discutere queste istanze. Nato a Valona nel 1967, Dule era arrivato in Italia nel 1991 come regolare e dopo aver lavorato come operaio edile nel Nord, si era trasferito a Roma nel 1996: arrestato per reati legati alla droga, era stato condannato a 5 anni e mezzo di carcere. Dopo un primo periodo di detenzione a Civitavecchia (dove lavorava per mantenere la famiglia) era stato trasferito a Velletri e poi a Regina Coeli. Lo scorso aprile il tribunale di sorveglianza di Velletri aveva rigettato la sua richiesta di differimento pena per motivi di salute in base ad una relazione medica della direzione sanitaria del carcere che aveva giudicato la sua malattia compatibile con il regime carcerario. "Trovo incredibile - afferma in una nota il Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni - che un malato non abbia avuto risposte alle sue richieste di trascorrere serenamente in casa gli ultimi mesi di vita, quasi che le patologie gravi non siano elementi da valutare con urgenza. Una vicenda ancor più grave se si considera che quest’uomo doveva uscire dal carcere fra sei mesi". Pochi giorni fa, ricorda il Garante, un altro detenuto malato è morto a Civitacastellana in attesa che il Tribunale decidesse la sua istanza di differimento pena: "L’ennesima conferma - conclude Marroni - che i tempi della giustizia sono drammaticamente più lunghi di quelli delle malattie". (Agi, 30 agosto 2008)

 

Suicidio: 9 agosto 2008, Carcere di Nuoro

 

Antonio Serra, 45 anni, sì è impiccato in cella. Era considerato un detenuto "tranquillo", tanto che si era meritato una cella singola, dove scontava il residuo di pena, per fatti di droga. Sabato sera, tuttavia, ha voluto farla finita con la sua vita: Antonio Serra, 45 anni, muratore, nativo di Aggius, si è impiccato, lasciandosi andare con uno strattone talmente forte che è morto nel giro di pochissimi istanti. Quando lo hanno trovato gli agenti di Polizia Penitenziaria, intorno alle ore 22, ormai non c’era più nulla da fare. L’uomo era stato visto anche pochi minuti prima che si consumasse la tragedia. Antonio Serra, comunque, avrebbe lasciato uno scritto dove spiega le ragioni del suo gesto estremo. Il messaggio autografo è ora nella mani della magistratura, che ha aperto un fascicolo sul caso. Il corpo del detenuto è stato rimosso soltanto dopo l’autorizzazione del giudice di turno e intorno alle 3 della notte è stato portato all’obitorio dell’ospedale San Francesco di Nuoro, per i necessari accertamenti necroscopici. Anche l’amministrazione penitenziaria, come sempre succede in casi come questo, ha avviato una inchiesta interna. (La Nuova Sardegna, 12 agosto 2008)

 

Sciopero della fame: 10 agosto 2008, Carcere di L’Aquila (ricoverato in ospedale)

 

Ali Jubury, detenuto iracheno 40enne, si lascia morire per fame. Riteneva ingiusta la sua condanna ad un anno e tre mesi per tentata rapina, emessa dal Tribunale di Milano e così un detenuto iracheno, prima a Vasto e poi all’Aquila, ha avviato uno sciopero della fame che in poco tempo ha debilitato il suo fisico minuto, rendendo impossibile il recupero anche quando, aiutato da personale e psicologi, è tornato sulla sua decisione di lasciarsi morire. Il corpo di Ali Jubury, 40 anni, è nell’obitorio dell’ospedale dell’Aquila. Nel capoluogo di regione era stato ricoverato il 28 maggio con un trattamento sanitario obbligatorio. Era stato necessario. Lucido, anche se debilitato, il detenuto aveva infatti rifiutato di rimanere per farsi curare. Era stato appena trasferito dal carcere di Vasto, dove 15 giorni prima aveva cominciato a digiunare. Contadino nel suo paese, la promessa di partecipare ad un corso di giardinaggio lo aveva fatto tornare a sperare. "Abbiamo interessato l’ambasciata per vedere se vogliono rimpatriare la salma - ha detto oggi il direttore del carcere Tullio Scarsella -. In caso contrario, sarà sepolto nel cimitero aquilano a spese dell’amministrazione penitenziaria come prevede il regolamento. Stiamo anche cercando un Imam per lo svolgimento del rito funebre secondo le loro tradizioni". (Apcom, 12 agosto 2008)

 

Detenuto morto per fame, i commenti e le polemiche

 

Si lascia morire facendo lo sciopero della fame, perché ritiene la sua condanna a un anno e tre mesi, emessa dal tribunale di Milano per tentata rapina, "un’ingiustizia". Il pesante "testamento" lo lascia un detenuto iracheno, di 40 anni, Alì Jubury, dal carcere Le Costarelle dell’Aquila, dove era stato trasferito il 20 maggio scorso dalla Casa Circondariale Torre Sinello di Vasto e dove, appunto, aveva cominciato lo sciopero della fame.

Alì Jubury è morto domenica mattina, nel reparto di psichiatria dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila, dove era ricoverato dal 28 maggio scorso. "Lo avevano trasferito nel nostro istituto di pena", dice il direttore del carcere Le Costarelle, Tullio Scarsella, "perché lo sciopero della fame aveva ridotto il povero Ali in uno stato di debilitazione abbastanza grave. Da noi c’è un’ottima assistenza medica e, infatti, lo abbiamo sottoposto a cure intensive da subito. Ma dopo una settimana siamo stati costretti a richiedere il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio), perché nonostante i colloqui con i nostri psicologi, nonostante gli parlassi anch’io molto spesso, lui prima si convinceva, poi rifiutava il cibo e aveva cominciato anche a staccarsi le flebo. A quel punto sono stato costretto a rivolgermi alle strutture della Asl".

"Devo sottolineare che siamo stati in contatto giornaliero con l’ospedale aquilano e gli operatori sanitari, e dobbiamo essere orgogliosi per le forze e il tempo speso per una persona che può essere definita, con tutto il rispetto, un "povero Cristo". Ali aveva soltanto la madre, in Iraq, ed è irrintracciabile telefonicamente", conclude il direttore Scarsella, "come ci ha detto l’ambasciata irachena a Roma, e quindi non sappiamo neppure dove seppellirlo".

"In ospedale ha ricevuto tutte le cure possibili, ma era molto debilitato, era anoressico e continuava a rifiutare il cibo. Una persona si può alimentare con flebo, sondini gastrici, come è stato fatto, ma, soprattutto su un paziente già molto provato e con il fisico così debilitato, non è la stessa cosa come ingerire cibo per bocca", sostiene il direttore generale della Asl dell’Aquila, Roberto Marzetti.

"Lo abbiamo ricoverato in psichiatria, poi in rianimazione e ci sono stati dei sensibili miglioramenti; poi in pneumologia, in lungodegenza post-acuzie. Sembrava si stesse riprendendo, invece, come mi hanno riferito i medici, nella notte tra sabato e domenica ha avuto una crisi e il povero Ali non ce l’ha fatta. Era diventato il beniamino dell’ospedale e tutti facevano il "tifo" per lui. Avevamo chiesto anche al giudice il permesso di farlo assistere 24 ore su 24 da volontari: hanno risposto in diciotto e il giudice ha dato l’assenso". Ali Jubury avrebbe finito di scontare la pena tra sei mesi. (Il Centro, 13 agosto 2008)

 

Giulio Petrilli (Rc): istituire un Garante

 

"Dobbiamo tutti interrogarci sulla morte di un giovane detenuto iracheno, Alì Jubury, ricoverato nell’ospedale dell’Aquila e in sciopero della fame da due mesi, per denunciare la sua spropositata condanna e l’incredibile ingiustizia nel non vedersi concessa la libertà condizionale, che da incensurato e per il furto di un telefonino e dopo dieci mesi di carcere gli è stata negata. Lui che veniva dalla guerra, dai disastri che essa aveva provocato e provoca". Ad intervenire è l’esponente di Rifondazione comunista ed ex segretario del partito Giulio Petrilli.

"Questa morte osserva - deve farci riflettere su due drammi molto simili, che si avvicinano e si congiungono: il carcere e la guerra. Sì è così entrambi possono distruggere la personalità di un individuo. Ali , le ha vissute tutte e due queste condizioni ed ha preferito lasciarsi morire, a differenza di altri ha scelto la via di un suicidio lento, ma ha cercato con lo sciopero della fame anche di comunicare con l’esterno, ha cercato un aiuto, un grido disperato persosi nel silenzio. Se ci fossero stati consiglieri regionali o assessori, che applicano la loro possibilità di girare nelle carceri, se ci fosse stato il garante regionale dei detenuti, se ci fosse stato il garante comunale, se ci fosse stato un minimo di attenzione al pianeta carcere da parte della classe politica o della società di fuori, ora - afferma Petrilli - avremmo salvato Ali. Faccio appello a tutti i consiglieri regionali e assessori a rispettare il mandato che prevede la necessità di verificare le condizioni di vita e i diritti dei detenuti, e quindi di girare nelle carceri abruzzesi. Immediatamente la Regione ed anche il Comune de L’Aquila istituiscano la figura del garante dei detenuti", conclude Giulio Petrilli.

 

Radicali: interrogazione urgente al Governo

 

I deputati Radicali eletti nelle liste del Pd Rita Bernardini e Maurizio Turco hanno presentato un’interrogazione urgente ai Ministri della Giustizia, dell’Interno e degli Esteri sulla morte del cittadino iracheno Alì Jubury, detenuto nel carcere dell’Aquila e deceduto a seguito di un lungo sciopero della fame che aveva intrapreso perché riteneva ingiusta la condanna inflittagli dal tribunale di Milano.

I due deputati radicali chiedono innanzitutto di chiarire, dal punto di vista processuale, quale sia stato effettivamente il reato imputatogli e l’entità della pena perché c’è una notevole discordanza fra le notizie diffuse dai mezzi di informazione. Per alcuni, infatti, Alì Jubury sarebbe stato condannato a un anno e tre mesi per tentata rapina mentre, per altri, la condanna sarebbe stata a tre anni di reclusione per il furto di un telefonino cellulare. I radicali chiedono inoltre di sapere se nei tre lunghi mesi di sciopero della fame il cittadino iracheno sia stato adeguatamente seguito dai sanitari dal punto di vista fisico e psicologico e se, con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, sia stato prestato il soccorso necessario che avrebbe potuto evitarne il decesso.

Rita Bernardini e Maurizio Turco hanno annunciato la loro iniziativa parlamentare con queste parole: "Le carte di Alì Jubury erano in regola solo per morire. Contadino, povero, extracomunitario, iracheno, carcerato, solo. Abbiamo chiesto chiarimenti ai ministri per sapere come siano andate effettivamente le cose, ma alcuni indizi più che parlarci di Alì Jubury, ci parlano di noi, di ciò che realmente stiamo divenendo come cittadini italiani e di cosa effettivamente oggi rappresentino le istituzioni ad ogni livello".

 

Franco Corbelli (Movimento Diritti Civili): Alfano intervenga

 

Sul detenuto iracheno morto a seguito di uno sciopero della fame nel carcere dell’Aquila intervenga il ministro della Giustizia Angelino Alfano. A chiederlo è il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli. Alì Jubury, 40 anni, aveva iniziato lo sciopero della fame per gridare a tutti la sua innocenza ed è deceduto nei giorni scorsi. La notizia è stata riportata dai giornali locali. Il giovane immigrato era stato condannato ad un anno di reclusione dal Tribunale di Milano per tentata rapina.

A L’Aquila era giunto dopo una prima detenzione a Vasto (Chieti). Corbelli chiede l’apertura di una immediata inchiesta per "accertare eventuali responsabilità" a tutti i livelli per quanto accaduto e per acclarare perché il giovane iracheno continuasse a restare in carcere e non godesse dei benefici previsti per condanne inferiori ai tre anni e perché nonostante lo sciopero della fame, iniziato per gridare la sua innocenza, nessuno lo ha ascoltato ed è intervenuto". "Un detenuto che muore in carcere non fa più notizia, Se poi si tratta di un immigrato, non interessa a nessuno. Su questo drammatico caso - afferma Franco Corbelli - non deve invece calare il silenzio. Chiedo verità e giustizia per questa morte".

 

Giustizia: Alì poteva salvarsi e uscire, nessuno glielo ha detto

 

La morte di Ali Jubury, lunedì all’ospedale dell’Aquila, ci ha messo di fronte un’evidenza tragica: si può morire di fame, isolati dal mondo per uno sciopero di cui nessuno sa niente. Estrema dimostrazione del fatto che dal carcere non esci se non hai nessuno alle spalle. Per sapere qualcosa in più sulla vicenda, abbiamo contattato il carcere Torre Sinello di Vasto dove Ali è arrivato "sfollato" da Milano.

Un commissario che vuole rimanere anonimo, racconta: "Ali è stato trasferito dalla riviera adriatica a L’Aquila perché a Vasto il servizio di guardia medica è di dodici ore mentre nel penitenziario del capoluogo abruzzese è permanente. Sono stati fatti tutti i passaggi necessari per comunicare il suo sciopero, compresa la segnalazione di un "inizio di evento critico". Ho parlato con lui personalmente, balbettava la nostra lingua ma ponendo molta attenzione si riusciva a comprendere quello che diceva. Quando è uscito da qui, pur in sciopero della fame, era in condizione discrete ed è andato via con i suoi piedi".

Anche se Ali è stato assistito, come da procedura, nessuno ha ascoltato la ragione del suo sciopero: avere giustizia. Si dichiarava innocente e questo evidentemente per lui era più importante dell’aria che respirava. Eppure sarebbe bastato un semplice avvocato per aiutarlo veramente. Rosetta Crugnale presidente del Centro informazione e prima accoglienza (Cipa), associazione Onlus di Vasto, spiega: "La nostra associazione funge anche da comunità ospitante per i detenuti che possono farne richiesta. Questi possono chiedere all’educatore di scontare la pena dentro la comunità. Nessuno mi ha messo a conoscenza del caso di Ali. Di certo un detenuto con una pena di un anno e tre mesi avrebbe potuto essere ospitato da noi".

Marco Gelmini segretario del Prc abruzzese fa notare che "i tanti parlamentari che hanno visitato in carcere l’ex governatore d’Abruzzo Ottaviano Del Turco avrebbero potuto raccogliere anche le parole del detenuto iracheno". Sono i senatori Franco Marini, Giovanni Legnini e Marcello Pera, i deputati Pierluigi Mantini, Giancarlo Lehner e Renato Farina. "Nessuno di loro - scrive Gelmini - si è accorto, in queste vistose trasferte, di un detenuto extracomunitario che stava morendo per uno sciopero della fame. Se uno solo avesse prestato anche attenzione alle condizioni generali delle carceri forse sarebbe passato all’Aquila e avrebbe raccolto le parole di Alì Jubury".

Riccardo Arena, da anni conduttore di "Radio Carcere", di situazioni difficili dietro le sbarre ne ha conosciute tante: " Il caso di Ali è emblematico del mal funzionamento del tribunale di sorveglianza. Non si capisce infatti perché sia rimasto in carcere. Per la condanna che aveva, avrebbe dovuto avere la pena sospesa. Anche nel caso in cui avesse avuto precedenti, scontata la metà della pena avrebbe potuto usufruire di una misura alternativa. Perché non si è ricorso in appello? Perché era immigrato? Perché non aveva un buon avvocato? Può essere. A volte quando stai dentro puoi diventare solo un pacco postale. Le carceri abruzzesi - continua Arena- sono molte isolate. Il caso di Ali, nella sua tragicità dovrebbe aiutare a farci riflettere su quante sono le proteste nei penitenziari di cui non sappiamo assolutamente niente".

Franco Corbelli, leader del Movimento Diritti Civili, denunciando l’accaduto, si offre per pagare le spese del viaggio in Italia della madre del giovane immigrato (dall’Iraq) e chiede l’intervento del Presidente della Repubblica e Presidente del Csm, Giorgio Napolitano. Sarà in vacanza?

 

La sua morte non è passata del tutto inosservata

 

Non è passata del tutto inosservata la morte per fame del detenuto Alì Jubury. Sul suicidio annunciato del detenuto iracheno del carcere de L’Aquila, i deputati Radicali, Rita Bernardini e Maurizio Turco, hanno presentato un’interrogazione urgente ai ministri della Giustizia, dell’Interno e degli Esteri sulla morte del cittadino iracheno chiedendo innanzitutto di "chiarire, dal punto di vista processuale, quale sia stata effettivamente il reato imputatogli e l’entità della pena perché c’è una notevole discordanza fra le notizie diffuse dai mezzi di informazione: per alcuni, infatti, Alì Jubury sarebbe stato condannato a un anno e tre mesi per tentata rapina mentre, per altri, la condanna sarebbe stata a tre anni di reclusione per il furto di un telefonino cellulare". Bernardini e Turco, insomma, vogliono vederci chiaro: "Le carte di Alì Jubury erano in regola solo per morire: contadino, povero, extracomunitario, iracheno, carcerato, solo". I radicali chiedono inoltre di sapere se nei tre lunghi mesi di sciopero della fame il cittadino iracheno sia stato adeguatamente seguito dai sanitari dal punto di vista fisico e psicologico e se, con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, sia stato prestato il soccorso necessario che avrebbe potuto evitarne il decesso.

La deputata radicale, eletta nelle liste Pd, solleva dubbi anche sulla condanna: "Nel merito ci sono molte perplessità. Se si sommano le mie per disobbedienza civile queste arrivano ha un anno e tre mesi. Nessuno però si è mai sognato di rinchiudermi in carcere". Bernardini poi fa un paragone anche con un altro caso di cronaca - e un’altra battaglia radicale - di questo 2008: "Come è possibile che mentre Eluana Englaro viene tenuta in vita sottoponendola ad alimentazione assistita, una persona in grado di ragionare venga fatta morire di fame?". Tutte queste domande, secondo i Radicali, oltre ad ottenere verità sono rivolte anche alla nuova società italiana: "Se una persona si è debilitata a tal punto da morire bisognerebbe interrogarsi su quello che sono diventate le istituzioni in Italia? Il caso di Ali ci ha molto colpito, probabilmente più che delle flebo aveva bisogno di ascolto. Questa storia ci deve far riflettere su cosa siamo diventati" conclude Bernardini.

In attesa delle risposte alla interrogazione parlamentare, i Radicali stanno raccogliendo le adesioni per una iniziativa nelle carceri a Ferragosto, proprio mentre il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, si preoccupa solo di proporre di mandare a pulire le strade i detenuti che sovraffollano le carceri. Una risposta concreta - verrebbe da dire - all’allarme lanciato dal Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria: "Rinnoviamo l’invito al governo e al Parlamento ad adottare nuove politiche penitenziarie per il Paese, visto il fallimento di quelle attuali come emerge impietosamente dai numeri, e a prevedere nella prossima Finanziaria lo stanziamento di fondi per il

"sistema carcere". Numeri alla mano, l’emergenza è di quelle non più rimandabili: sono oltre 55mila i detenuti presenti nei 205 penitenziari italiani, a fronte di una capienza regolamentare di circa 43mila posti. (Liberazione, 14 agosto 2008)

 

Corbelli si offre per pagare viaggio a madre

 

"Di fronte alla latitanza del Governo e delle altre alte cariche istituzionali e al silenzio dei Tg nazionali e dei grandi giornali (tranne pochissime eccezioni) - prosegue Corbelli - chiedo l’intervento del Presidente della Repubblica e Presidente del Csm. Anche se in vacanza - prosegue Corbelli - il Capo dello Stato intervenga pubblicamente per evitare che la morte di questo giovane detenuto, questa grande ingiustizia, questa vergogna nazionale venga subito dimenticata, cancellata e rimossa.

A Napolitano, nella sua qualità anche di Presidente del Csm, chiedo di attivare tutte le procedure, secondo quelle che sono le sue prerogative costituzionali, per evitare che cali il silenzio e venga invece fatta piena luce e giustizia su questo gravissimo fatto, non degno di un Paese democratico. La verità, al di là della vicenda processuale, è che questo giovane iracheno è morto per colpa di un clima ostile e di una sorta di criminalizzazione degli immigrati che il Governo Berlusconi ha scatenato nel Paese.

Ha ragione e condivido per questo - dice ancora Corbelli - la posizione e le forti critiche all’Esecutivo del settimanale cattolico Famiglia Cristiana. Il Movimento Diritti Civili è pronto a farsi carico delle spese di viaggio per permettere alla madre del giovane, che vive in Iraq, di venire in Italia per riprendersi il corpo di suo figlio che un Paese non civile, non democratico, non giusto e non umano, non ha saputo - conclude - rispettare, aiutare e salvare".

 

L’Aquila: nessun funerale per il detenuto iracheno deceduto

 

Per ora non ci sarà nessun funerale per Ali Jubury, 40 anni, il detenuto iracheno del carcere Le Costarelle, morto all’ospedale dell’Aquila per le conseguenze di uno sciopero della fame, avviato per protestare contro la sua condanna, ritenuta ingiusta. Lo ha comunicato la direzione del carcere di Preturo. "La data dei funerali non è stata ancora fissata", ha detto il direttore, Tullio Scarsella.

"Abbiamo ricevuto una lettera di ringraziamento da parte dell’ambasciata irachena a Roma, che ci comunica che saranno svolte ricerche per rintracciare la madre o qualsiasi altro familiare dell’uomo. Prima di procedere quindi aspettiamo ulteriori comunicazioni".

Il corpo di Alì Jubury è attualmente nell’obitorio dell’ospedale San Salvatore. Nel caso che non venga ricondotto in patria, Jubury sarà sepolto a spese dell’amministrazione penitenziaria, come prevede il regolamento. Per consentire l’eventuale svolgimento del rito funebre, secondo le tradizioni del paese d’origine dell’uomo, la direzione del carcere sta cercando di contattare un Imam. Intanto Nicola Iannarelli (Sinistra in movimento), critica l’intervento di Marco Gelmini, segretario regionale del Prc.

"Rimango sbalordito dalle sue dichiarazioni, sulla morte del detenuto iracheno in sciopero della fame, infarcite di populismo, quando Gelmini ha mai visitato un carcere in Abruzzo e non ha mai fatto nessun intervento e iniziativa politica, per sensibilizzare l’opinione pubblica, sulla drammaticità in cui versano i detenuti e le detenute in Abruzzo. Ci sono stati una decina di suicidi nelle carceri speciali, mai un intervento, mai una denuncia, né da parte sua, né da parte dell’assessore alle politiche sociali, Betti Mura". (Il Centro, 16 agosto 2008)

 

Malattia: 18 agosto 2008, Carcere di Viterbo (ricoverato in ospedale)

 

Nuore Nicola G., detenuto di 47 anni, aveva l’Hiv e l’Epatite C. Il Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni: "Quest’uomo, da tempo malato, aveva chiesto al Tribunale di Sorveglianza il differimento della pena per potersi curare a casa. malattia è stata più veloce del Tribunale". È morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Civitacastellana (Vt) proprio mentre il Tribunale della Libertà di Roma gli concedeva il differimento della pena per le sue gravi condizioni di salute. Protagonista del caso - segnalato dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - un detenuti italiano di 47 anni, Nicola G. L’uomo, malato di epatite C ed Hiv, era da poco detenuto nel carcere di Rebibbia Penale e doveva scontare una condanna che sarebbe finita fra tre anni. A causa del peggiorare della sua malattia Nicola, attraverso i suoi avvocati, aveva presentato istanza al Tribunale della Libertà chiedendo il differimento della pena. Il 19 giugno scorso i giudici avevano chiesto alla direzione del carcere una relazione medica sullo stato di salute di Nicola fissando per il 19 settembre l’udienza per decidere sull’istanza di differimento. Il 13 agosto il detenuto peggiora e viene ricoverato nella struttura protetta dell’ospedale "Sandro Pertini"; Tre giorni dopo viene trasferito nella struttura sanitaria protetta dell’ospedale "Belcolle" di Viterbo, dove arriva già in coma. Trasferito nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Civitacastellana, Nicola muore il 18 agosto, proprio mentre il Tribunale della Libertà di Roma, davanti al peggioramento delle sue condizioni di salute, decide per il differimento della pena. "La morale di questa triste vicenda - ha detto il Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni - è che una persona è morta dove non doveva stare; praticamente in carcere e lontano dai suoi cari. Sono dispiaciuto di dover constatare che, ancora una volta, i tempi tecnici della giustizia sono drammaticamente più lunghi di quelli di una malattia che mina irreparabilmente la salute di un uomo". (Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, comunicato stampa, 22 agosto 2008)

 

Malattia: 23 agosto 2008, Carcere di San Vittore

 

Detenuto ghanese muore per leucemia fulminante. Si chiamava Nana Mensah Okyere e proveniva (per quanto è dato sapere) dal Ghana, mentre sono certi il luogo e la data della sua morte: Ospedale Niguarda di Milano, 23 agosto 2008. L’uomo era detenuto dallo scorso aprile a San Vittore dove, in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute, alcuni operatori dell’area educativa si erano anche prodigati per ottenerne l’incompatibilità con il carcere, ma evidentemente senza risultato. Come sia, il 30 luglio il "detenuto" Nana Mensah Okyere è stato ricoverato in ospedale, prima al San Paolo, poi al Niguarda, dove appunto è deceduto sabato scorso. (Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2008)

 

Milano: detenuto ghanese morto, l’intervento dell’educatrice

 

Vorrei completare l’articolo di "Ristretti" che ho letto oggi nella consueta Rassegna stampa per rendere merito, anche se di professionalità si tratta, ai diversi attori dell’ultima, triste vicenda umana di Okyere Nana Mensah.

Sono l’operatore dell’area pedagogica che ha partecipato alla rete di supporto che è stata attivata dal responsabile del nucleo ospedaliero della polizia penitenziaria ed ha visto coinvolta anche una operatrice del Naga che ha potuto avere un colloquio con il signor Okyere prima che morisse.

È importante che si sappia che i fatti sono avvenuti così perché solo attraverso l’impegno spontaneo e professionale di chi è vicino alla sofferenza, nel caso specifico un sovrintendente di polizia penitenziaria, avviene quotidianamente il miracolo dell’umanizzazione della pena, messa costantemente a repentaglio da corsi e ricorsi storici e dalla stupidità umana.

Questo è tutto, volevo dirlo non per dire "bravo" a qualcuno, ma perché è stato possibile far credere ad una persona che ora non c’è più, che tutti eravamo coinvolti nel suo ascolto e, per noi operatori tutti, che solo insieme possiamo svolgere il nostro lavoro. Tutto il resto è chiacchiera. (Ristretti Orizzonti, 27 agosto 2008)

 

Barbara Campagna, Area Pedagogia C.C. San Vittore

 

 

Malattia: 25 agosto 2008, Carcere di Trento

 

Rachid B., detenuto marocchino  di 29 anni, muore d’infarto in carcere. È accaduto a Trento, all’interno del vecchio penitenziario asburgico, struttura fatiscente e sovraffollata, dove l’altra sera i compagni di cella hanno trovato privo di vita Rachid. "Morte naturale, nessun segno di violenza" conferma il pm di turno (che pure ha disposto l’autopsia) ma nel carcere si diffonde la voce sempre più insistente che l’algerino non abbia ricevuto soccorsi adeguati: "Non l’avete curato" urlano i detenuti. (Adnkronos, 26 agosto 2008)

 

Trento: muore detenuto 29enne, nel carcere sfiorata la rivolta

 

Ieri mattina un altro detenuto è morto nel carcere di Trento, morto per infarto dicono le note ufficiali. Una struttura, quella del capoluogo, ereditata niente meno che dall’impero austro-ungarico. Un carcere che risale quindi all’800, tanto per intenderci lo stesso secolo in cui un certo Silvio Pellico scriveva Le mie prigioni, prima grande denuncia del sistema carcerario.

Da allora molto è cambiato, certo, ma i detenuti nelle carceri della Repubblica italiana continuano a morire come mosche - nel 2007 sono morte 126 persone e le condizioni igienico-sanitarie sono sempre più gravi e preoccupanti. I dati, infatti, parlano fin troppo chiaro: le carceri italiane fanno ammalare di scabbia, di tbc e di epatite. C’è chi parla di una bomba sanitaria innescata e pronta ad esplodere. Ma le autorità si comportano come se nulla fosse: ignorano il problema e tirano a campare. Ieri, l’ennesima vittima.

Una volta appresa la notizia della morte del detenuto, nel carcere triestino è partita una protesta. Alla notizia del decesso, i detenuti si sono infatti rifiutati di entrare dopo l’ora di aria. Una protesta rientrata dopo le rassicurazioni del vicequestore di Trento, Renato Senso, il quale ha informato che sulla salma del deceduto verrà eseguita l’autopsia che chiarirà, si spera, i motivi del decesso.

Franco Corleone, già sottosegretario alla giustizia e attuale Garante dei detenuti del Comune di Firenze parla di situazione al limite della sostenibilità: "Da tempo dico che è un miracolo il fatto che nelle carceri non si esprima una reazione e una forma di repulsione per i trattamenti incivili e disumani cui sono costretti i detenuti. Per quel che riguarda Trento - continua Corleone - mi ero occupato del problema del nuovo carcere, ma ancora siamo a zero. Ci sono carceri che andrebbero chiuse e basta. Savona, Favignana, Pordenone e Trento, ovviamente, sono del tutto inadeguate e generano drammi come quello di ieri. E in tutto questo ci ritroviamo in una situazione del tutto simile a quella precedente l’indulto".

 

Uil: rientrata la protesta dei detenuti, ma servono agenti

 

"Grazie all’intervento, efficiente ed efficace, del magistrato di sorveglianza e del dirigente dell’istituto di pena la protesta messa in atto stamane da una cinquantina di detenuti stranieri è rientrata e presso la Casa Circondariale di Trento è ritornata la calma". Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa-Penitenziari, commenta così la fine dell’emergenza determinatasi preso il carcere cittadino di Trento cominciata intorno alle 11 di stamane quando un gruppo di detenuti stranieri, dopo aver fruito dell’ora d’aria, si è rifiutato di rientrare nelle celle.

Un detenuto trovato morto in cella e nel carcere scoppia la protesta. È accaduto a Trento, all’interno del vecchio penitenziario asburgico, struttura fatiscente e sovraffollata, dove l’altra sera i compagni di cella hanno trovato privo di vita Rachid Basiz, algerino di 29 anni, clandestino, appena trasferito dal carcere di Pescara per scontare una condanna per droga. "Infarto" dice il medico, "Morte naturale, nessun segno di violenza" conferma il pm di turno (che pure ha disposto l’autopsia) ma nel carcere si diffonde la voce sempre più insistente che l’algerino non abbia ricevuto soccorsi adeguati: "Non l’avete curato" urlano i detenuti.

"Voglio esprimere - aggiunge Sarno - la mie più vive congratulazioni al magistrato, al direttore, al personale della Polizia penitenziaria ma anche alla Polizia di Stato e ai carabinieri per aver gestito al meglio una situazione oggettivamente difficile e pericolosa. La morte di un essere umano non può mai lasciare indifferente alcuno, ancor più quando avviene in ambito penitenziario. Essa però non può e non deve essere il pretesto per originare proteste immotivate e violente. La cause della morte del detenuto saranno accertate nelle sedi competenti anche se abbiamo ragione di ritenere che siano conseguenti a cause naturali".

"Bene hanno fatto, quindi - afferma Sarno -, il magistrato e il direttore ad adottare la linea della fermezza intimando, senza trattativa alcuna, ai protestanti di far immediato rientro in cella". Il leader della Uil Pa-Penitenziari non manca di denunciare le condizioni critiche in cui versa il carcere trentino: "Non sarà certo un caso se appena pochi mesi fa tutte le organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria hanno ritenuto dover protestare e denunciare lo stato di abbandono e fatiscenza della struttura. Voglio sperare che il nuovo carcere sia pronto ed efficiente in tempi accettabili. Io stesso nel lontano 1992 ebbi modo, già allora, di denunciare le deficienze strutturali dell’attuale istituto. Credo che sia anche necessario riflettere sulla circostanza che solo una decina di agenti (15 compreso le unità in servizio nei vari uffici) stamane era in servizio a custodia dei circa 120 detenuti presenti (la capienza massima prevista è di 90 detenuti) . E nelle ore pomeridiane e notturne le presenze di unità preposte al controllo precipitano paurosamente attestandosi a pochissime unità. Quanto accaduto oggi è ulteriore motivo per accelerare il confronto con il ministro Alfano per la rideterminazione delle piante organiche. So che il ministro sarà nella zona in queste ore, non mancherà certo di portare personalmente la sua vicinanza e solidarietà al personale penitenziario duramente provato dagli eventi di stamane".

 

Radicali: detenuto che muore è sconfitta per tutti

 

"Una persona che muore in galera è una sconfitta per tutti e in primo luogo per le istituzioni". Lo sostiene Rita Bernardini, leader dei Radicali e membro della Commissione Giustizia della Camera, in merito alla protesta avvenuta stamani nel carcere di Trento.

"I dati aggiornati al 13 agosto che ci sono stati forniti dal direttore Gaetano Sarrubbo - spiega Bernardini riferendosi al penitenziario di Trento - indicano una presenza di 115 detenuti, 37 italiani e ben 78 stranieri a fronte di una capienza complessiva di 90 posti. Inoltre, per quanto riguarda gli educatori, la pianta organica ne prevede 4 mentre ne sono stati assegnati solamente 2. Da non sottovalutare il fatto che solo 24 detenuti hanno una condanna definitiva. 50, infatti, sono imputati, 36 appellanti e 6 ricorrenti. I detenuti tossicodipendenti sono 36 (10 italiani e 26 stranieri) di cui 8 (5 italiani e 3 stranieri) in trattamento metadonico. Se uniamo a questa situazione di sovraffollamento, di disagio e di carenza di personale, la fatiscenza dell’edificio, credo che sia facile per tutti rendersi conto che la Casa Circondariale di Trento è una polveriera che rischia continuamente di esplodere".

Oltre al sovraffollamento e alla carenza di agenti e di educatori, una cosa che i Radicali affermano di aver constatato nelle visite compiute il giorno di Ferragosto in 18 istituti penitenziari, è che "alla persona che fa il suo ingresso in carcere non vengono mai consegnati né il regolamento dell’Istituto né l’Ordinamento penitenziario che, per gli stranieri, dovrebbe essere tradotto nelle varie lingue del Paese di provenienza". Questa, sottolinea Bernardini, "è una piccola riforma che il ministro della Giustizia potrebbe fare subito affinché i detenuti conoscano i propri doveri ma anche i diritti umani elementari che nemmeno in galera possono essere negati". (Liberazione, 27 agosto 2008)

 

Malattia: 25 agosto 2008, Carcere di Forlì

 

Franco Paglioni, 44 anni, in carcere da pochi giorni, è morto il 25 agosto abbandonato alla sua malattia e tra le sue feci. I detenuti, compagni di cella, denunciano: "Una fine assurda, stava male, ma nessuno l’ha curato. Episodi come questi, non devono succedere Neanche i

cani si abbandonano così, si curano. E lui era una persona". Paglioni era entrato in via della Rocca il 21 agosto scorso per spaccio di droga. È morto tra le sue feci, dopo giorni di agonia e di richieste di

aiuto cadute nel vuoto. È morto il 25 agosto in carcere, tra la rabbia e il disappunto dei compagni di cella. Una fine disumana, quella di Franco Paglioni, 44 anni, dentro per droga, tanto disumana da sollevare le proteste degli altri carcerati. Franco Paglioni era finito in carcere pochi giorni prima per spaccio. Stando al racconto dei compagni di cella, appena arrivato in via della Rocca, il detenuto è stato sottoposto ad una visita medica perché già accusava forti dolori. "Stava talmente male - scrivono i detenuti dal carcere - che non poteva alzarsi dal letto e neppure mangiare. I suoi piatti rimanevano quindi pieni, e l’assistente di turno, anziché preoccuparsi, ordinava di mettere il cibo nuovo sopra a quello vecchio. In quei giorni di detenzione andava avanti solo a tè o camomilla, grazie ad un detenuto che ogni sera gli preparava gli infusi. Abbiamo chiesto più volte alle guardie di turno l’intervento urgente di un medico per Paglioni, ma nessuno si è mai visto e l’infermiere che è passato in sezione per la consegna della terapia per ben 2 volte (alle 20.30 del 24 sera e alle 7.30 del 25 agosto), non si è preoccupato neppure di chiamarlo nonostante l’uomo, perché è di questo che stiamo parlando, stesse già malissimo". Franco Paglioni aveva problemi di droga. Era uno di quei detenuti che entrano ed escono dal carcere. L’ultimo arresto, risale al 21 agosto. Era uscito dal carcere con l’indulto e si pagava l’albergo con i soldi dello spaccio di eroina. Così è finito di nuovo in cella, con l’accusa di aver allestito un micro mercato di spaccio proprio nelle viuzze intorno alla Questura. L’uomo, già condannato per una serie di reati tra cui rapine e furti, era stato anche in comunità di recupero, poi era stato ospite di un amico col quale aveva litigato, fino ad alloggiare in un hotel del centro storico dove aveva l’obbligo di farsi trovare dalle 10 di sera fino alle 7 del mattino (era stato colpito da un provvedimento di restrizione della libertà). Obbligo che non rispettava, dando nell’occhio per i suoi continui contatti con tossicodipendenti del posto. Da qui, l’ennesimo ingresso nella casa circondariale forlivese di via della Rocca, dove nel giro di pochi giorni è deceduto. "Il fondo è stato toccato la mattina del 25 agosto - lamentano i compagni detenuti che si firmano con nome e cognome -, quando il lavorante davanti alla cella ha fatto presente lo stato del Paglioni, riverso tra le sue feci. Noi tutti eravamo presenti. L’assistente di turno, l’ha visitato e, assieme ad un detenuto, l’ha portato sotto alla doccia, nonostante lo stato esamine in cui quel poveretto si trovava. Poi è stato riportato in cella. Quando finalmente è stato chiamato il dottore, era troppo tardi: ne ha potuto solo constatare il decesso. Noi vorremmo che una volta tanto, anche un detenuto riceva giustizia. Crediamo che una persona non debba e non possa essere lasciata morire così, come un cane. Anzi, se si lascia morire un cane si rischia fino a 6 mesi di carcere. Questa era una persona. Noi chiediamo giustizia non per noi, ma per Paglioni, perché vogliamo che fatti di questo genere non si debbano ripetere più per colpa del menefreghismo di chi ha l’obbligo invece di intervenire". (La Voce di Romagna, 29 agosto 2008)

 

Forlì: purtroppo è vero, "drogato" fa morte inumana in cella

 

La prima segnalazione, arrivata ieri mattina, descriveva uno scenario così vergognoso da sembrare quasi incredibile, tanto che abbiamo riportato la notizia in maniera molto asciutta e prudente, invitando però i nostri lettori a darci una mano per fare luce sul caso della "presunta morte" di un detenuto nel carcere di Forlì.

Molti di voi si sono attivati - per questo vi diciamo un "grazie" collettivo - ed è arrivata, purtroppo, piena conferma a ciò che non volevamo fosse vero: una morte orribile, che fa venire in mente i peggiori racconti dei manicomi e dei lager, di internati espropriati della dignità umana, di "regole" e "abitudini" che schiacciano ogni residuo di sensibilità e finiscono per giustificare anche l’ingiustificabile (leggete l’articolo della "Voce di Romagna", sotto riportato).

Ma cosa stanno diventando le carceri italiane? Dei manicomi? Dei "Centri di detenzione per immigrati", come ha detto Luigi Pagano, Provveditore Regionale del Dap per la Lombardia? Dei lazzaretti, nei quali relegare i "drogati"? Dei "grandi depositi di carne umana", come denuncia il sociologo svedese Thomas Mathiesen?

Adolfo Ferraro, direttore dell’Opg di Aversa, ha dichiarato ieri - con evidente sollievo - che con la riforma della sanità penitenziaria è diventato primario dell’Asl e, quindi, ora può anche "rifiutare nuovi ricoveri, se in Opg non c’è posto". Nel frattempo, il direttore di un altro carcere, quello di Sulmona, denuncia l’insufficiente assistenza psichiatrica per i detenuti, tanto da ritenere l’istituto che dirige "inadatto ad accogliere soggetti psicotici".

Infine, il Sindacato della Polizia Penitenziaria Osapp rivela lo scandalo del carcere di Aosta, dove nel mese di agosto ci sono state "162 ore di vuoto sanitario", perché "tutti i medici erano in ferie e il dirigente sanitario assente per malattia". Ad Aosta sono recluse 150 persone e, per 8 giorni consecutivi, hanno dovuto "essere sani"… per forza!

Agosto è finito ("grazie a Dio", pensano i detenuti, sopravvissuti anche quest’anno all’abbandono… feriale), sono tornati al lavoro i medici e gli altri operatori, i giudici, e anche gli amministratori e i politici.

Quello che chiediamo a tutti - al di fuori da ogni retorica - è di prestare molta molta attenzione a ciò che sta succedendo nelle carceri, a ciò "che stanno diventando" le carceri italiane, perché se tutti auspicano una "rieducazione" dei detenuti è improbabile si riesca a realizzarla se gli istituti di pena assomigliano sempre di più a dei manicomi, o a dei lazzaretti. Tragedie come quella di Forlì non rappresentano la norma - e ci mancherebbe altro! - però possono succedere, come si è visto succedono, e già questo è inaccettabile, per noi e per tutti coloro che credono - con Voltaire e Dostoevskij - che "il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri". (Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2008)

 

Il carcere continua a mietere vittime

 

"Una persona non può essere lasciata morire così. Vorremmo che anche un detenuto riceva giustizia, fatti di questo genere non si dovranno ripetere più". Un gruppo di carcerati affida a una lettera la protesta per il dramma consumato dentro una cella della casa circondariale di Forlì, la mattina del 25 agosto. La notizia è ripresa dai siti Internet che si occupano di problemi penitenziari (in particolare www.ristretti.it). Franco Paglioni, 44 anni, marchigiano, da tempo domiciliato nel Forlivese, è una delle 72 vite cessate dietro le sbarre italiane, dall’inizio del 2008.

L’epilogo della vicenda prende le mosse il 21 agosto. Quel giorno, un giovedì, Paglioni è arrestato dalla Mobile per spaccio di stupefacenti. Da tempo era tenuto sott’occhio dai poliziotti, che nella sua camera d’albergo trovano tre grammi di eroina nascosti in un ovetto Kinder. L’uomo finisce in carcere, ma sta male. È afflitto da una malattia che non dà scampo e non si regge in piedi. Rifiuta i pasti, resta sdraiato nel suo giaciglio, in una cella singola del reparto ‘protetto’, quello riservato in genere ai collaboratori di giustizia: l’unico settore di un penitenziario sovraffollato dove c’è un posto solitario per un uomo scavato dal morbo. La mattina del lunedì successivo Paglioni è trovato morto in cella, in mezzo alle sue feci.

Cosa è successo in quei quattro giorni? A sentire i detenuti, l’uomo non è stato visitato da un medico e solo all’ultimo un addetto del personale con l’aiuto di un altro carcerato, l’ha condotto sotto una doccia. Diversa la versione riportata da Daniela Avantaggiato, segretaria del comparto penitenziario della Cgil funzione pubblica: "Il giorno prima del decesso Paglioni è stato visto dal medico ma le sue condizioni erano così gravi che anche un ricovero all’ospedale non lo avrebbe salvato - dice la sindacalista degli agenti penitenziari -. Purtroppo non c’era più niente da fare. Ma va detto che persone in tali condizioni dovrebbero andare in comunità di recupero".

In queste strutture Paglioni c’era già stato, ma non si era mai liberato della tossicodipendenza che lo aveva portato a commettere altri reati e a finire in galera più volte. L’ultima scarcerazione era dovuta all’indulto, il discusso provvedimento del luglio 2006 votato a larga maggioranza in Parlamento, anche da partiti dell’opposizione. In agosto l’uomo era stato notato dai poliziotti con atteggiamenti sospetti proprio nei pressi della questura e quindi, al rientro da un giro a Ravenna, arrestato in flagranza di reato. Dimorava in una stanza d’albergo, sottoposto a una misura restrittiva: non doveva lasciarla dalle 10 di sera alle 7 del mattino. Quando gli agenti gli hanno chiesto come faceva a pagare i conti dell’hotel, Paglioni non aveva dato spiegazioni credibili. Morte naturale: questo il referto medico. Sul corpo dell’uomo non è stata disposta l’autopsia, nè è stata aperta un’indagine. L’ennesimo dramma riaccende l’attenzione su un carcere dimensionato per 135 detenuti che ne ospita 210, con un numero insufficiente di agenti di custodia. Novanta persone, che devono fornire un servizio 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno.

L’eccessivo numero di reclusi unito alla carenza di personale penitenziario crea notevoli disagi e difficoltà anche ai familiari e agli amici, costretti a lunghe code, anche di notte, per incontrare i carcerati. I colloqui sono infatti possibili due giorni la settimana, il venerdì e il sabato e non esiste un sistema di prenotazione. Si accede alle visite in tre o quattro turni giornalieri e bisogna presentarsi alla porta carraia sul lato della Rocca di Caterina Sforza. I detenuti sono accompagnati 8-9 per volta nella sala colloqui, i visitatori possono essere tre al massimo per ciascun carcerato. Accade che i familiari giungano da molto lontano e per essere sicuri di entrare al primo turno, facciano la fila fin dalle 4 di notte. (Il Resto del Carlino, 12 settembre 2008)

 

Muore in carcere abbandonato da tutti tranne che dai compagni di cella

 

Riverso a terra, esanime tra le proprie feci. È morto così, in una cella del carcere di Forlì, Franco Paglioni. Cinismo, indifferenza, sprezzo della vita umana, hanno precipitato la morte di un uomo di 44 anni profondamente debilitato da una malattia che il senso comune fa fatica a pronunciare, l’Aids. La mattina del 25 agosto Paglioni si trovava in carcere da soli 4 giorni. Era conosciuto: dal personale di custodia e da quello medico. Nell’infermeria una cartella ne tracciava la storia medica.

Arrestato per il possesso di tre grammi di eroina (che periziati sarebbero forse risultati molto meno) era finito nell’istituto di via della Rocca, penitenziario da dove entrava e usciva ripetutamente. Come da prassi all’ingresso è stato sottoposto a visita medica e qui aveva segnalato forti dolori. "Stava talmente male - raccontano in una lettera i suoi compagni di detenzione - che non poteva alzarsi dal letto e neppure mangiare. I suoi piatti rimanevano pieni e l’assistente di turno, anziché preoccuparsi, ordinava di mettere il cibo nuovo sopra quello vecchio. In quei giorni andava avanti solo a tè o camomilla, grazie ad un detenuto che ogni sera gli preparava gli infusi. Abbiamo chiesto più volte alle guardie di turno l’intervento urgente di un medico ma nessuno si è mai visto e l’infermiere che è passato in sezione per la consegna della terapia per ben 2 volte (alle 20.30 del 24 sera e alle 7.30 del 25 agosto) non si è preoccupato neppure di chiamarlo nonostante l’uomo, perché è di questo che stiamo parlando, stesse malissimo".

Uomo? Persona? Viene da pensare alle parole del nuovo capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che al momento del suo insediamento ha sottolineato la necessità di considerare sempre delle "persone" i detenuti. Una lapalissiana ovvietà fuori dalle mura di cinta, dentro molto meno. Ora il dottor Ionta ha di fronte a sé l’occasione buona per dimostrare che quelle sue parole avevano un senso, erano davvero animate da sincera volontà. Può farlo esigendo piena luce sulle responsabilità che hanno portato a questa terribile morte. "Una fine assurda", come l’hanno definita i compagni di carcere di Paglioni che puntano l’indice contro il clima di incuria che sta dietro quanto è accaduto. "Episodi come questi non devono succedere. Neanche i cani si abbandonano così, si curano. E lui era una persona". Agghiacciante è la descrizione di quanto avvenuto la mattina del 25 agosto "quando il lavorante davanti alla cella ha fatto presente lo stato del Paglioni, riverso tra le sue feci. Noi tutti eravamo presenti. L’assistente di turno l’ha visitato e assieme a un detenuto l’ha portato sotto la doccia, nonostante lo stato esanime in cui quel poveretto si trovava. Poi è stato riportato in cella. Quando finalmente è stato chiamato il dottore era troppo tardi. Ne ha potuto solo constatare il decesso".

Il personale di custodia del carcere non risponde, vincolato dalla gerarchia alla consegna del silenzio. Un silenzio che però risuona come una fragorosa ammissione di responsabilità. Interpellata dal Resto del Carlino , la segretaria del comparto penitenziario della Cgil funzione pubblica, Daniela Avantaggiato, accampa scuse che hanno dell’incredibile: "Il giorno prima del decesso Paglioni è stato visto dal medico, ma le sue condizioni erano così gravi che anche un ricovero all’ospedale non lo avrebbe salvato". La direttrice del carcere, Alba Casella, è irraggiungibile. Come spesso accade in provincia, i direttori dirigono più istituti contemporaneamente. Di fatto queste strutture sono acefale, abbandonate alla mera gestione militare del personale di custodia. Concepito per una capienza massima di 135 detenuti, il carcere di Forlì ne ammassa in realtà 210. Una specie di sottovuoto penitenziario. Intanto i compagni di Franco Paglioni, quelli che hanno accompagnato gli ultimi giorni della sua vita chiedono "che una volta tanto anche un detenuto riceva giustizia. Crediamo che una persona non debba e non possa essere lasciata morire così, come un cane". (Liberazione, venerdì 12 settembre 2008)

 

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