Dossier: "Morire di carcere"

 

Morire di carcere: dossier 2002 - 2003

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose

 

Articoli sulle morti in carcere scritti da Adriano Sofri

 

Il Foglio, 14 settembre 2000

 

Interpellate, le persone dicono se condannerebbero o no a morte qualcuno. Non viene loro in mente l’eventualità di essere loro dal lato dei condannati. Giudici di professione, interpellati, giudicano anche i suicidi dei loro imputati. Senza neanche immaginare l’eventualità del proprio suicidio. Alcune persone sono compassionevoli, altre feroci: ma stanno tutte dall’altra parte.

La Repubblica, 20 giugno 2000

 

Si è impiccato "uno" stanotte, un ragazzo tunisino. Si chiamava Samir, aveva ventisette anni, era ricoverato al Centro clinico per un qualunque guaio ad una gamba. Si era rotto un tendine giocando a pallone, nel carcere siciliano di San Cataldo, e lì era stato curato per sei mesi, diceva, con iniezioni antidolorifiche. Poi finalmente era stato mandato a Pisa, e ne era stato grato e pieno di fiducia. Era ricoverato da mesi: la sala operatoria del Centro clinico di Pisa - il più prestigioso d’Italia, dell’Italia delle galere, intendo - è chiusa da più di un anno perché mancano i soldi per metterla a norma di igiene e sicurezza. La gente non viene operata, semplicemente, né dentro, né fuori. Faceva esami, perché non si trovava una spiegazione adeguata ai dolori che lamentava. Aveva appena fatto una risonanza magnetica, di cui non c’era ancora l’esito, e temeva che non volessero farglielo conoscere. Già altre volte si era tagliato, o aveva cominciato lo sciopero della fame: i medici gli parlavano, lo rassicuravano, e lui ricominciava ad aspettare.

Ma non era questo il problema, dicono. Allora qual era? Voci. Era disperato di essere rimandato al suo paese zoppo, sabato si era infilzato con due spille le labbra, aveva litigato col suo compagno di cella, era stato isolato ieri notte al GS 2, la sezione di sicurezza riservata ai "pentiti" - e lì, dopo aver ingoiato frantumi di vetro di una finestra rotta, si è impiccato. In una cella nuda di tutto. Non aveva niente con sé, neanche il lenzuolo: ha usato il pigiama dei ricoverati. Doveva uscire fra quindici giorni. Mi dispiace di scrivere, invece di darvi una fotografia del ragazzo coi capelli scuri, lo sguardo spaesato e le stampelle. Magari avreste pensato: "Potrebbe essere mio figlio". Sapete qual è il problema ogni volta che ci si trova col cadavere di un ragazzo arabo? Che non si sa che farsene. Ammesso che si rintracci la famiglia, è raro che abbia i soldi necessari a rimpatriare la salma. Quella di un giovane algerino morto qui dentro di overdose, all’isolamento, l’inverno scorso, è rimasta per mesi in non so quale deposito di obitorio. Questo nome tecnico, "isolamento", vuol dire poi davvero che quando si muore si muore soli.

Così va la mia cronaca di una domenica di giubileo. Le voci, quando cominciano, chi le ferma più. Un giovane maghrebino, all’isolamento, ha ingoiato stamattina dieci batterie di pila. Un altro ragazzo arabo, al giudiziario, si è tagliato, dicono, così gravemente che non riuscivano a suturarlo.

Un mese fa era morto di meningite Antonio S., uno degli ultimi detenuti all’antica, uno che aveva deciso davvero di farla finita con la malavita, ma non avrebbe barattato la propria scontrosa dignità con nessun beneficio. Era stato dentro per mezza vita, solitario, finché qualcuno non gli offrì l’occasione di lavorare e di prendersi qualche responsabilità, e ne scoprì il valore. Aveva cinquant’anni, ottenne la semilibertà, di giorno andava a governare una casa d’accoglienza volontaria per ex detenuti, di notte tornava dentro. Prima, l’avrebbero considerato come uno "pericoloso". Poi, lo riconobbero come il più degno di fiducia, semplicemente perché non avrebbe mancato alla propria parola.

Ebbe una febbre forte, non capirono che cos’era, e quando fu ricoverato era tardi. Lo incontrai, di passaggio in un corridoio, che era già via: "Vogliono rimettermi in carcere", disse, con un tono avvilito, come di un evento incomprensibile. È brutto stare in galera, ma è orribile morirci. È come aver risparmiato per anni e anni, a costo dei più penosi sacrifici, e tutto d’un tratto è stato per niente. La galera è per niente: fondo perduto.

Posso continuare? La casa d’accoglienza di cui Antonio S. era stato custode, sostenuta dal Comune, si chiama "Oltre il muro", titolo che fu inventato da Marcello, un detenuto sardo che si prodigava per gli altri, aveva trascorso in galera mezza vita per il rosario di condanne che toccano a un tossicomane. Uscì a fine pena, inventò il titolo, e si ammazzò in una notte solitaria, libero e disperato, scrivendo il diario del proprio commiato. Ho qui un distintivo del Cagliari che mi lasciò per ricordo.

Il Foglio, 16 novembre 1999

 

A Pisa l’altro ieri è morto in cella un giovane arabo, altri due sono stati salvati in extremis. Overdose di eroina, iniettata con una penna biro. (Dovrei risparmiare una battuta sul celebre divieto alle penne stilografiche?) Pochi giorni fa era morto, a Rebibbia, un giovane italiano, tossicomane: era in galera per la prima volta. Conosco sua madre e le voglio bene. Qualche tempo fa, a Torino, erano morti in tre, in cella, di overdose. E gli altri, quelli non contati. Non ho commenti. Voglio dire questo, che dei giorni che passo a Venezia la cosa più preziosa sono le notti, il loro magnifico silenzio. Sono contento perfino di non prender sonno, finché ascolto quel magnifico silenzio. Ma ho sempre nelle orecchie il rumore di galera, quello che da fuori non si sente.

Il Foglio, 2 gennaio 1999

 

Vorrei tornare su questa vergogna delle evasioni. Nell’ultimo mese sono evasi tre da Rebibbia e uno da Milano Opera. Gente all’antica, con lenzuoli annodati. Quelli di Rebibbia erano "in custodia attenuata": avrebbero potuto uscire più agevolmente dal portone, ma si vede che sono tradizionalisti. Uno l’hanno ripreso alla bottega sotto casa. Quello di Opera però, maligno, ha approfittato della nebbia e delle ferie di Natale. Poi se n’è andato un ex brigatista che usciva, al lavoro esterno, tutti i giorni da otto mesi, secondo la previsione di legge, cui ha dunque trasgredito. Ma la forma di evasione più diffusa e subdola, perché si maschera in modo da essere ignorata nelle statistiche criminali, è il suicidio. Un centinaio di delinquenti all’anno se ne vanno così, a volte anche loro con le lenzuola dell’Amministrazione. È ora di dire: basta!

Il Foglio, 21 maggio 1998

 

Due giorni fa qui è morto un uomo: gli si è rotto il cuore. Aveva solo 47 anni. A Milano non avevano ritenuto il suo stato grave abbastanza da sconsigliare la traduzione a Pisa. Sospettavano che simulasse. A Pisa hanno accertato che solo un trapianto poteva salvarlo. Se simulava, ha simulato bene.

Il Foglio, 9 maggio 1997

 

Cari lettori, vorrei, per una volta, scrivere anche a nome di tanti altri carcerati di Pisa, benché non possa chiedere il loro permesso. Il fatto è che martedì sera, il 6 maggio, si è ammazzata, o è morta, Margherita, che aveva 23 anni. Era in galera da tre anni, ne aveva ancora per uno, credo: per droga, naturalmente. Si è soffocata con un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas. Ho saputo molte cose su lei, dai ragazzi che qui l’avevano conosciuta, o che avevano scambiato con lei una corrispondenza, come succede in carcere: cose piene di affetto e compassione, che non trascrivo. Nello stesso giorno si è saputo che è morto di overdose Giuliano, che aveva poco più di trent’anni, ed era stato messo in sospensione della pena una settimana fa. Giuliano lavorava a portare il vitto, era grasso e sentimentale, benvoluto da tutti. Tempo fa avevo commentato, al passeggio, i trasferimenti improvvisi di detenuti. Avevo detto, scherzosamente, che non c’è solo la separazione dagli affetti di fuori, ma anche da quelli di dentro. Giuliano aveva ripetuto con emozione: "Proprio così, proprio così". Era passato a salutarci, mentre gli agenti gli facevano fretta. Credo che avesse, come tanti, gravi tristezze famigliari. Era stato in galera sette anni - rieducato, dunque. Queste notizie correvano, nel modo accorto e quasi clandestino in cui corrono le notizie in carcere - come l’aria, che si infila tra le grate, le sbarre, le blindate, e diventa un vento - mercoledì 7 maggio, venticinquesimo anniversario della morte in queste celle di Franco Serantini. Non cavate da queste righe un’impressione sbagliata, non chiedetevi che cosa succede al carcere di Pisa. Dico sul serio, senza sarcasmo: non succede niente. Tutto normale. È la galera, ragazzi. Come la vita di fuori, ma passata per regolamento sotto un vecchio schiacciasassi senza guidatore.

 

 

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