Dossier: "Morire di carcere"

 

Profili criminologici del suicidio in carcere

di Rosanna Carpentieri (Università di Napoli)

 

Letteratura sul suicidio nelle carceri

I fattori di rischio suicidarlo

I significati del gesto suicida

Primi tentativi di prevenzione: il "Servizio Nuovi Giunti"

Strategie di prevenzione: ipotesi e suggerimenti

Visita alla Casa Circondariale di Fuorni (Salerno)

Letteratura sul suicidio nelle carceri

 

Fra i moltissimi studi compiuti sul suicidio, si può dire che quelli sulle condotte auto lesive in carcere costituiscano quasi un filone a parte, abbiano una loro specifica autonomia. Criminologi, psichiatri, psicologi, sociologi, certamente consapevoli che si tratta di gesti realizzati all’interno del contesto più duro fra quelli accettati dalla società civile, consapevoli, ancora, che il suicidio del detenuto presenta caratteristiche diverse da quello dell’uomo libero (e forse anche una più immediata leggibilità), hanno prodotto una letteratura quanto mai ampia e complessa.

Alcune ricerche hanno evidenziato come già nel XVII secolo i Coroners, giudici inglesi chiamati a indagare proprio sui casi di morte violenta o, comunque, sospetta, pur classificando, di solito, l’evento suicidio come "morte per castigo divino", iniziassero eccezionalmente a stabilire delle correlazioni fra gli episodi di auto soppressione in carcere e alcuni specifici aspetti del regime detentivo.

Ma fu soprattutto nell’Inghilterra vittoriana del XIX secolo che gli studi sull’argomento s’intensificarono, benché tutti influenzati dal fatto che "in quel periodo non soltanto la morte in carcere, ma la morte in generale aveva assunto una sorta di significato politico. La mortalità veniva interpretata non come indice della salute fisica, ma della salute morale della nazione, come risposta ad un diffuso disagio sociale".

Ecco perché le varie dissertazioni mediche e legali sulle condotte autolesive in carcere tendevano a concentrarsi sugli aspetti patologici e a trascurare l’influenza dei condizionamenti ambientali e, dunque, degli aspetti sociali. La maggior parte dei lavori, insomma, veniva condotta secondo una prospettiva unilaterale, quella medica, in modo da evitare di affrontare questioni di responsabilità.

L’esempio dell’Inghilterra è sintomatico, dato che per decenni la letteratura sul suicidio in carcere ha seguito due tendenze principali: quella di indirizzo medico – psicologico, come nel Regno Unito, e quella di indirizzo sociologico.

Attualmente, però, i due approcci non sono più così antitetici. Il punto di vista delle ricerche mediche sulle condotte autolesive dei detenuti sta mutando. Pur mantenendo ferma la concentrazione sugli aspetti patologici, infatti, emerge con sempre maggiore evidenza la correlazione fra patologia e fattori ambientali. Le teorie mediche, dunque, seguono un percorso che dall’esame dell’individuo risale a quello dell’ambiente; si parte da uno studio della patologia come fattore responsabile del suicidio per concludere che il carcere stesso è patogeno.

Le teorie sociologiche, all’inverso, partono dallo studio dell’ambiente dell’istituzione totale per affermare, poi, che per quanto possano essere difficili le condizioni ambientali, non tutti i detenuti reagiscono allo stesso modo: dunque, anche la predisposizione personale a compiere gesti autosoppressivi riveste una notevole importanza.

Per quanto, allora, gli studi sul suicidio in carcere possano presentare caratteristiche proprie e costituire un filone a parte, essi hanno vissuto un’evoluzione analoga a quella dell’intera letteratura suicidaria, per cui da anni si è compreso che non esiste una prospettiva unica e privilegiata da cui affrontare il problema, una teoria da preferire alle altre. L’unico approccio possibile è quello multidisciplinare che cerchi di analizzare il complesso fenomeno come frutto dell’interazione fra fattori endogeni e fattori esogeni.

Nel presente capitolo verrà fornita un’ampia documentazione non solo tratta dalla letteratura che, come è stato detto, è vastissima, ma anche dalle esperienze e testimonianze di addetti dell’équipe direttiva della Casa Circondariale di Fuorni, che cortesemente hanno offerto il loro contributo alla realizzazione di questo lavoro.

 

I fattori di rischio suicidario

 

La popolazione carceraria non è di certo rappresentativa delle caratteristiche della popolazione in generale: essa, infatti, ne differisce per l’età media, per la distribuzione fra i due sessi, per la composizione culturale, per tutta una serie di elementi comportamentali, clinici, sociali e, soprattutto, per quel particolare status che costituisce il vero discrimine fra il recluso e l’uomo libero. Molti fra i detenuti sono soggetti cronicamente in aperto conflitto con gli altri, provengono dalle frange sociali più emarginate, hanno un passato difficile, caratterizzato dalla dissociazione familiare e problemi scolastici; molti, poi, sono tossicodipendenti, sieropositivi, malati di Aids, alcolizzati, o ancora nevrotici, psicotici.

È evidente, quindi, che quelli che per la popolazione "libera" sono frequenti fattori di rischio per suicidi e tentati suicidi (precedenti tentativi di suicidio, disturbi psichici, tossicodipendenze, emarginazione sociale) sono nella popolazione carceraria iper - rappresentati.

Inoltre, come sottolinea il Ponti, lo status di detenuto e il vivere nell’ambiente carcerario sono di per sé soli fattori dotati di alto significato psicotraumatizzante e pongono chiunque in una condizione di vita particolarmente drammatica, qual è appunto quella del recluso, sia egli in attesa di giudizio, sia egli in esecuzione di pena.

Detenzione, in entrambi i casi, significa isolamento dalla società, lontananza dagli affetti, regime di vita scandito da regole precise, ineludibili e particolarmente afflittive, impatto con i valori della sottocultura violenta dominanti nell’ambiente carcerario.

Il carico di sofferenza e frustrazione è, in generale, ancora più marcato nei detenuti in attesa di giudizio, per l’ulteriore carico di ansia che comporta l’incognita sull’esito giudiziario, e quindi sul loro futuro, ovvero la consapevolezza di un’inevitabile condanna, e anche perché più recente è il trauma dell’arresto, o le ripercussioni soggettive del delitto appena compiuto.

Le turbe di formazione, allora, unite a un’istituzione patogena producono di fatto un’irresistibile ascesa nei tassi di suicidio. Fin dalla fine dell’Ottocento il noto psichiatra italiano Morselli aveva dimostrato che i suicidi erano molto più frequenti nelle carceri che all’esterno (in Italia, tra il 1870 e il 1879, il tasso medio di suicidi era di 16 per 100.000 detenuti, mentre nelle stesse classi d’età della popolazione generale era inferiore a 6). Ancor oggi, nonostante i notevoli cambiamenti del regime detentivo, l’incidenza suicidaria tra i detenuti è molto più alta rispetto al resto della popolazione.

Tra i diversi contributi della ricerca in questo campo, l’indagine più completa ed esauriente rimane quella compiuta da Topp, il quale nel suo studio ha evidenziato che in prigione si hanno tassi di suicidio tre volte maggiori.

È stata consultata, poi, una ricerca effettuata da alcuni membri del Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’Istituto Superiore di Sanità e del Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dell’Università La Sapienza di Roma, ricerca che gli Autori presentano come il primo studio sistematico sul fenomeno suicidario nelle carceri italiane. In essa, oltre ad essere esaminati, in termini di epidemiologia descrittiva, i casi di suicidio rilevati nei nostri istituti di pena nel periodo 1996 - 1997 e indicate eventuali misure di prevenzione da adottare, sono anche formulate ipotesi sui possibili fattori di rischio.

Nel 1996 i suicidi sono stati 45, di cui 42 di uomini e 3 di donne; nel 1997, invece, il numero è salito a 55, con 52 morti fra gli uomini e 3 fra le donne. Nonostante la maggior parte dei suicidi sia costituita da individui di sesso maschile, il tasso suicidario fra i due sessi risulta comunque analogo, tenendo conto che la popolazione carceraria è rappresentata per circa il 95,7% da uomini e per il restante 4,3% da donne.

Potremmo, anzi, dire che all’interno degli istituti di pena quasi si rovescia quella proporzione che caratterizza il mondo esterno e che vede le condotte autolesive di gran lunga più diffuse fra i maschi che fra le femmine. Gli Autori, pertanto, concludono che, mentre per i detenuti il rischio di suicidio è circa dieci volte maggiore di quello della popolazione generale, nel caso delle detenute tale rischio si triplica, dimostrando che l’esposizione al carcere delle femmine, sia pure con un basso numero di casi, rappresenta una situazione non solo non irrilevante, ma maggiormente pericolosa che nei maschi. A ulteriore conferma, poi, di quanto pesi la diversa composizione della popolazione penitenziaria rispetto a quella libera, i dati dimostrano che non sono gli ultrasessantacinquenni i soggetti fra i quali sono più frequenti le condotte autolesive, bensì gli adulti giovani, con un’età media sotto i 35 anni.

Altro aspetto evidente è la scolarità dei suicidi, sostanzialmente di tipo basso: più del 60% delle vittime aveva conseguito un titolo pari alla media inferiore o anche meno, molti erano gli analfabeti e gli analfabeti di ritorno, uno solo era laureato. Addirittura più della metà erano tossicodipendenti, più di un terzo sieropositivi; alta anche la percentuale di stranieri, in gran parte extracomunitari; e altissima, pari a oltre il 50%, la percentuale dei detenuti in cui era stato riscontrato un disturbo psichico, soprattutto stati depressivi o deliranti e disturbi della personalità.

Dal punto di vista dello status giuridico, sempre più del 50% era sottoposto ormai a condanna definitiva o aveva subito precedenti carcerazioni, ma, fra i detenuti in attesa di giudizio, ben il 75% si era tolto la vita nei primi 15 giorni di detenzione.

Ancora: la maggior parte aveva commesso reati di omicidio, furti, droga, rapine; moltissimi erano in stato di isolamento o comunque collocati in cella singola; moltissimi, infine, si erano suicidati prevalentemente nella seconda metà dell’anno, quella che comprende i mesi più caldi (con conseguente peggioramento delle condizioni ambientali e la riduzione del numero degli operatori a causa delle ferie) e il maggior numero di festività.

I risultati di questa ricerca confermano analoghi studi condotti in altri Paesi: in Australia, negli Stati Uniti, in Francia, in Canada . Infatti, nella valutazione del rischio suicidario gli Autori del lavoro in oggetto hanno individuato come prevalenti i seguenti fattori:

la posizione giuridica (sebbene quella di "condannato" sia a maggior rischio, la posizione di "imputato" è ad altissimo rischio nei primi 15 gg. di detenzione);

lo stato di tossicodipendenza;

la presenza di disturbi psichici;

la presenza di precarcerazioni;

l’isolamento o la collocazione in cella singola (in particolare per gli stranieri);

il secondo semestre dell’anno;

la sieropositività;

la condizione di "straniero", in particolare se in isolamento;

la mancanza di una valutazione oggettiva del rischio suicidario.

 

I significati del gesto suicida

 

All’interno di un centro di documentazione on – line su carcere, devianza e marginalità denominato "L’altro diritto", Silvia Ubaldi ha pubblicato una sua ricerca, "Il suicidio in carcere", per la quale si è avvalsa anche della casistica relativa a tre istituti di pena: Sollicciano, Prato e Pistoia.

L’Autrice dedica ampio spazio ai significati del gesto suicida, facendo riferimento allo schema fissato al riguardo da Baechler, il quale ne individua almeno otto, che riassumono i punti salienti delle principali teorie psicoanalitiche sull’argomento:

il significato di fuga: il soggetto, attentando alla propria vita, cerca di fuggire da una situazione sentita come insopportabile.

il significato di lutto: il soggetto attenta alla propria vita in conseguenza della perdita (reale o immaginata) di un effettivo elemento della sua personalità o dell’ambiente che lo circonda.

il significato di castigo: il soggetto attenta alla propria vita per espiare un errore o una colpa, reali o immaginari.

il significato di delitto: il soggetto attenta alla propria vita per trascinare con sé, nella morte, un’altra persona.

il significato di vendetta: il soggetto attenta alla propria vita, sia per provocare il rimorso altrui, sia per infliggere all’altro l’infamia della comunità.

il significato di richiesta e ricatto: il soggetto attenta alla propria vita per fare pressione sull’altro, ricattandolo.

il significato di sacrificio e passaggio: il soggetto attenta alla propria vita per raggiungere un valore o una condizione giudicata superiore.

il significato di ordalia e gioco: il soggetto attenta alla propria vita per mettere in gioco sé stesso, e organizza una sorta di sfida al destino, in modo da poter rimettere la scelta tra la propria vita o la morte ad un’entità metafisica.

Secondo la Ubaldi nel caso del carcere assumono un significato illuminante soprattutto i concetti di suicidio/fuga e suicidio/vendetta, minaccia e ricatto. Il suicida detenuto attua questi comportamenti nei confronti dell’istituzione carceraria e della società che lo ha recluso. Il suo referente è diverso e, per certi aspetti, più definito di quello del suicida fuori del carcere: infatti, egli ha un referente preciso (come la famiglia nella maggior parte dei casi di suicidio giovanile) e, quindi, il suo gesto è meglio leggibile.

I vari significati del suicidio carcerario sono dall’Autrice differenziati sulla base di quello che ella chiama il "carattere emotivo" del gesto: esistono, quindi, suicidi anaggressivi (o autoaggressivi) caratterizzati da finalità autopunitive e suicidi aggressivi (o eteroaggressivi) caratterizzati, invece, da finalità eteropunitive.

Nella prima categoria rientra il suicidio/fuga, nella seconda il suicidio inteso come vendetta, minaccia, ricatto.

Seguendo lo schema della ricerca, dunque, analizzeremo adesso i significati che più di frequente si celano dietro il gesto di un detenuto di darsi la morte.

 

Il suicidio/fuga

 

"Il carcere – è stato scritto – è come un momento di vertigine, in cui tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, le abitudini che prima rappresentavano la vita, sprofondano d’improvviso in un passato che appare lontano, lontanissimo, quasi estraneo".

L’influenza sconvolgente che l’ambiente carcerario esercita sull’individuo, quindi, è la fonte originaria cui bisogna risalire per comprendere i meccanismi che s’innescano nella mente di una persona costretta a confrontarsi con un mondo sconosciuto, subdolo, promiscuo.

Da molti soggetti il carcere viene vissuto solo come claustrofobica imposizione di regole rigide e nuovi codici di comportamento, come quel luogo in cui ogni idea di futuro diventa improponibile e il presente, privo di avvenimenti, si dilata in un susseguirsi monotono di gesti ripetitivi.

Può accadere allora che il detenuto, in questa condizione spersonalizzante di solitudine e isolamento, maturi l’idea di uccidersi, stretto com’è fra il senso di coazione di una vita etero – imposta e una forte prostrazione psicologica.

Ecco, dunque, il suicidio inteso come fuga, che rappresenta una delle più comuni manifestazioni di suicidio nell’ambiente carcerario. Di fronte ad una situazione avvertita come aberrante e che sembra non presentare alcuno spiraglio di salvezza, il recluso organizza una singolare e drammatica forma di evasione: la sua morte, infatti, ne presenta tutte le caratteristiche, anche se in questo caso la fuga dal penitenziario si avvera, paradossalmente, attraverso la fuga dalla vita stessa.

Come accennato da Page, i detenuti, spesso in preda a stati d’ansia, angoscia, depressione, guardano al suicidio non come ad un atto che porti alla morte, ma come ad una via di fuga verso una sorta di "luogo di pace" in cui potersi rifugiare, come al mezzo attraverso il quale passare ad uno stato migliore.

Il suicidio/fuga, in conclusione, rappresenta l’ultimo gesto che il recluso compie per sentirsi uomo libero e per integrarsi nell’unica cosa riconosciuta come comune a tutti, uomini liberi e non: la morte.

 

Il suicidio/vendetta, minaccia, ricatto

 

Nel detenuto che si dà la morte per vendetta, minaccia o ricatto è del tutto differente sia il modo di concepire la propria condizione di recluso, sia l’atteggiamento nei confronti dell’Istituzione penitenziaria. Non abbiamo più, infatti, un soggetto rinunciatario che, di fronte all’ineluttabilità di una situazione senza sbocchi, reagisce passivamente aggredendo sé stesso e ideando una paradossale forma di evasione che è solo evasione dalla vita, ma, al contrario, un soggetto ribelle nel cui suicidio, estrema forma di trasgressione comportamentale, si ravvisa un’intenzionalità eteroaggressiva, anche se questa aggressività non viene, nei fatti, diretta verso gli altri.

Il suicidio inteso come vendetta nasce dalla maturazione da parte del recluso di un forte senso di rifiuto, di abbandono: inserito in un contesto che l’opinione pubblica tende a disprezzare, se non ad ignorare, si vede dimenticato dalle istituzioni della giustizia, dalla popolazione libera, molto spesso anche dalla sua famiglia. Ma di fronte a tutto questo reagirà non con ansia, né con depressione o angoscia, bensì coltivando dentro di sé un opprimente sentimento di odio e di rivalsa verso tutto e tutti.

Chi si suicida per vendetta, allora, compie un gesto che ha una fortissima valenza interpersonale e che deve essere letto nel senso che si ferisce sé stessi per aggredire gli altri, laddove "gli altri" possono essere i familiari, l’apparato amministrativo statale o qualunque soggetto appaia, agli occhi del recluso, responsabile del suo regime detentivo.

"Nel penitenziario – scrive Menninger – il suicidio può essere motivato dal desiderio di uccidere un "boia fantasmatico", che simboleggi l’Ingiustizia delle Istituzioni verso il carcerato". Quel che è certo è che con questo gesto si compie un’esasperata richiesta di attenzione, è un modo per alzare la voce, per vendicarsi della libertà e dei diritti perduti, della propria infelicità e frustrazione, per farsi, in un certo senso, giustizia da sé.

Il soggetto aggredisce e uccide sé stesso, è vero, ma in realtà, attraverso l’autosoppressione, uccide e punisce gli altri, che aspira a responsabilizzare giocando sull’effetto del loro senso di colpa. È come una sorta di omicidio camuffato o, comunque, un gesto in cui il confine fra omicidio e suicidio è estremamente labile.

In un’interpretazione d’ispirazione chiaramente freudiana, quindi, nel suicidio/vendetta la vittima non fa altro che introiettare un’aggressività che avrebbe voluto rivolgere all’esterno.

Nel suicidio inteso come minaccia o ricatto, invece, si compie il gesto al solo fine d’incutere timore: in una prospettiva chiaramente utilitaristica, l’atto autosoppressivo persegue lo scopo di spaventare l’Istituzione penitenziaria e, per raggiungerlo, il detenuto si serve del proprio corpo e del suicidio (più spesso di un tentativo di suicidio, viste le sue intenzioni) come se fosse di un’arma. Più profondo sarà il grado di premeditazione e il livello di aggressività, più il suicidio da minaccia sfocerà in un vero e proprio ricatto.

Alcuni Autori hanno osservato che, con questa condotta, è come se il recluso riprendesse possesso del proprio corpo, per mantenerlo in ostaggio fino ad ottenere la soddisfazione delle proprie esigenze. Il fine del ricatto potrà essere di diversa natura: un permesso premio, la somministrazione di cure mediche o particolari trattamenti ospedalieri che il soggetto non riesce ad ottenere per vie ortodosse, il trasferimento in un carcere più vicino alla famiglia. In tutti questi casi il gesto assumerà, così, una dimensione finalistica e il suicidio verrà tentato o compiuto talvolta solo per spaventare, ma, nei casi più gravi, per spaventare al fine di ottenere qualcosa di preciso.

Paradossalmente, la minaccia di suicidio viene vista come l’ultima carta da giocare per tentare di modificare la situazione a proprio favore: solo chi ha pianificato i vantaggi e gli svantaggi che potrebbero derivarne ed è consapevole che va incontro a un rischio molto elevato, può compiere un gesto simile.

Per molti Autori questi non possono essere considerati casi di suicidio vero e proprio, perché, anche qualora si avverasse l’evento morte, non ci sarebbe intenzionalità ed una seria determinazione di uccidersi. Si tratterebbe, in realtà, di un suicidio mascherato o simulato o di quel "parasuicidio" di cui nel secondo capitolo abbiamo parlato, citando Kreitman.

Di fronte alla mancanza di una seria volontà autosoppressiva, nel gergo dell’amministrazione penitenziaria si usa l’espressione "suicidio manipolativo", senza per questo, però, dedicare minore attenzione o preoccupazione a queste singolari condotte suicidarie.

 

Primi tentativi di prevenzione: il "Servizio Nuovi Giunti"

 

Con un combinato di norme, l’art. 27 comma 3 e l’art. 32 comma 1, la Costituzione riconosce e tutela il diritto alla salute e, in senso lato, anche il fondamentale diritto alla vita. La salute, il benessere e la vita di ogni uomo, dunque, sono beni di prioritaria importanza, la cui difesa merita tanta più attenzione e impegno quando si tratta, come nel caso dei detenuti, di persone affidate alla sorveglianza ed alla cura di altri.

È questa la ratio che ispira il nostro Ordinamento penitenziario, legge n. 354 anno 1975, e non soltanto nella sua disposizione d’esordio in cui, quasi parafrasando l’art. 27 comma 3 della Costituzione, si dice che "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona"; ma anche in altre norme che esprimono istanze di tutela della salute dei detenuti da parte del legislatore e, quindi, indirettamente anche istanze di prevenzione per eventuali gesti autolesivi.

Nello specifico, l’art. 41, "Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione", individua, al terzo comma, un preciso dovere giuridico e una chiara responsabilità della guardia carceraria: salvare il recluso anche a costo di usare la forza. Al fine di garantire l’incolumità del detenuto, infatti, gli agenti sono autorizzati a usare quei mezzi di coercizione fisica che, normalmente, sono loro inibiti. Di tutela della salute dei carcerati si parla specificamente nell’art. 11 comma 5, il quale prevede che "L’assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell’istituto, con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati". Le cure sanitarie diventano, pertanto, obbligatorie e, in più, l’art. 13, inserito nel capo "Modalità di trattamento", sottolinea che, fin dall’inizio della reclusione e in tutto il corso di essa, i condannati e gli internati sono sottoposti a continua "osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenza fisio - psichiche e le altre cause di disadattamento sociale".

Per questa e molte altre disposizioni e, in generale, per lo spirito che anima l’intera legge, l’entrata in vigore nel 1975 dell’Ordinamento penitenziario fu salutata con interesse e favore: in esso si colse il serio progetto di umanizzare l’ambiente carcerario, di fare in modo che perdesse quel carattere di "istituzione totale" nel senso più opprimente del termine, di dare finalmente attuazione a quell’articolo 27 comma 3 della Costituzione per il quale la pena deve tendere, prima di tutto, alla "rieducazione del condannato".

Ciò nonostante, pochi anni dopo, verso la fine degli anni Ottanta, diversi episodi, verificatisi soprattutto nelle Case Circondariali di Milano e di Trani, fecero registrare un improvviso, allarmante aumento del numero dei suicidi e tentati suicidi.

Fu in questo contesto, allora, che trovò diffusione nel 1986 la cosiddetta "circolare Amato" (circolare n. 3182/5632) con cui l’allora Direttore generale delle carceri affrontò per la prima volta direttamente il preoccupante problema degli atti "anticonservativi". Il documento partiva, innanzitutto, dal dato oggettivo della frequenza, in carcere, del suicidio e di altre forme di autolesionismo e indicava, inoltre, alcune categorie di detenuti che, per la loro maggiore fragilità, erano più esposti ad eventuali intimidazioni, ricatti, prevaricazioni da parte di altri reclusi, nonché, ovviamente, al rischio di condotte suicidarie. I malati di mente, per esempio, ma anche i tossicodipendenti, i giovanissimi, coloro che fanno ingresso in istituto per la prima volta, tutti coloro i quali, in generale, vivono la privazione della libertà in maniera particolarmente sofferta e traumatica. Poste queste premesse, la circolare si proponeva di indicare degli strumenti attraverso i quali contenere il dilagante fenomeno dei suicidi nelle carceri, anche se forse la prospettiva scelta, conciliare l’esigenza di mantenere l’ordine interno all’istituto con quella di tutelare l’incolumità dei detenuti, risultò eccessivamente ambiziosa.

Troppo spesso, infatti, come nota anche Silvia Ubaldi sulla base delle ricerche effettuate in varie Case Circondariali, l’interesse a salvaguardare l’ordine interno sembra prevalere su ogni altro. L’equivoco nasce anche dal fatto che, nella maggior parte dei casi, il procedimento e i rimedi adottati a tutela dell’incolumità del recluso sono gli stessi che, secondo l’articolo 14 bis dell’Ordinamento penitenziario, vengono irrogati come sanzioni nei confronti di quei detenuti che assumano comportamenti eteroaggressivi, compromettendo l’ordine dell’istituto.

Dunque, sia che il carcerato turbi l’ordine dell’istituto e ne metta in pericolo la sicurezza, sia che tenti di togliersi la vita, la misura applicata è, in genere, il regime di "sorveglianza particolare", con il risultato che se, da un lato, si tradisce la ratio della norma, dall’altro, paradossalmente, vengono adoperate a scopo preventivo e terapeutico misure sulla carta punitive.

Nel 1987 una nuova circolare Amato (circolare n. 323/5683), intitolata espressamente "Tutela della vita e dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati", oltre a esprimere "vivissima preoccupazione" per l’ulteriore aumento del numero dei suicidi, individuava, in un’ottica preventiva, l’atto d’ingresso della persona in istituto, specie se per la prima volta, come il momento più significativo. Sottolineava, pertanto, la necessità di intervenire tempestivamente, al momento dell’ingresso, allo scopo di accertare qualsiasi eventuale situazione personale di fragilità fisica o psichica e qualsiasi eventuale inclinazione, tendenza o sintomo suscettibile di tradursi in un atto autoaggressivo.

Si davano disposizioni, quindi, affinché in ogni istituto di pena venisse creato un particolare Servizio per i detenuti e gli internati "nuovi giunti", consistente in un presidio psicologico che avrebbe affiancato, pur senza sostituirli, la prima visita medica generale e il colloquio di primo ingresso. Il presidio veniva affidato a specialisti in psicologia o criminologia clinica e consisteva, preliminarmente, in un colloquio con il nuovo giunto (nel giorno stesso dell’ingresso e prima ancora dell’assegnazione) diretto ad accertare, sulla base di determinati parametri, il rischio che il soggetto potesse compiere violenza su sé stesso. Nel caso il colloquio evidenziasse rischi suicidari nel nuovo giunto, gli esperti l’avrebbero segnalato alla polizia penitenziaria che avrebbe disposto idonee forme di prevenzione: un controllo fisico del detenuto, con particolari forme di alloggiamento (ad esempio, infermerie, centri clinici, infermerie sussidiarie) e un controllo visivo da parte degli agenti.

 

Strategie di prevenzione: ipotesi e suggerimenti

 

Prima di proseguire il discorso sulle strategie di prevenzione, è opportuno indicare alcuni dati relativi ai suicidi nelle carceri italiane, servendoci anche dell’ausilio di tabelle.

 

Tabella 1

Anni

Detenuti suicidi

 

 

1986

43

1987

51

1988

44

1989

38

1990

23

1991

29

1992

47

1993

61

1994

50

1995

50

1996

45

1997

55

1998

51

1999

53

2000

56

2001

70

 

 

Tabella 2

 

Anni

Donne

Uomini

Totale

 

 

 

 

1990

0

23

23

1991

1

28

29

1992

0

47

47

1993

2

59

61

1994

1

49

50

1995

2

48

50

1996

3

42

45

1997

3

52

55

1998

5

46

51

1999

1

52

53

2000

0

56

56

 

 

Attraverso la Tabella 1 è possibile fare delle considerazioni e stilare un bilancio sull’introduzione, nel nostro sistema penitenziario, del Servizio Nuovi Giunti.

Se, infatti, il biennio 1986 - 87, precedente alla circolare Amato istitutiva del presidio, è caratterizzato, come si vede, da una notevole incidenza suicidaria, a partire dall’88, invece, da quando, cioè, esso diviene operativo, riscontriamo, per i tre anni successivi, una sensibile e progressiva diminuzione nel numero dei suicidi. Ciò è particolarmente evidente nel 1990 quando, con 23 casi, si registra il risultato più confortante degli ultimi dieci anni.

Il dato non è, poi, confermato dalle successive rilevazioni che, anche se con un andamento non proprio costante, evidenziano un incremento del fenomeno suicidario fino ad arrivare al picco del 2001, con 70 casi. Se, quindi, compariamo il dato del 1990 con quello del 2001, notiamo che, nell’arco di undici anni, il numero dei suicidi fra i detenuti si è più che triplicato: il dato è sicuramente allarmante, pur volendo considerare il contemporaneo aumento della popolazione penitenziaria.

Il Servizio Nuovi Giunti, dopo un primo esito positivo, ha dimostrato se non l’ambiziosità del progetto, quanto meno i suoi limiti, come convengono molti operatori del settore. Si sottolinea, infatti, che carenze logistiche, di personale e inadeguatezza delle risorse economiche hanno, innanzitutto, impedito l’istituzione del presidio in tutte le carceri italiane.

Anche laddove è stato creato ed è tuttora operativo, però, non può dirsi raggiunto l’obiettivo principale, ossia individuare, fin dal momento dell’ingresso, quei detenuti per i quali l’impatto emotivo fosse stato più drammatico e fossero per questo più a rischio.

Secondo Gilberto Terracina e Stefania La Torre, psicologi presso la Casa di Reclusione Rebibbia di Roma, dove è attivo un vero e proprio Reparto Nuovi Giunti (del quale la La Torre è coordinatrice), sarebbe, innanzitutto, opportuno migliorare con dei corsi la capacità diagnostico – predittiva degli psicologi, i quali sono tenuti, sulla base di un colloquio di pochi minuti, peraltro con un soggetto in condizione di forte disagio, a stabilire se il detenuto è potenzialmente un depresso, se ha quindi possibilità di essere aggressivo verso sé stesso e, nel contempo, a decidere se predisporre o meno la sorveglianza. La diagnosi, inoltre, può essere spesso inficiata dal fatto che molte circolari, per ragioni logistiche inerenti l’organizzazione dell’Istituto, raccomandano di non "tendere verso l’alto" e di indicare i casi "veramente" a rischio, il che, costringendo lo psicologo ad operare una rigida divisione dicotomica fra i nuovi giunti, limita di fatto la prevenzione.

Per il commento alla Tabella 2 si rimanda a quanto detto nel paragrafo relativo ai fattori di rischio a proposito della diversa incidenza suicidaria fra uomini e donne. L’argomento viene ripreso nell’ambito della prevenzione, in quanto s’intende sottolineare che la diversa psicologia e sensibilità delle recluse dovrebbero suggerire forme più mirate di attenzione e di trattamento, una sorta di prevenzione "al femminile". "Le donne – spiega Giuseppe Makovec, ex direttore del carcere di Rebibbia – sono più reattive alla realtà carceraria: essendo per natura più profonde, vivono molto più profondamente la detenzione. Si portano dietro i problemi dei figli, del marito, della casa, quindi vivono il carcere in maniera più drammatica perché è una struttura a dimensione - uomo, le discipline e le norme sono fatte a misura maschile".

Comparando dal punto di vista numerico i suicidi nelle carceri italiane con quelli di altri Paesi europei risulta, ad esempio, che sono meno della metà di quelli che si verificano negli Istituti di pena francesi, la metà di quelli delle carceri belghe, un terzo di quelli delle carceri austriache, grosso modo pari a quelli di Inghilterra e Germania, e meno della media che si registra nei sistemi penitenziari europei. Sono, tuttavia, sempre troppi: la media, nel 2001, di un suicidio ogni cinque giorni resta inaccettabile, apre molti interrogativi e pone l’istituzione carceraria di fronte alla pressante esigenza di individuare nuove e più valide strategie di prevenzione.

È stata messa in discussione la validità della formula dell’alta sorveglianza, la cui modesta incidenza ha dimostrato che un atto meramente custodiale non è un valido deterrente.

Nella già citata ricerca "Il suicidio nelle carceri in Italia: uno studio epidemiologico (1996 – 1997)", gli Autori, sulla base dei dati a loro disposizione e dei risultati di studi internazionali, estraggono alcune linee guida per la prevenzione del fenomeno. Essa dovrebbe comprendere tre momenti: un primo a carattere generale ambientale, un secondo a carattere diagnostico – individuativo ed un terzo a carattere terapeutico. I tre momenti devono integrarsi e ciascuno di essi non può, naturalmente, prescindere dagli altri due.

Per quanto riguarda l’aspetto ambientale, sono individuate le seguenti misure: miglioramento delle condizioni generali (come, ad esempio, gli aspetti "alberghieri"); umanizzazione dei rapporti intersoggettivi; riduzione dell’inattività e dell’isolamento affettivo; separazione dei tossicodipendenti e degli alcolisti dagli altri detenuti; migliore distribuzione del numero dei reclusi per metro quadrato, nel senso della riduzione dell’affollamento; riduzione della frattura con il mondo esterno e agevolazione dei contatti con la famiglia; maggiore sorveglianza.

Per quanto riguarda il momento diagnostico – individuativo, risulta indispensabile un corretto esame psichico per una valutazione oggettiva del rischio suicidario. Ribadendo che va posta attenzione all’atto dell’ingresso della persona in Istituto, specie se per la prima volta, si sottolinea che l’osservazione non deve limitarsi all’inizio della detenzione, ma proseguire nel corso di essa.

Rientrano nel momento terapeutico: un adeguato e individualizzato trattamento psicologico del disagio e del disturbo rilevati; il coinvolgimento di tutto il personale penitenziario, compresi i volontari; il coinvolgimento dei detenuti e dei familiari; l’incentivazione dei "permessi premio".

Un progetto del genere implica, però, un significativo investimento di energie e di tempo, di strumenti e di risorse, di personale e di competenze per l’attività di consulenza e di sostegno terapeutico.

L’amministrazione penitenziaria mostra certamente molta attenzione nei confronti del fenomeno suicidario: prova ne è, ad esempio, la creazione nel 2000, ad opera del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), di un’Unità di monitoraggio – Umes - per esaminare uno per uno i casi di suicidio; il maggior numero delle iniziative di prevenzione restano, comunque, affidate, a livello di sperimentazione, ai singoli Istituti di pena.

Nella Casa Circondariale "Le Vallette" di Torino, per iniziativa del direttore Pietro Buffa, è stato creato un "Gruppo di attenzione" finalizzato a rilevare per tempo le situazioni critiche, i momenti di sconforto che rischiano di sfuggire agli operatori oberati da incombenze di routine.

A livello di rimedio strutturale si adotta, in molte carceri, la cosiddetta "cella liscia", un parallelepipedo senza nessun oggetto all’interno e nessun appiglio alle pareti.

Luigi Pagano, direttore del Carcere San Vittore di Milano, sta tentando di seguire un modello già operativo in America: selezionare un numero di detenuti scelti, formarli e, poi, utilizzarli come supporto e controllo nei confronti dei soggetti che, ad un primo esame, appaiono più deboli.

Spesso, infatti, soltanto gli altri reclusi possono rendersi interpreti di taluni segnali: un compagno rientrato sconvolto da un colloquio, una lettera di addio. La capacità di ascolto dell’istituzione talora serve a poco se manca l’interlocutore rappresentato dai compagni di vita del detenuto a rischio. La prevenzione del suicidio ha bisogno, dunque, di una comunicazione tra detenuti e istituzione.

 

Visita alla Casa Circondariale di Fuorni (Salerno)

 

Nel maggio 2002, presso la Casa Circondariale di Fuorni (Salerno), è stato possibile avere degli incontri con alcuni membri dell’equipe penitenziaria, il direttore Alfredo Stendardo e uno degli educatori Giovanni Mandolfino. Dopo aver esaminato la documentazione sulla politica di prevenzione svolta in alcune carceri italiane, è, infatti, apparso utile e opportuno attingere dati e notizie direttamente da operatori del settore.

La Casa Circondariale di Fuorni – la cui struttura è abbastanza recente, risalendo agli anni ’80 – pur essendo un istituto di pena di medie dimensioni, presenta una popolazione carceraria le cui caratteristiche ricalcano quelle dell’intera popolazione carceraria italiana.

Il primo dato comune è quello che riguarda i problemi di sovraffollamento, dovuti alla discrasia fra quella che sarebbe la capienza regolamentare del carcere e il numero effettivo dei reclusi: le varie sezioni maschili, per esempio, mentre hanno una capienza regolamentare per 220 soggetti e tollerabile per 280, ne accolgono effettivamente fra i 330 e i 400 (attualmente 400); il settore femminile, poi, ha una capienza regolamentare per 20 detenute, tollerabile per 28, effettiva fra le 40 e le 60 (attualmente 35).

Dunque, il 92% dei detenuti sono uomini, l’8% donne. Dal punto di vista dell’età il 30% dei maschi è compreso fra i 18 e i 25 anni; il 50% fra i 25 e i 50; il restante 20% fra i 50 e i 70. Per le femmine il 40% ha fra i 18 e i 30 anni; il 45% fra i 30 e i 50; il 15% fra i 50 e i 70.

Sotto l’aspetto della scolarità, solo lo 0,5% dei maschi è laureato; circa il 10% ha un diploma di scuola superiore; il 70% ha terminato la scuola dell’obbligo; il restante 19,5% è costituito da analfabeti o analfabeti di ritorno.

Fra le donne non c’è nessuna laureata; l’1% ha un diploma di secondo grado; l’80% ha terminato la scuola dell’obbligo; il 19% è analfabeta o analfabeta di ritorno.

Per quanto riguarda la nazionalità, su 435 detenuti 50 sono extracomunitari, pari all’11,5% dell’intera popolazione carceraria.

Relativamente ai detenuti in condizione di disagio, i tossicodipendenti sono 70 (dunque il 16% del totale); non è stato possibile, invece, accedere ai dati relativi ai sieropositivi e ai malati di AIDS, comunque presenti.

Per quanto riguarda la posizione giuridica dei detenuti, 70 stanno scontando condanna definitiva (16% dell’intera popolazione penitenziaria); circa un centinaio (23%) sono "giudicabili puri", ossia in attesa di primo giudizio; i restanti (circa 260, pari al 61% del totale) sono divisi fra appellanti, ricorrenti e soggetti con posizione giuridica "mista" (per esempio, condannati in via definitiva per un reato, ancora in attesa di primo giudizio per un altro).

La politica trattamentale e rieducativa del carcere di Fuorni prevede per i reclusi una serie di corsi e di attività: innanzitutto un’attività scolastica, sia elementare che media; un laboratorio teatrale e un corso di musica; infine, nove corsi di formazione professionale: per idraulico, elettricista, ceramista, elettronico, falegname, giardiniere, cartellonista o scenografo, sarto e, per il settore femminile, un corso di aerobica.

Ai corsi si ha accesso secondo un criterio basato sulla posizione giuridica dei reclusi: per cui vengono scelti prima i detenuti che stanno scontando condanna definitiva, poi gli appellanti e i ricorrenti, infine i giudicabili.

Per motivi di sicurezza vengono automaticamente esclusi dai corsi e dalle attività coloro che siano sottoposti a isolamento, sorveglianza, o che abbiano il divieto d’incontro con le famiglie.

Il personale penitenziario è costituito da tre vicedirettori, due educatori (uno ogni 200 detenuti), due psicologi per l’osservazione e un presidio psicologico per i tossicodipendenti, sedici volontari, 270 guardie e 30 poliziotte per il settore femminile.

Non è mai stato istituito il Servizio Nuovi Giunti e non esiste, quindi, un reparto per la prima accoglienza.

Nel 2001 ci sono stati due casi di suicidio: entrambi i detenuti erano di sesso maschile; uno era molto giovane e si è tolto la vita per impiccagione; l’altro, anziano, si è soffocato con un sacchetto di plastica; entrambi hanno lasciato messaggi scritti.

Il dottor Stendardo, che dirige da più di quattro anni l’istituto, si è confrontato in passato con le più difficili realtà del carcere napoletano di Poggioreale (che ha diretto per tredici anni) e di Secondigliano, maturando, quindi, una lunghissima esperienza.

Egli ritiene che l’aumento, per molti versi allarmante, dei suicidi in carcere, sia dovuto, innanzitutto, all’inadeguatezza degli strumenti di prevenzione a disposizione degli operatori penitenziari. Quelli esistenti, infatti, data la loro insufficienza, andrebbero potenziati, migliorati, integrati con altri più moderni e completi.

"Oggi – sottolinea – a parte il servizio di prima accoglienza, che a Fuorni, peraltro, manca, la nostra possibilità d’intervento sul "detenuto debole" è limitata alla scelta fra un controllo blando e un controllo a vista. Il controllo blando, nei casi a rischio, è spesso inutile. E quello a vista, a volte, lo è altrettanto. Per due motivi: il primo è che si rischia un’infantilizzazione della persona, che è la cosa peggiore, e il secondo è che l’addetto al controllo non può garantire un’effettiva presenza a tempo pieno; basta, perciò, che il detenuto decida di togliersi la vita di notte, sotto le coperte, che ogni verifica diventa vana.

Ogni detenuto, nel momento in cui entra in cella, porta con sé tutto il suo mondo, i suoi problemi, le sue caratteristiche: è principalmente su questo che bisogna agire. Bisogna, cioè, lavorare sulle persone, ma anche sull’atmosfera del carcere: l’umanizzazione dell’istituto di pena è l’obiettivo primario".

Secondo il dottor Stendardo l’umanizzazione del carcere può attuarsi se viene acquisita una diversa mentalità da parte della società civile, che non dovrebbe più vedere il carcere come una realtà scomoda da negare, ignorare e tenere a distanza. Il mondo esterno, per lui, andrebbe sensibilizzato, per essere, poi, pronto ad accogliere gli ex detenuti alla fine della pena: sarebbe questo il fondamentale momento finale di quel processo di rieducazione iniziato all’interno del carcere.

Umanizzazione, ovviamente, significa anche favorire il miglioramento dei rapporti intersoggettivi, incentivare le occasioni d’incontro con la famiglia e con quegli esponenti della società che possano fornire al detenuto stimoli e un’occasione di arricchimento.

Il dottor Stendardo segnala due iniziative da lui prese, tendenti entrambe a ridurre la frattura col mondo esterno.

È stata istituita, infatti, una giornata speciale, in cui tutti i detenuti hanno l’opportunità d’incontrare i propri cari e di pranzare con loro.

"Almeno – dice Stendardo – hanno la possibilità di vivere in famiglia per qualche ora, illudendosi che sia una giornata normale. Una seria politica di prevenzione contro gli atti di autolesionismo, infatti, deve tendere a ridurre l’inattività e l’isolamento affettivo".

Nel 2001, poi, il direttore ha coinvolto alcune scuole superiori della Provincia in un ciclo di cineforum all’interno della Casa Circondariale: un’iniziativa sempre finalizzata a creare una maggiore osmosi fra detenuti e mondo esterno.

"Le idee di un direttore, purtroppo – continua Stendardo – spesso si scontrano con la scarsità delle risorse amministrative e finanziarie, l’inadeguatezza delle strutture e, a volte, anche con la scarsa sensibilità delle istituzioni.

L’anno scorso, per esempio, avevo presentato un progetto per la costituzione di cooperative di detenuti ed ex detenuti. L’obiettivo era di consentire loro un’integrazione nel tessuto sociale, ma il progetto non è andato a buon fine. La Comunità Europea aveva messo a disposizione dei fondi per finanziare l’iniziativa, ma il Comune e la Provincia hanno fatto mancare la loro approvazione".

Come ulteriore esempio di politica penitenziaria che abbia anche delle finalità di prevenzione degli atti di autolesionismo, il dottor Stendardo parla anche della necessità di tener conto delle diverse culture e delle diverse anime del carcere. In ogni istituto di pena, infatti, gli stranieri sono ormai numerosi e consistente è anche il numero di quelli non di religione cattolica: mentre l’Ordinamento penitenziario, all’articolo 26 comma 4, prevede per i detenuti di religione acattolica il "diritto di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti", all’interno delle carceri mancano degli spazi dove questi reclusi possano riunirsi anche solo in preghiera.

Allo stesso modo sarebbe importante combattere l’inevitabile maggiore sradicamento e isolamento di questi soggetti attraverso l’istituzione della figura del mediatore culturale.

Particolarmente interessanti sono stati i colloqui con il dottor Giovanni Mandolfino, educatore del settore femminile del carcere, che, sulla base della sua lunga esperienza, ha svolto delle riflessioni proprio sul ruolo dell’educatore penitenziario, troppo spesso ignorato, e sull’importanza che, invece, potrebbe avere in una penetrante politica di prevenzione delle condotte autolesive.

L’educatore, infatti, anche per spiccate caratteristiche culturali e personologiche, dovrebbe costituire il fulcro dell’organizzazione delle attività di osservazione e trattamento dei detenuti; in quanto vera e propria figura – chiave dell’istituzione carceraria, dovrebbe curare l’insieme di interventi sulla persona del recluso, sulle sue problematiche, di natura esistenziale, familiare, detentiva, giuridica; organizzare tutte le attività socializzanti all’interno della prigione, mediare fra le autorità e la comunità dei reclusi, soprattutto fare da ponte con la realtà esterna nel momento in cui, ad esempio, il soggetto viene ammesso alle misure alternative alla detenzione.

È, insomma, l’educatore che, più di ogni altro, all’interno di un istituto di pena, ha il compito di stabilire con il recluso un rapporto umano, di seguire da vicino il suo percorso di formazione e cambiamento personologico, di aiutarlo nel reinserimento nel tessuto sociale.

"Se, però – spiega il dottor Mandolfino - l’educatore non riesce ad essere per il detenuto una figura significativa e un supporto forte, ciò dipende sicuramente dalle gravissime carenze di personale che affliggono l’area educativo – trattamentale, per cui l’esiguo numero degli operatori di questo settore finisce con l’essere assorbito da mansioni di carattere burocratico – amministrativo (ad esempio, trasmissione di istanze del detenuto, per ottenere i vari benefici di legge; stesura di rapporti informativi sulla condotta inframuraria). In pratica, l’educatore è assimilato più ad un operatore amministrativo che ad un pedagogista."

In conclusione, per l’eccessiva burocratizzazione del ruolo, l’educatore perde il rapporto diretto con il detenuto - persona: quindi, specie nel caso dei "soggetti deboli", viene a mancare quella figura che, attraverso l’autorevolezza, l’ascolto e la capacità d’interazione, sappia, ad esempio, far entrare il recluso in contatto con la propria colpa reale, aiutarlo a prendersi la responsabilità delle proprie azioni, promuovere in lui uno scopo di vita.

 

 

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