Bologna: detenuti di 25 etnie

 

Bologna, detenuti di 35 etnie, tensioni e risse dividono i gruppi. Tra due anni nessun italiano

 

Corriere della Sera, 1 agosto 2003

 

Anche oggi Vladica porta le sue nuove compagne a scuola di carcere. Lei è la "maestra", per tutti. Senza di lei, nella sezione femminile volerebbero schiaffoni tra detenute, ci sarebbero interventi "da codice 1" delle guardie, quelli più urgenti.

Conoscere le lingue aiuta. Fuori, ma soprattutto dentro. E Vladica Pancic, 36 anni, alta, capelli corvini, ha imparato l’italiano nei corridoi della Dozza di Bologna, il suo domicilio fino al 2006, condanna per sfruttamento della prostituzione. L’inglese e il francese se li portava da casa, li aveva studiati all’università di Belgrado. "In questi giorni "curo" una ragazza ghanese che è appena arrivata. Ad essere sinceri, non capisco nulla di quello che dice. Però con i gesti e due "what", ce la facciamo. Le spiego come si vive qui, quali sono le regole non scritte".

Succederà tra un paio d’anni, e la Dozza sarà una notizia, una curiosità da titoli del telegiornale. Il primo penitenziario italiano ad avere una popolazione completamente straniera. Alla conta di oggi, i numeri dicevano che dei 925 detenuti (la media annuale è di 960, la capienza tollerabile è di 474) che vivono in questo carcere alla periferia di Bologna, il 68 per cento è extracomunitario.

Trentacinque nazionalità diverse: albanesi, marocchini e tunisini (i gruppi più numerosi), ma anche nigeriani, moldavi, cinesi, libanesi, palestinesi, pakistani, iracheni, lituani. Su 68 detenute del raggio femminile, solo nove sono nate in Italia. E il flusso quotidiano dei nuovi arrivi restituisce l’immagine - qui più che altrove - di un processo irreversibile, su dieci detenuti che entrano alla Dozza, nove sono stranieri. Chi lascia il carcere è italiano (7 ogni dieci "partenti"), chi lo sostituisce è nato e cresciuto in altri mondi.

Le mazzate nell’aria grande (lo spazio per l’ora d’aria dei detenuti) dello scorso maggio sono usate da tutti come un esempio. Un albanese che insulta un giovane marocchino all’uscita della cella al mattino, una partita di pallone che diventa un regolamento di conti tra trenta persone (gli "slavi" contro gli "africani"), pugni, testate in faccia, ginocchiate, infermeria piena anche di guardie che si erano buttate in mezzo alla mischia per separare i contendenti.

Mario D’Argento guardava lo spettacolo. In teoria, lui da qui non se ne va. Si sta facendo un "calendario infinito", che significa ergastolo. Era a tempo pieno uno della banda del Giambellino, quando - inizio anni Ottanta - nella Milano di Francis Turatello e Angelo Epaminonda ci si ammazzava parecchio. "Noi stiamo male, gli stranieri stanno peggio. Sono in un mondo duro, che non conoscono affatto. Non fanno colloqui perché le loro famiglie sono lontane, quindi nessun contatto con l’esterno. Non ricevono pacchi. Non possono lavorare fuori perché non se li prende nessuno". Ci si mena molto, alla Dozza. Le tensioni tra i gruppi etnici affiorano ogni giorno. Focolai di rissa, insulti. E tanta frustrazione per chi viene da lontano.

D’Argento paga il conto per quel che ha fatto, ma tira avanti con il miraggio della semilibertà, e poi dell’affidamento, e un giorno chissà: "Loro davanti a sé non hanno niente. E questo in carcere è brutto, è micidiale per l’equilibrio interno di un uomo".

È esplosivo, se capita in un medio penitenziario italiano, dove il modello "due per quattro", quattro detenuti in celle progettate per due, è diventato una consuetudine dettata dalla necessità. "Basta guardare le statistiche per capire che non si tornerà indietro", dice la direttrice della Dozza, Manuela Ceresani. I numeri dicono che nel 1990 i detenuti stranieri transitati in un carcere italiano erano 9.508, dieci anni dopo erano saliti a 29.362. La popolazione media dei nostri penitenziari - agosto 2003 - è di quasi 37.000 italiani e 20.000 extracomunitari. Ma sono cifre e cambiamenti che riguardano soprattutto il Nord, gli istituti di pena delle grandi città. Da San Vittore a Milano passando per le Vallette di Torino fino al decrepito Marassi di Genova, qui la geografia del carcere è già cambiata. Sotto Roma non è ancora così, gli italiani sono ancora maggioranza.

"È stato un cambiamento epocale e velocissimo avvenuto in un mondo dove - per definizione - il tempo è sempre fermo", dice la dottoressa Ceresani. Il cibo, le abitudini religiose e culturali, la montagna dei diversi linguaggi da scalare, la "commistione" con gli italiani in spazi ristretti (troppo ristretti). Una specie di rivoluzione che alla Dozza affrontano con sei educatori per 950 persone, una carenza perpetua di poliziotti penitenziari. I soliti problemi, che si sommano a quelli nuovi. I detenuti stranieri raramente possono telefonare come gli italiani. Perché la legge prevede che le conversazioni vadano registrate, e non sempre quelli del servizio di mediazione culturale (finanziato dal Comune) riescono a spedire in carcere un esperto di idiomi nigeriani che faccia da interprete. I detenuti delle tre sezioni al pian terreno sono i più fortunati, perché a quelli di sopra l’acqua arriva poco e male. Sono finiti i soldi per le medicine, fino a settembre il dottore arriverà "solo in casi urgenti".

La Dozza non si vede dall’esterno. È a 10 chilometri dal centro di Bologna, nascosta agli automobilisti da una barriera di pioppi. Ha solo 18 anni, e non è invecchiata bene. Nel dicembre 1985, quando fu inaugurata, strappò un raro sorriso anche all’arcigno Mino Martinazzoli, allora ministro della Giustizia del primo governo Craxi. "Un gioiello che deve segnare la rinascita del nostro sistema carcerario", si lasciò andare. Non aveva torto.

I detenuti che traslocarono dalle vecchie mura di San Giovanni in Monte si guardavano intorno basiti. Architettura severa, ma corridoi larghi e illuminati dalle luci al neon, celle con soli due letti, addirittura i materassi a molle. E un programma di rieducazione dal quale si poteva scegliere se frequentare il corso di yoga o quello di giardinaggio. Sul tempo si è spalmata l’incuria, la carenza di risorse. Gli "ospiti" sono cresciuti in maniera esponenziale, i soldi sono diminuiti. La Dozza va avanti anche e soprattutto con aiuti esterni. "Siamo fortunati - spiega la direttrice - perché qui c’è una presenza fortissima delle associazioni di volontariato. Senza di loro..." e si fa il segno della croce.

La stradina che porta al braccio femminile costeggia un bel giardino per i colloqui all’aperto. Ma è sporca, si scivola sull’unto. Fino a quando c’era il denaro per pagare il lavoro interno dei detenuti, ci pensavano loro. Adesso, una disinfestazione d’urgenza ha eliminato gli scarafaggi che dalle finestre entravano nelle celle. Non è un carcere terribile. "Diciamo che non ci sono materassi a terra, ognuno dorme nel suo letto", dice la direttrice. È un risultato, ma non era questo lo spirito con il quale fu costruito "il primo carcere moderno d’Italia" (Renzo Imbeni, sindaco di Bologna nel 1985). Tamburella con le dita sul tavolo, Manuel Asamoah. È un ghanese, ha 32 anni, uscirà nel 2006. Ha già assaggiato altre carceri, qui lavora al giornale dei detenuti (si chiama Extra), gioca a pallone, fa attività fisica. "Un lusso rispetto agli altri posti dove sono stato". Ci pensa un po’, e alla fine dice: "A noi "stranieri" in carcere dovete soltanto dare un motivo per andare avanti. Insegnarci un mestiere, qualcosa che potremo fare quando ci rispedirete a casa nostra. Insomma, dovete darci una speranza. Come a tutti gli altri".

 

 

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