Processi per violenze e pestaggi

 

Sassari: processo per il maxipestaggio

del 3 aprile 2000 al "San Sebastiano"

 

Procedimenti avviati

Reati ipotizzati

A carico di

Esito

Procura di Oristano

Abuso d’ufficio, omissione atti d’ufficio

Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria

Condanna

Procura di Oristano

Abuso d’ufficio, omissione atti d’ufficio

Direttore del carcere

Condanna

Procura di Oristano

Abuso d’ufficio, violenza privata e lesioni

Comandante della P.P.

Condanna

Procura di Oristano Abuso d’ufficio, violenza privata e lesioni 10 agenti di P.P. Condanna

Procura di Oristano

Abuso d’ufficio, violenza privata e lesioni

48 agenti di P.P.

Assoluzione

Procura di Oristano

Abuso d’ufficio, violenza privata e lesioni

34 tra funzionari, agenti e medici penitenziari

Sconosciuto

 

27 marzo 2000: i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziano una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre delle celle a mezzanotte meno un quarto. Battono con le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fanno esplodere le bombolette di gas. La protesta segue quello dei direttori. A causa del loro sciopero, infatti, i detenuti sano lasciati senza viveri del "sopravvitto" e senza sigarette.

10 aprile 2000: viene organizzato uno sfollamento generale dei detenuti da trasferire in altri istituti dell’isola. Durante la traduzione una trentina di detenuti vengono brutalmente picchiati. I parenti protestano. Scattano le prime denunce, l’associazione Antigone il 18 aprile 2000 incontra i vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzano una fiaccolata.

3 maggio 2000: la Procura emette 82 provvedimenti di custodia cautelare, di cui 22 in carcere e 60 agli arresti domiciliari. Vengono coinvolti il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, la direttrice, il medico, il comandante di reparto.

9 marzo del 2001: il sostituto procuratore presso la Repubblica di Oristano chiede il rinvio a giudizio per 95 fra agenti e dirigenti dell’Amministrazione penitenziario. 50 imputali chiedono il rito abbreviato semplice o condizionato.

21 febbraio 2003: il Giudice per l’Udienza Preliminare di Sassari condanna con il rito abbreviato l’ex Provveditore generale delle carceri sarde a un anno e sei mesi, l’ex direttrice a un anno, l’ex comandante degli agenti a un anno e quattro mesi, 10 agenti di polizia penitenziaria da quattro a sei mesi. Nove agenti verranno giudicati a seguito di rito ordinario, 48 gli assolti. Si tratta della più grande inchiesta per maltrattamenti nella storia delle carceri italiane.

 

 

Rassegna stampa sul pestaggio di Sassari

 

Pestaggi in carcere: 95 dal Gip. Domani udienza preliminare per gli agenti e i dirigenti

 

La Nuova Sardegna, 21 ottobre 2001


Tredicimila pagine di atti giudiziari, 95 imputati, 120 parti offese, cinquanta avvocati, un esercito di uomini delle forze dell’ordine. Quella che si aprirà questo pomeriggio a Santa Maria, nella grande aula della corte d’appello trasformata in un bunker per garantire la segretezza degli atti e il diritto alla riservatezza dei protagonisti, sarà ricordata come l’udienza preliminare dei grandi numeri. Il Gup Antonio Luigi Demuro deve decidere la sorte processuale dei presunti ideatori, organizzatori e autori del maxi pestaggio messo in atto, il 3 aprile 2000, nel carcere di San Sebastiano.
Tra gli imputati spiccano Giuseppe Della Vecchia e Maria Cristina Di Marzio, all’epoca rispettivamente provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e direttrice della casa circondariale. Tra gli accusati eccellenti c’è poi l’ispettore Ettore Tomassi.

Fu lui, neo promosso comandante delle guardie, a dirigere la spedizione punitiva organizzata per stroncare una protesta che aveva messo in imbarazzo l’amministrazione davanti a una delegazione di parlamentari? Secondo le accuse Della Vecchia organizzò nei dettagli, reclutando agenti in tutte le carceri sarde, il pestaggio collettivo di reclusi che avevano osato ribellarsi. In un penitenziario vecchio e invivibile.

Il giudice dell’udienza preliminare domani si metterà al lavoro per districare il caso giudiziario che, un anno e mezzo fa, fece esplodere come un bubbone la situazione della violenza nei penitenziari italiani. Uno scandalo nazionale che portò Sassari sotto la luce dei riflettori.
Il Gup, al quale i pm Giuseppe Porqueddu e Gianni Caria hanno chiesto 95 rinvii a giudizio per abuso d’ufficio e concorso in lesioni aggravate, sta lavorando già da mesi a un caso che dovrebbe impegnarlo fino all’11 dicembre. Almeno stando al calendario che prevede due udienze alla settimana, in tutto quattordici, durante le quali gli imputati cercheranno di respingere una valanga di accuse.
Il monumentale fascicolo processuale è rimasto fino a mercoledì scorso in cancelleria, a disposizione di difensori, imputati e parti offese. Pur garantendo i diritti di tutti i personaggi coinvolti, il Gup aveva previsto un controllo rigidissimo degli atti. La stessa massima vigilanza che il magistrato ha chiesto, per tutta la durata dell’udienza preliminare, fuori e dentro l’aula bunker di Santa Maria. Nei giorni scorsi il servizio d’ordine è stato messo a punto nel corso di una riunione alla quale hanno partecipato, in prefettura, i vertici di forze dell’ordine e magistratura.
L’udienza per i fatti di San Sebastiano rischia di blindare non solo la corte d’appello, ma parte della città. Tra magistrati, imputati, persone offese, avvocati, impiegati e forze dell’ordine dovrebbero aggirarsi a Santa Maria più di cinquecento persone. Mentre gli imputati sono tutti a piede libero, la maggior parte dei 120 detenuti vittime dei pestaggi sono ancora reclusi. E saranno quindi scortati in aula dalla polizia penitenziaria.

Oltre all’incredibile traffico di cellulari, non è azzardato prevedere nuove manifestazioni di protesta. Diciotto mesi fa, dopo gli 82 arresti che rivoluzionarono il "pianeta carcere", centinaia di agenti penitenziari scesero in piazza per solidarizzare con i colleghi finiti in carcere. Alla vigilia dell’udienza preliminare, il vento della protesta sindacale ha ripreso a soffiare.

 

L’ex direttrice di San Sebastiano: "Non ho visto pestaggi in carcere". Sassari, così si è difesa durante l’interrogatorio in udienza

 

La Nuova Sardegna, 4 dicembre 2001


Non si è accorta di nulla. Perché davanti a lei non sarebbe stato compiuto alcun gesto di violenza nei confronti dei detenuti. Maria Cristina Di Marzio, direttrice del carcere di San Sebastiano fino al 2 maggio 2000, quando era stata arrestata nel blitz per il pestaggio di detenuti del 3 aprile, è arrivata nell’aula della Corte d’appello poco dopo le 15,30. A piedi. Eleganza sobria, capelli a caschetto con colpi di sole, ha cercato di mascherare dietro un sorriso forzato la tensione che l’attanagliava. In aula è stata interrogata dal gup Antonio Luigi Demuro, dal pm Gianni Caria e dai suoi difensori, gli avvocati Franco Luigi e Gabriele Satta. Oltre tre ore di domande su quel pomeriggio del 3 aprile. Ma l’ex direttrice ha ribadito quanto aveva già sostenuto all’indomani del suo arresto. Avrebbe spiegato di aver notato un certo trambusto, ma nessuna violenza. Ha raccontato nei minimi dettagli i suoi spostamenti, insieme al Provveditore regionale Giuseppe della Vecchia e di aver intravisto un detenuto nudo durante una perquisizione. Avrebbe anche spiegato di essere stata informata di quel che era accaduto, ma di non aver fatto nulla perché sapeva che stava già indagando la magistratura. L’interrogatorio dell’ex direttrice continua stamattina.

 

Rito abbreviato per il caso San Sebastiano. La direttrice: "Sentii rumori mentre prendevo un caffè, non pensai ad un pestaggio"

 

La Nuova Sardegna, 5 dicembre 2001


Ha risposto alle domande, ribadendo ostinatamente di non aver assistito a episodi di violenza. Ma alla fine della lunghissima e tesissima udienza, gli avvocati Franco Luigi e Gabriele Satta, difensori di Maria Cristina Di Marzio, l’ex direttrice del carcere di San Sebastiano, hanno deciso di chiedere il rito abbreviato. E altrettanto hanno fatto i difensori dell’ispettore Ettore Tomassi. Le istanze di rito abbreviato sono state presentate al termine dell’interrogatorio dell’ex direttrice. A cui ha assistito, a sorpresa, anche l’ispettore Tomassi, al quale il 3 aprile del 2000, il giorno del feroce pestaggio dei detenuti, era stato affidato l’incarico di comandante delle guardie del carcere di San Sebastiano direttamente dal Provveditore carcerario regionale, Giuseppe della Vecchia. E dopo un conciliabolo con i suoi difensori, gli avvocati Claudio Montalto e Pietro Piras, anche Tomassi ha preferito scegliere la strada più breve per chiudere la vicenda giudiziaria.

Un passo, quello delle celebrazione del processo con il rito abbreviato davanti al gup Antonio Luigi Demuro, che, probabilmente, faranno nelle prossime udienze anche i difensori di Giuseppe della Vecchia, gli avvocati Patrizio Rovelli e Giammario Secchi. Ma al momento, soltanto l’ex direttrice e l’ex comandante hanno dichiarato la loro decisione. E così dovranno ripresentarsi nell’aula della Corte d’appello il 28 gennaio 2002. Insieme a un’altra cinquantina di imputati che avevano optato per il rito abbreviato fin dalla prima udienza. L’udienza preliminare, a meno di clamorose sorprese sotto forma di ulteriori richieste di rito abbreviato, andrà avanti lunedì prossimo e dovrebbe concludersi ai primi di gennaio con rinvii a giudizio ed eventuali proscioglimenti. L’udienza di ieri, alla quale era presente l’ispettore Ettore Tomassi, è stata incentrata sull’interrogatorio di Maria Cristina di Marzio. Dopo quanto aveva sostenuto lunedì sera, rispondendo alle domande dei suoi difensori, del Gup e del pm Gianni Caria, l’ex direttrice di San Sebastiano ha ribadito la sua versione anche nelle repliche ai difensori degli altri imputati e agli avvocati di parte civile. Maria Cristina Di Marzio ha negato la sua presenza in carcere durante il pestaggio, sostenendo che, davanti a lei, durante la sua permanenza nella rotonda centrale del penitenziario, non si erano assolutamente verificati episodi di violenza. E l’ex direttrice avrebbe risposto in maniera evasiva alle domande dei patroni di parte civile che hanno riferito quel che hanno sempre dichiarato i detenuti: di averla vista in diversi punti del carcere quel pomeriggio del 3 aprile 2000.

 

La rivolta degli avvocati per lo scaricabarile sugli agenti. "Dai responsabili solo bugie"

 

L’Unione Sarda, 5 dicembre 2001

 

Sono loro, sono gli ultimi. Bracci armati di una mente che non c’è. Sono gli agenti di polizia penitenziaria, accusati, arrestati, additati da una opinione pubblica scandalizzata da quelle botte da orbi nella prigione dentro la città. Sono loro, e sono soli. Non partecipano al processo che li riguarda, le divise blu che frequentano l’aula che accoglie l’udienza preliminare sono qui solo per la scorta ai detenuti, quelli che accusano i colleghi di averli picchiati a sangue. Nessuno dei loro superiori si ricorda di aver visto nulla ma d’altra parte, suggeriscono provveditore regionale e direttrice, nessuno può sapere "cosa succede dentro le celle al momento del prelievo".

Gli agenti sassaresi, poi, sono i reietti. Perché conoscono, tengono il polso della situazione, "pesano" i facinorosi. Gli altri, i colleghi arrivati dalle carceri sarde per l’operazione di trasferimento detenuti, come potevano pestare gli uomini giusti? Impossibile, non li conoscevano. La deduzione arriva lontano dalla frase plateale, quella che fa il titolo sul giornale ma non per questo è meno efficace. In tutto questo suggerire c’è una persona che è la più sola di tutti: il comandante delle guardie uscente, Tiziano Pais. Il provveditore regionale e la direttrice lo indicano senza dubbio come il responsabile, quel giorno. Ettore Tomassi viene prontamente alleggerito da una carica revocatagli a posteriori, almeno sino al giorno dopo. E quella firma sul registro del carcere, datata tre aprile, da cui sarebbe invece risultato il passaggio effettivo di consegne? Una formalità, a anticipare una responsabilità che ancora non c’era. Un particolare: Pais era conosciuto dai detenuti, eccome. Eppure nessuno di loro quel giorno lo ha indicato come protagonista del pestaggio. Un trattamento ben diverso rispetto a quello riservato all’uomo con lo spolverino, Dio delle carceri, regalato dalla Provvidenza a una galera allo sbando.

Gli avvocati dell’ispettore Pais, Agostinangelo Marras e Mattia Doneddu, prendono atto delle accuse: "Non facciamo processi sul giornale, ma una cosa è certa: quando verrà celebrato il processo al nostro assistito, dimostreremo, carte alla mano, come i responsabili dell’amministrazione penitenziaria stiano mentendo per tentare di salvare se stessi. Non per niente Pais è imputato esclusivamente di omessa denuncia, il che dimostra come nulla abbia avuto a che fare col pestaggio".

 

Sassari: pestaggio dietro le sbarre, il Governo risarcisca le vittime. I legali dei detenuti chiamano in causa il ministero di Giustizia

 

L’Unione Sarda, 11 dicembre 2001

 

Il ministero di Giustizia paghi per la condotta dei suoi dipendenti, agenti di polizia penitenziaria presunti protagonisti del pestaggio. Una udienza che avrebbe dovuto viaggiare senza scossoni, tutt’al più regalare qualche altra richiesta di rito abbreviato, in realtà si è trasformata grazie all’avvocato Lorenzo Gallisai, che tira dentro il processo lo Stato e stavolta non in qualità di parte offesa. Allo Stato, e al ministero di Giustizia, l’avvocato Gallisai chiede un risarcimento, in quanto responsabile della condotta di alcuni dipendenti.

L’udienza preliminare per il pestaggio del 3 aprile nel carcere di San Sebastiano potrebbe quindi consegnare l’estremo paradosso di un Ministero una volta difeso e l’altra accusato da un avvocato dello Stato. Comunque vincitore, qualunque sia la fine. Per l’avvocato Gallisai la richiesta era scontata e i primi ad esserne felici saranno gli imputati stessi, aiutati in un eventuale risarcimento ai detenuti nientedimeno che dallo Stato, a cui hanno dedicato trent’anni della loro vita. L’udienza di ieri, nell’aula della corte d’appello a Santa Maria, è durata poco più di un’ora: quanto bastava per l’ennesima impennata. A parlare per primo l’avvocato Dino Milia, difensore del dottor Antonio Salvatore Adamo, accusato di falso per non aver visitato i detenuti in uscita quel giorno. Secondo il pubblico ministero Gianni Caria, Adamo non avrebbe visitato, così come invece prescritto dalla legge, i detenuti pestati a sangue, in partenza per le carceri di Macomer e Oristano.

Proprio sulle prescrizioni di legge si è basato l’intervento del legale, che ha depositato il regolamento che regola la convenzione tra medici e ministero. L’obbligatorietà dell’intervento del medico, la prassi seguita nel carcere, la condotta sempre inappuntabile di Adamo: cavalli di battaglia su cui l’avvocato ha deciso di puntare, nella scelta del rito abbreviato presentata in apertura di udienza. Abbreviato ma condizionato all’audizione di quattro infermieri, i due di servizio quel giorno e gli altri due, presenze fisse nell’infermeria del carcere, e quindi memoria storica. L’avvocato Milia ha anche chiesto l’interrogatorio del medico, accusato di falso. Subito dopo c’è stata la chiamata del nuovo responsabile civile, su cui si pronuncerà lunedì prossimo il giudice per l’udienza preliminare Antonio Luigi Demuro. In aula silenzio, come sempre. Il giudice ha messo subito tutto in chiaro, dopo le prime intemperanze: i momenti del pestaggio, la sequenza dei fatti, le testimonianze, le verità e le bugie di imputati e testi, tutto è da ascoltare senza il volo di una mosca. Una posizione recepita da tutti i detenuti-parti offese, anche perché accompagnata da qualche allontanamento definitivo dall’aula. Ieri ci si attendeva la deposizione di Ettore Tomassi, l’unico dei tre imputati "eccellenti" a non avere ancora parlato. Il comandante delle guardie esce dalla scena, sollevato a forza di braccia dagli altri due compagni di sventura, il provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia e la direttrice Cristina Di Marzio. Entrambi, nell’assolversi a vicenda, scomparendo dalla circolazione nei momenti delle botte, non hanno dubbi. Tomassi non avrebbe potuto avere ruoli da protagonista, sarebbe divenuto comandante solo qualche giorno dopo.

 

Pestaggi in cella, Stato contro Stato. Paradosso giudiziario al processo per i fatti di Sassari

 

La Nuova Sardegna, 18 dicembre 2001


Stato contro Stato. Si potrebbe arrivare addirittura a questo paradosso nel processo per il feroce pestaggio dei detenuti di San Sebastiano del 3 aprile 2000. Il giudice delle udienze preliminari, Antonio Luigi Demuro, ha infatti accolto l’istanza dell’avvocato Lorenzo Gallisai, uno dei legali che compongono il collegio delle parti civili, e citato lo Stato, nella figura del ministro della Giustizia, per la prossima udienza del 28 gennaio. Quindi, se gli imputati, una novantina tra dirigenti carcerari e agenti di polizia penitenziaria, venissero condannati, il ministero dovrebbe rifondere i danni alle parti civili costituite, un centinaio di detenuti pestati in quel pomeriggio di follia all’interno delle mura di San Sebastiano. Subito dopo l’accoglimento dell’istanza dell’avvocato Galisai, anche gli altri patroni di parte civili si sono logicamente accodati alla richiesta. A rendere paradossale la questione è che il ministero affiderà le proprie sorti all’avvocatura dello Stato che in questo processo è già coinvolta visto che è un avvocato dello Stato a difendere uno degli imputati: il direttore del carcere di Oristano, Pier Luigi Farci. Che cosa succederà? Per saperlo, bisognerà attendere la prossima udienza. Che sarà finalmente determinante visto che il Gup dovrebbe discutere e approfondire le prime richieste di rito abbreviato, con le conseguenti riduzioni di pena. Finora le richieste di rito alternativo sono state una cinquantina, ma potrebbero diventare molte di più. Forse anche quasi tutte, perché ad eccezione di alcune posizioni veramente defilate, gli altri imputati sono strettamente collegati tra loro.

 

L’inferno di San Sebastiano: prime 4 ore di requisitoria. Sassari, il Pm Caria davanti al Gup ricostruisce la spedizione punitiva e l’inchiesta che fece cadere molte teste

 

La Nuova Sardegna, 19 febbraio 2002

 

Ha cominciato a parlare alle 16, una breve interruzione dopo due ore e poi dritto fino alle 20. Riprenderà la parola stamattina alle 9 e... chissà quando finirà. Una requisitoria lunghissima, circostanziata, ricca di riferimenti precisi. Il pubblico ministero Gianni Caria è entrato nel vivo del processo per il pestaggio dei detenuti nel carcere di San Sebastiano il 3 aprile del 2000. E l’ha fatto con una precisione che conferma la puntigliosità con cui ha condotto la delicata inchiesta.

Una requisitoria dettagliatissima dalla quale è già emerso chiaramente il ruolo fondamentale dell’ispettore Ettore Tomassi. Ma anche quello dell’ex direttrice Maria Cristina Di Marzio. Il pubblico ministero ha sostenuto senza indugi la centralità dell’ispettore durante il pestaggio e scagionato automaticamente l’ispettore Tiziano Pais, comandante delle guardie di San Sebastiano soltanto sulla carta visto che nessun detenuto l’ha accusato, né ha sostenuto di averlo visto girare per il penitenziario durante l’operazione.

Il pubblico ministero ha affrontato il delicato argomento-pestaggio partendo dalle perquisizioni nei "bracci". Ha individuato i detenuti cella per cella, spiegato al Gup Antonio Luigi Demuro che cosa fosse accaduto in ognuna e sottolineato tutte le testimonianze raccolte durante l’inchiesta. Testimonianze incrociate e perfettamente convergenti di episodi gravissimi. Che i detenuti hanno raccontato con grande paura, ma senza tentennamenti.

Il pm ha fatto un quadro generale molto preciso della situazione all’interno del penitenziario in quel pomeriggio del 3 aprile 2000. Si è soffermato a raccontare la distruzione sistematica di tutto quello che veniva trovato dentro le celle, compreso il danneggiamento di immagini sacri di Padre Pio e della Madonna, di crocifissi e di fotografie di moglie e figli dei detenuti.

E nel raccontare questi particolari allucinanti, il pm avrebbe citato una frase che, secondo le testimonianze di tutti i reclusi di San Sebastiano, l’ispettore Ettore Tomassi aveva ripetuto più volte durante le perquisizioni e il pestaggio: "Anche Gesù Cristo ha da temere nel trovarsi qui a San Sebastiano...". Parole che lasciano intendere lo stato di esaltazione in quei momenti drammatici.

Poi, il dottor Caria è passato all’analisi degli imputati. Prima a essere chiamata in causa l’ex direttrice Maria Cristina Di Marzio. Il pm ha ribadito che era presente anche durante le fasi più cruente del pestaggio e ad accusarla sono una trentina di detenuti.

Poi, la posizione dell’ispettore Tomassi. "Era lui il comandante delle guardie durante il pestaggio - ha sostenuto il pm -. È stato visto in diverse zone del carcere. È stato visto mentre picchiava. È stato visto mentre dava ordini. Mentre nessuno ha visto l’ispettore Pais, nessuno l’ha accusato. Lo accusano solo l’ispettore Tomassi, la direttrice e il Provveditore regionale".

Mentre è stato riconosciuto da decine di detenuti l’ispettore Mario Canu, grande protagonista delle perquisizioni nelle celle come risulta da moltissime circostanziate testimonianze.

La requisitoria è stata svolta nell’aula delle udienze preliminari (quindi a porte chiuse, con ingresso riservato solo alle parti e ai difensori) temporaneamente trasferita nel salone della Corte d’appello dove potrebbero essere teoricamente accolti tutti gli imputati, 95 tra dirigenti carcerari e agenti penitenziari, e le parti civili, i detenuti malmenati durante quella che doveva essere una normale operazione di "sfollamento" e si era invece trasformata in una missione punitiva. Contro quei reclusi che più volte avevano protestato per le precarie condizioni di vita nel fatiscente penitenziario.

 

Chiesti dal Pm 3 anni e otto mesi per La Vecchia e uno in meno per la Di Marzio. "Sono i registi del pestaggio". Una mazzata su comandante e direttore del carcere

 

Martedì 26 febbraio 2002

 

La castagnata l’ha riservata a Ettore Tomassi, "Dio in spolverino" a San Sebastiano: per lui il Pm Gianni Caria ha chiesto 3 anni e 8 mesi di carcere. Mano più leggera per l’altro imputato eccellente, Cristina Di Marzio. Per lei "appena" 2 anni e 8 mesi. Entrambi sono accusati di violenza privata, lesioni e abuso d’ufficio; per Tomassi si aggiungono le minacce ad alcuni detenuti durante un trasferimento, "state attenti a quello che fate", con riferimento a qualche parola di troppo su quel pomeriggio d’aprile. Per il medico del carcere, Antonio Adamo, il pm ha chiesto un anno e quattro mesi. Gli si contesta il falso, per quelle firme stampate sui fogli di dimissione che davano i detenuti pestati a sangue, in uscita da San Sebastiano, come in normali condizioni fisiche.

Per l’ispettore Tiziano Pais, responsabilità quanto basta per l’aver saputo. Caria ha chiesto per lui una contravvenzione di cento euro: era il più alto in grado, non ha denunciato. Ma le sue colpe si fermano lì, lontano da quel ruolo nuovo e colpevole ritagliatogli dal trio Tomassi - Di Marzio - Della Vecchia.

Per tutti gli altri 1 anno e 10 mesi: 54 agenti di polizia penitenziaria tutti colpevoli di concorso in lesioni. Alcuni sono stati identificati, erano lì e hanno fatto questo. Per gli altri basti sapere che c’erano e che non hanno parlato. L’accusa di concorso? È consentita dal codice, "quando c’è un furto e si scopre il colpevole, si condanna anche chi fa da palo". In quel caso nessuno si scandalizza, ma questo è il processo dell’anno, quello che ha scoperchiato l’inferno in mezzo alla città lasciando venire fuori una situazione ormai incancrenita, che a tutt’oggi non ha visto il sole.

La requisitoria del pm è durata due ore. Nessun eccellente in aula, "li avrebbero sommersi di fischi" (mormora un legale della difesa), soltanto la solita ventina di detenuti, altrettanti fuori dalle gabbie. Tutti hanno sentito rimbombare i concetti cardine dell’accusa: gli ottanta agenti che quel giorno hanno spalancato le loro celle, per trascinarli nella "rotonda" a suon di pugni e calci "non sono stati presi da un raptus collettivo, decidendo all’improvviso di bastonare i detenuti". Più probabilmente, in quella breve riunione tenuta da Tomassi, alla presenza della direttrice Cristina Di Marzio e del provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia, è stato stabilito "come portarli giù". Sarebbe quantomeno curioso, suggerisce il pm, che dopo essersi sparpagliati in tante celle tutti avessero preso la stessa decisione di pestare a sangue.

Dando questo per assodato, Caria ha anche ricordato al Gup Antonio Luigi Demuro la tirata d’orecchie fatta proprio in quel periodo dal Ministero al provveditore regionale Della Vecchia (che non ha scelto il rito abbreviato), per la gestione di quel carcere "così difficile". Il vuoto di papabili sardi gli avrebbe permesso di chiamare Ettore Tomassi, l’uomo giusto per "riportare il carcere sassarese agli antichi fasti". Lo conoscevano. "Aspettate, aspettate - aveva detto un agente - che fra un po’ arriva Tomassi e vi trasforma tutti in agnellini". Il cinque marzo la parola agli avvocati di parte civile

 

Pestaggi a San Sebastiano. Gli attacchi della parte civile agli agenti del carcere sassarese

 

La Nuova Sardegna, 5 marzo 2002

 

Un attacco congegnato nei minimi dettagli. Tre argomenti affrontati e approfonditi con certosina dedizione dagli avvocati Giuseppe Conti, Paolo Spano e Gabriela Pinna Nossai, patroni di parte civile per conto di dieci detenuti. Un unico obiettivo: dimostrare la colpevolezza degli agenti penitenziari che il 3 marzo 2000 avevano partecipato al pestaggio dei detenuti nel carcere di San Sebastiano.
Il primo a prendere la parola, intorno alle 16, nell’aula delle udienze preliminari allestita nel grande salone della Corte d’appello a Santa Maria, è stato l’avvocato Paolo Spano. Ha parlato per oltre un’ora. Esamimando punto per punto le posizioni dei pestati e, soprattutto, dei picchiatori. Soffermandosi in particolare sulla posizione di quegli agenti penitenziari che "hanno sempre affermato di aver trascorso il pomeriggio del 3 aprile nel giardino degli aranci all’interno di San Sebastiano senza però riuscire a ricordare se sugli alberi ci fosse qualche frutto", ha sottolineato l’agguerrito penalista.

L’avvocato Spano ha ricostruito nei dettagli la posizione delle 28 guardie carcerarie che hanno preferito andare avanti nell’udienza preliminare, anzichè scegliere la via meno rischiosa del rito abbreviato. Poi ha continuato l’avvocato Gabriela Pinna Nossai, che si è soffermata sulla delicatissima posizione dell’ex Provveditore penitenziario regionale, Giuseppe della Vecchia, e del concorso dei vari imputati nei reati per cui è stato richiesto il loro rinvio a giudizio.

L’intervento dell’avvocato Giuseppe Conti ha "racchiuso" le arringhe dei colleghi di studio, ma ha anche ripercorso le varie tappe dell’inchiesta. Il penalista ha sottolineato la precarietà della struttura di San Sebastiano e, soprattutto, la prudenza e l’equilibrio del magistrato (il sostituto procuratore Gianni Caria) che ha coordinato l’inchiesta. Poi ha ricordato la vecchia amicizia tra il Provveditore della Vecchia e l’ispettore Tomassi e ribadito che l’operazione-pestaggio era stata predisposta nei minimi dettagli: "come confermato dal modus operandi", ha spiegato l’avvocato Conti, che ha concluso sollecitando il rinvio a giudizio di tutti gli imputati. Il processo prosegue oggi con un’udienza per il rito abbreviato, riservata alle parti civili.

 

Sassari, l’indennizzo sollecitato dalla parte civile per i pestaggi a San Sebastiano. "Trenta milioni per ciascun detenuto"

 

La Nuova Sardegna, 6 marzo 2002


Trenta milioni per ogni detenuto. Questo l’indennizzo sollecitato dall’avvocato di parte civile Giuseppe Conti a conclusione della sua requisitoria. Una richiesta rivolta agli imputati, agenti di polizia penitenziaria, l’ex direttrice del carcere di San Sebastiano e il comandante temporaneo delle guardie (l’ispettore Ettore Tomassi) che hanno scelto la strada meno rischiosa per uscire dalla triste vicenda: il rito abbreviato.

L’udienza preliminare si è svolta nell’aula della corte d’appello, a Santa Maria, e, dopo la lunga e circostanziata requisitoria del Pm Gianni Caria, che aveva concluso chiedendo severe condanne per l’ex direttrice Maria Cristina Di Marzio e, soprattutto, per l’ispettore Tomassi, aveva sollecitato pene più lievi per gli agenti che avevano partecipato al pestaggio del 3 aprile 2000, ieri è stato il turno delle parti civili.

Per tutta la mattina hanno parlato gli avvocati Giuseppe Conti, Giuseppe Masala, Paolo Spano, Gabriela Pinna Nossai, Pier Giovanni Arru, Lorenzo Galisai, Claudio Mastandrea, Antonio Secci, Letizia Doppiu Anfossi e Antonella Spanu. Tutti hanno sottolineato la gravità dell’episodio accaduto nel carcere di San Sebastiano, le modalità del pestaggio e il concorso di tutti gli imputati nei reati per i quali il pubblico ministero ha chiesto la loro condanna.

I penalisti sono scesi nei dettagli per mettere in risalto le varie posizioni degli agenti durante il pestaggio e le perquisizioni nelle celle, ma si sono soffermati soprattutto ad analizzare quelle dell’ex direttrice di San Sebastiano e dell’ispettore Tomassi.

Per quanto riguarda la dottoressa Di Marzio, tutti i patroni di parte civile hanno sostenuto che gli elementi raccolti dal magistrato e dagli investigatori sono più che sufficienti per confermare la sua presenza al momento del pestaggio.

Molto più pesanti gli attacchi sferrati contro l’ispettore Tomassi definito dall’avvocato Giuseppe Conti "l’omino bianco che, armato di spolverino con distintivo in bella mostra, doveva trasformare i lupi in agnelli. E tra i lupi non si riconoscono certamente elementi di spicco della criminalità organizzata, ma semplici e autentici rompiscatole che qualche pedata l’avrebbero meritata davvero se non fosse stato per le loro precarie condizioni di salute che li vede ancora su questa terra per... scommessa".
Al termine dei loro interventi, i patroni di parte civili hanno chiesto la condanna di tutti gli imputati.
Soltanto gli avvocati Giuseppe Masala, Giuseppe Conti, Paolo Spano e Gabriela Pinna Nossai si sono distinti non concludendo nei confronti dell’ispettore Tiziano Pais, confermando così la tesi del pubblico ministero: il comandante delle guardie di San Sebastiano quel pomeriggio del 3 aprile 2000 non aveva partecipato al pestaggio ed era stato "degradato" sul campo dal più esperto e soprattutto fidato (era arrivato insieme all’allora provveditore carcerario regionale, Giuseppe Della Vecchia, e da lui era stato presentato ai reparti schierati) ispettore Ettore Tomassi che aveva "guidato" le operazioni di... sfollamento.

 

Il processo agli agenti penitenziari. Pestaggio in carcere i difensori attaccano l’accusa

 

La Nuova Sardegna, 10 aprile 2002


Auto a sirene spiegate che precedono un corteo di cellulari blu scuri. Un "ritornello" che si ripete tutti i lunedì pomeriggio e martedì mattina, e che si ripeterà ancora per molto tempo fino a quando non si concluderà il processo per il pestaggio dei detenuti nel carcere di San Sebastiano, il 3 aprile 2000. Dentro quei cellullari scuri ci sono le vittime di quel pestaggio, che si sono costituite parte civile e non perdono l’occasione per uscire dalle umide celle di San Sebastiano.

Il processo sta seguendo due binari distinti: l’udienza preliminare classica che si concluderà con le richieste di rinvio a giudizio o proscioglimento da parte del pubblico ministero; e l’udienza preliminare con il rito abbreviato che si concluderà con le condanne o le assoluzioni degli imputati. Lunedì e martedì è stato il turno degli avvocati difensori degli agenti di polizia penitenziaria coinvolti nel pestaggio. Gli avvocati Mario Lai, Piera Meloni, Antonio Meloni e Tatiana della Marra hanno preso posizione in attesa delle conclusioni del pm Gianni Caria nell’udienza preliminare classica, sottolineando la mancanza di elementi di accusa ben specificati nei confronti dei singoli imputati.

 

"I detenuti d’accordo per resistere". Singolare tesi della difesa al processo per il pestaggio a San Sebastiano

 

La Nuova Sardegna, 24 aprile 2002

 

"I detenuti si erano chiaramente accordati per fare una resistenza collettiva. Erano stati proprio i detenuti ad accordarsi, per resistere a quello che era un più che logico provvedimento di trasferimento dopo le proteste di quel periodo". L’avvocato Antonello Urru, difensore dell’ispettore di polizia penitenziaria Mario Canu, ha dato un’altra interpretazione del pestaggio dei detenuti il 3 aprile 2000 all’interno del carcere di San Sebastiano.

Una lettura singolare che l’avvocato Urru ha spiegato dettagliatamente nelle oltre due ore di appassionata arringa nel processo che si sta celebrando, con il rito abbreviato, nell’aula della Corte d’appello a Santa Maria. "È evidente, emerge da ogni angolo dell’inchiesta - ha spiegato l’avvocato Antonbello Urru - che ad accordarsi per resistere in ogni maniera al trasferimento erano stati i detenuti e non certo gli agenti, molti dei quali erano venuti a conoscenza di quel che avrebbero dovuto fare soltanto poche ore prima dell’operazione.

E hanno chiaramente dovuto adempiere al loro dovere. Non potevano certo rifiutarsi di compiere un’operazione di servizio - ha insistito l’avvocato, cercando di smontare la tesi accusatoria formulata dal pubblico ministero Gianni Caria, che per il suo assistito aveva sollecitato una tra le condanne più pesanti -. Da parte degli agenti non c’è stato alcun concorso, perché si sono limitati a obbedire a un ordine. E per quanto riguarda l’ispettore Canu, le accuse contro di lui sono arrivate molto tempo dopo i fatti e nei suoi confronti non c’è l’ombra di una prova. E quindi deve essere assolto perché il fatto non sussiste, o perché non costituisce reato, o ancora - ha concluso l’avvocato Antonello Urru - perché ha adempiuto al proprio dovere".

Prima dell’avvocato Urru, davanti al giudice delle udienze preliminari Antonio Luigi Demuro, avevano parlato gli avvocati Luigi Federico e Antonello Spada. Il penalista del Foro di Nuoro continuerà la sua arringa nella prossima udienza visto che si è limitato ad esaminare una sola posizione delle tante relative ai numerosi agenti delle carceri di Lanusei, Isili e Mamome che difende in aula.

 

I giorni della rivolta

 

L’Unione Sarda, 27 giugno 2002

 

Era il 3 aprile del 2000. I detenuti, che qualche giorno prima avevano protestato per l’invivibilità del carcere sbattendo i cucchiai contro le sbarre, vengono prelevati dalle celle e trasferiti nelle carceri di Oristano e Macomer. I detenuti, una ventina in tutto, sarebbero stati accompagnati a destinazione da ottanta agenti di custodia arrivati dalle altre carceri isolane. Quel pomeriggio invece, nelle sale colloquio del carcere, si sarebbe consumato il maxipestaggio di San Sebastiano: i detenuti, denudati e ammanettati, sarebbero stati vittime di una spedizione punitiva.

Calci, pugni, secchiate d’acqua gelata sui corpi lasciati nudi davanti alle finestre aperte. Tutto sotto gli occhi del comandante delle guardie Ettore Tomassi. In seguito alle proteste dei familiari dei detenuti il sostituto procuratore Gianni Caria si era recato in carcere con il medico legale Francesco Lubino.

San Sebastiano era finito nel vortice di una bufera giudiziaria: avvisi di garanzia per ottanta agenti. Nel registro degli indagati anche Ettore Tomassi, Giuseppe della Vecchia, provveditore regionale alle carceri e Cristina Di Marzio, direttrice di San Sebastiano, Luigi Farci e Giovanni Monteverdi, direttori delle carceri di Oristano e Macomer.

Questi ultimi rei di non denunciato alla Procura le precarie condizioni dei detenuti. Poi il processo con 95 imputati e 120 parti offese. Il Pm Gianni Caria ha chiesto 3 anni e 8 mesi per Ettore Tomassi, 2 anni e 8 mesi per la Di Marzio, 1 anno e 10 mesi per 54 agenti. Intanto la vita nella sovraffollata struttura definita "un carcere indegno d’Europa" non migliora: negli ultimi mesi si sono tolti la vita tre detenuti. Un quarto è vivo per miracolo. E per il nuovo penitenziario si dovrà aspettare il 2006.

 

Pestaggi in cella, fumata nera dal Gup. Sassari: nuovo rinvio per i fatti di San Sebastiano

 

La Nuova Sardegna, 1 ottobre 2002 

 

È nuovamente slittata l’udienza davanti al gup per i fatti di San Sebastiano. Il rito abbreviato, sospeso in estate dopo le richieste del pubblico ministero Gianni Caria, avrebbe dovuto riprendere la scorsa settimana con un calendario che vedeva udienze fissate ogni lunedì e martedì, ma per motivi vari ci sono stati soltanto rinvii e anche oggi l’aula dovrebbe rimanere vuota.
Il Gup Antonio Luigi Demuro dovrà giudicare la posizione di circa 60 imputati (altri hanno scelto il rito ordinario) che hanno scelto di evitare il dibattimento e hanno preferito chiudere la loro vicenda giudiziaria direttamente in camera di consiglio usufruendo così, in caso di condanna, di uno sconto di pena. Al termine della sua lunga e articolata requisitoria, il sostituto della Repubblica titolare dell’inchiesta aveva sollecitato la condanna di tutti gli imputati.

La richiesta più severa era stata quella nei confronti di Ettore Tomassi, il comandante delle guardie del carcere considerato dall’accusa l’organizzatore della missione punitiva sfociata nel vergognoso pestaggio dei detenuti avvenuto il 3 aprile del Duemila: per lui il pm ha chiesto 3 anni e 8 mesi di carcere. Il rappresentante dell’accusa ha chiesto una pena leggermente inferiore, 3 anni e 4 mesi, per Giuseppe Della Vecchia, l’ex provveditore carcerario regionale ritenuto invece l’ispiratore della vicenda; per l’ex direttrice del carcere sassarese, Maria Cristina Di Marzio, il magistrato ha chiesto invece 2 anni e 8 mesi di reclusione. Richieste più leggere per gli agenti di custodia: un anno e 10 mesi di carcere. La parola a questo punto spetta agli avvocati del collegio difensivo, ma il calendario delle arringhe a questo punto dovrà sicuramente essere aggiornato.

 

Quel folle pomeriggio di un giorno da cani. Per alcune ore San Sebastiano si trasformò in un inferno di violenze e di terrore. A Sassari arrivarono settanta uomini in mimetica per una "perquisizione eccezionale"

 

La Nuova Sardegna, 22 febbraio 2003

 

Strano processo, dove le vittime vengono portate in aula in catene dai colleghi degli imputati. Che sarebbe stato un caso straordinario era lampante prima ancora che, nella primavera del 2000, la Procura aprisse l’inchiesta che decapitò con fragore inaudito l’amministrazione penitenziaria sarda. Quello di San Sebastiano - dove un centinaio di detenuti sostiene di essere stato massacrato di botte davanti alla direttrice, al provveditore regionale e a un ispettore che farneticava dicendo di essere un dio - è un caso da mondo alla rovescia. Anche per questo, quando il 3 maggio 2000 ottanta uomini dello Stato finirono in cella con l’accusa di avere seviziato detenuti inermi, il mondo dell’informazione accese i riflettori. E fu il "caso San Sebastiano".

Il carcere di Sassari divenne all’improvviso e inaspettatamente luogo simbolico di tutte le prigioni italiane, l’opinione pubblica cominciò a domandarsi se nel piccolo villaggio globale della vita tra le sbarre qualcosa non funzionasse per il verso giusto. A dare il senso dell’enormità di ciò che accadde, il giorno dopo gli arresti, l’intera ala del carcere di Alghero (più confortevole e civile di quello sassarese) adibita a ospitare gli arrestati.

Uomini dello Stato appunto, trattati come ospiti d’onore dai colleghi incaricati di vigilare sulla loro detenzione. Uomini delle istituzioni accusati dell’abietta violazione, prima che di un articolo del codice penale, del principio etico che impone di rispettare chi non può difendersi. Uomini in divisa ma osannati agnelli sacrificali da tutte le altre divise uguali, in tutta Italia, durante vittimistiche manifestazioni di protesta. Prima ancora di sapere cosa era accaduto veramente il 3 aprile 2000 nella casa circondariale di San Sebastiano.

Questa inchiesta è figlia della cocciutaggine di un gruppo di mamme, sorelle e mogli. Ma anche dal profondo senso dello Stato di due magistrati e di un maresciallo dei carabinieri. Il 6 aprile di tre anni fa, mentre gli avvocati sassaresi si passavano increduli la notizia di un pestaggio tra le mura del carcere, alcune donne scrissero su un bigliettino poche frasi in un italiano stentato.

Parole che denunciavano il trasferimento improvviso e sospetto dei loro uomini - nomi noti alle cronache cittadine per reati legati al traffico della droga - in condizioni disumane, pesti, sanguinanti, qualcuno vestito solo di buste di cellophane sporche di escrementi. Frasi lette dal procuratore Giuseppe Porqueddu, dal suo sostituto Gianni Caria, dal luogotenente Giuseppe Scanu.

Una notizia criminis incredibile, eppure confermata durante interrogatori eseguiti a tempo di record nelle carceri di Macomer e di Oristano dove i detenuti sassaresi - definiti "i più facinorosi" dal dipartimento penitenziario in un rapporto che dava conto dell’effettivo trasferimento - vennero interrogati dai due magistrati e dal sottufficiale. Riscontri ai racconti dei venti uomini arrivarono dai certificati stilati dal medico legale Francesco Lubinu, ma anche dalle conferme arrivate dai reclusi rimasti a Sassari.

Cosa era realmente accaduto il 3 aprile, dalle 13,30 alle 17,30, nelle celle, nella rotonda e nella sala colloqui del carcere di San Sebastiano? Stando alle accuse settanta uomini in tuta mimetica e anfibi, dirottati a Sassari in missione speciale da tutte le carceri sarde, avevano trasformato la casa circondariale di San Sebastiano in una bolgia dantesca. Pretesto, una perquisizione eccezionale delle celle alla ricerca di accendini e armi improprie. Effetto, un pestaggio di inaudita violenza e gravità con un surplus di crudeltà in una sala colloqui trasformata in una stanza delle torture.

Uomini ammanettati nudi e costretti a stare ore faccia al muro, picchiati selvaggiamente, inondati di secchiate di acqua gelida, costretti a infilare la testa in un secchio colmo di acqua mista a sangue e vomito. Così, sempre stando ai racconti dei detenuti, l’amministrazione penitenziaria aveva represso un movimento di protesta che nei mesi precedenti era stato caratterizzato da manifestazioni, culminate il 28 marzo con una rumorosa protesta, che avevano tenuto svegli gli abitanti del centro cittadino.

I detenuti si ribellavano incendiando le suppellettili delle celle a un carcere antico, inadeguato, realizzato un secolo prima su una filosofia della detenzione improntata alla repressione e alla umiliazione dei rei. Per verificare queste accuse, avvalorate dai sindacati della polizia penitenziaria che da tempo chiedevano all’amministrazione di adeguare gli organici e di rendere più vivibile il lavoro degli agenti, a Sassari cominciarono ad arrivare alla spicciolata senatori e parlamentari. Il 17 marzo, ispezione ufficiale del comitato parlamentare per la vigilanza sulle carceri. Tra senatori e deputati anche Alberto Simeone, padre di una legge garantista quasi quanto la Gozzini.

A Simeone, presenti un impassibile provveditore Della Vecchia e un’attonita direttrice Di Marzio, qualche detenuto raccontò di pestaggi e violenze. A quel punto era chiaro a tutti che il carcere sassarese, cuore vecchio e malato della città, aveva fatto il suo tempo. Dal 17 marzo al 3 aprile, due settimane durante le quali negli uffici dell’amministrazione penitenziaria si pensò a come risolvere il problema. La difesa sostiene che il trasferimento dei detenuti, una ventina, si era reso necessario per sgomberare una sezione della casa circondariale e il carcere da sobillatori.

Un provvedimento eccezionale, dunque, dettato da necessità logistiche e di organizzazione interna. Secondo i difensori, se qualche eccesso e qualche violenza ci furono (nessuno si è spinto a sostenere che nulla sia accaduto) è da imputare alla soggettiva prepotenza di singoli agenti. Nessun raid punitivo, però, nessuna operazione preordinata. Per l’accusa, che aveva chiesto la condanna di tutti gli imputati tranne che dell’ispettore Tiziano Pais (comandante pro-tempore, rimosso far posto a Ettore Tomassi. Per lui il pm aveva chiesto solo una multa) quello di San Sebastiano fu un pestaggio da sonno della ragione. L’annientamento, consapevole e curato nei dettagli, delle fragili libertà concesse da un paese civile a chi vive recluso. Tra qualche mese, le motivazioni della sentenza offriranno del caso San Sebastiano la prima verità processuale.

 

Condannati i dirigenti penitenziari. Pioggia di assoluzioni per gli agenti

 

La Nuova Sardegna, 22 febbraio 2003

 

Non fu una mattanza pianificata a tavolino, ma un’esplosione di violenza improvvisa e imprevista. Un pestaggio barbaro di almeno trentasei detenuti, ad opera di agenti resi uguali dalle mimetiche e dissoltisi come fantasmi dopo l’"operazione". Volti sconosciuti, voci sconosciute, uomini che i detenuti non conoscevano e che tranne rare eccezioni non avrebbero mai più rivisto. Se c’era qualcuno dei violenti, tra gli ottanta agenti penitenziari finiti a giudizio, oggi è quasi impossibile accertarlo. Nel dubbio, i sospettati hanno diritto alla piena riabilitazione sociale. Tutti tranne chi, quel giorno, è stato riconosciuto dalle vittime oppure aveva il dovere di vigilare che nessuno violasse la legge: il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Giuseppe Della Vecchia; la direttrice del carcere, Maria Cristina Di Marzio; l’ispettore comandante delle guardie, Ettore Tomassi; i graduati che guidavano gli agenti.

Loro sì, testimoni muti di violenze che non fecero nulla per bloccare, sono responsabili di concorso morale in un selvaggio uso della forza su uomini inermi. Una valanga di assoluzioni e proscioglimenti restituisce a 68 agenti penitenziari una reputazione infangata dall’arresto e dall’accusa di concorso in concorso in violenza privata, abuso d’ufficio, lesioni personali aggravate dalla crudele consapevolezza dell’impunità. Assoluzione con formula dubitativa, prevista dal codice di procedura penale "quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso". La vecchia insufficienza di prove.

Spazzato via dal campo processuale il concetto della preordinazione del pestaggio di San Sebastiano, quindi del concorso, il Gup Antonio Luigi Demuro ha dovuto compiere un paziente lavoro di ricostruzione di ogni singolo episodio. Il giudice dell’udienza preliminare è andato alla ricerca del responsabile di ogni singolo schiaffo, di ogni cocente umiliazione, di ciascuna sevizia. Ci ha lavorato su più di un mese, ricomponendo sulla piantina della casa circondariale sassarese un puzzle degli orrori. E decidendo di condannare solo quando, ad accusa, corrispondeva un volto. Ieri pomeriggio il giudice ha scritto con due sentenze la prima verità processuale sul pestaggio di San Sebastiano, subìto il 3 aprile 2000 da un centinaio di reclusi.

Per quell’episodio di straordinaria gravità cadono le teste del provveditore Della Vecchia, condannato a un anno e sei mesi di reclusione; di Maria Cristina Di Marzio, condannata a un anno di reclusione; di Ettore Tomassi, l’ispettore che i reclusi ricordano come "l’uomo con lo spolverino" bianco che durante il pestaggio gridava ai detenuti "sono il vostro dio". Tomassi, per il quale il pm Gianni Caria aveva chiesto la condanna più severa a tre anni e otto mesi di reclusione, dovrebbe scontare un anno e quattro mesi di reclusione. E con lui dovrebbero scontare pene variabili tra i quattro e i sei mesi i graduati che comandavano i reparti arrivati a Sassari dai penitenziari di tutta la Sardegna, ma anche il medico che secondo l’accusa attestò falsamente che i detenuti erano in condizioni fisiche tali da poter partire.

Dovrebbero, ma nessuno farà un giorno di galera visto che il giudice ha concesso a tutti la sospensione condizionale. Atto dovuto, vista la pena ottenuta calcolando le attenuanti generiche, prevalenti sulle aggravanti contestate, e lo sconto di un terzo previsto per il rito abbreviato. La sentenza, anche se a pene lievi e nettamente inferiori a quelle chieste dalla Procura, non deve avere rallegrato molto i tredici condannati. Ma ha certamente fatto gioire i 68 assolti: 48 agenti che avevano chiesto il rito abbreviato più altri venti che, invece, avevano deciso di affrontare il giudizio ordinario. Il giudice dell’udienza preliminare, che ha esaminato separatamente i due procedimenti, li ha prosciolti. Nove agenti, quasi tutti in forza alla casa circondariale di Sassari, sono stati invece rinviati a giudizio e saranno processati il 29 settembre 2003. Con loro, ovviamente, esultano gli avvocati difensori Mario Perticarà, Marcella Lepori, Gianni Sannio, Mario Lai, Pietro Gambardella. Affilano invece le armi in vista del processo gli avvocati Antonio Meloni, Tatiana Della Marra, Antonella Cuccureddu, Pietro Diaz.

Unico imputato presente alla lettura del dispositivo della sentenza l’ispettore Ettore Tomassi al quale bisogna dare atto di una buona dose di coraggio. Presenziò, unico tra gli imputati, la prima udienza con le gabbie affollate di detenuti ancora inferociti. Ha silenziosamente affrontato, la gogna virtuale delle telecamere e dei flash delle macchine fotografiche. Dopo la sentenza nessun commento: "C’è il mio avvocato per questo". Il penalista Claudio Montalto è, considerata la condanna, abbastanza sorridente. "Non conosco le motivazioni della sentenza - ha commentato a caldo -, ma pur non condividendo l’attribuzione di una penale responsabilità ad Ettore Tomassi sono soddisfatto perché l’impianto accusatorio, almeno sul concorso, è venuto meno". Cauto compiacimento che coinvolge anche Franco Luigi Satta, difensore con il figlio Gabriele di Maria Cristina Di Marzio. Gli avvocati Satta rimandano i commenti alla lettura delle motivazioni della sentenza, annunciate tra novanta giorni, "per comprendere la logica che l’ha pilotata". "Comunque - aggiunge Franco Luigi Satta - questa sentenza dimostra che per il giudice non ci fu concorso di tutti gli imputati nel reato". Una condivisione d’intenti e di effetti che invece, per l’accusa, riguardava ottantotto imputati. Chi non aspetta di leggerne le motivazioni per definirla "gravemente contraddittoria" è Patrizio Rovelli, difensore di Giuseppe Della Vecchia.

Sarà perché il suo assistito è quello che ha preso la legnata, processuale, più pesante, ma Rovelli appena esce dall’aula commenta e come. "Il giudice esclude la preordinazione, eppure individua Giuseppe Della Vecchia come il principale responsabile - si chiede ad alta voce -. Ovviamente appelleremo, ma fin d’ora questa ricostruzione mi pare contraddittoria". "In ogni caso - butta lì Rovelli prima di ripartire per Cagliari - la ricostruzione della Procura esce fortemente ridimensionata da questa sentenza". Chi invece sorride nonostante la condanna è Agostinangelo Marras, avvocato dell’ispettore Tiziano Pais, condannato a cento euro di multa ma solo per omesso di denunciare alla magistratura i reati commessi in sua presenza. Tiziano Pais, comandante pro tempore del carcere di San Sebastiano prima che il 3 aprile irrompesse sulla scena Ettore Tomassi, era accusato solo di questo, eppure durante l’inchiesta e nel corso dell’udienza Giuseppe Della Vecchia gli aveva attribuito responsabilità "organizzative". Trasformandolo in un potenziale coimputato, se non nel capro espiatorio del macello.

"Sono soddisfatto perché la sentenza dimostra che non c’è stata alcuna preordinazione delle violenze - rimarca Agostinangelo Marras -, ma anche perché Tiziano Pais esce con una patente processuale di totale estraneità da questa vicenda. Il giudice ha infatti condannato per episodi accaduti nella casa circondariale dopo le 14, quando Pais non aveva più le funzioni di comandante". Nessun commento, invece, da parte del pubblico ministero Gianni Caria e del procuratore della Repubblica Giuseppe Porqueddu. I due magistrati non rompono neppure in questo caso la prassi della Procura sassarese di non commentare sentenze e motivazioni. Chi ha pienamente ragione di sorridere, invece, sono i quattordici detenuti che il 3 aprile 2000 subirono le lesioni più gravi e ai quali il Gup ha assegnato provvisionali immediatamente esecutive per complessivi 59mila euro. Per gli altri 22 ci penserà il giudice civile, al quale il Gup Demuro ha rimesso la decisione. Tra risarcimenti e spese legali, i tredici condannati dovrebbero pagare un conto di 157mila euro.

 

Pestaggio in carcere. Il Sappe chiede l’ispezione ministeriale

 

La Nuova Sardegna, 25 febbraio 2003

 

Dopo la sentenza del Gup - che venerdì ha assolto con la formula dubitativa dell’articolo 530, secondo comma, del codice di procedura penale 48 agenti penitenziari dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio, violenza privata e lesioni - il Sappe chiede l’intervento del ministro della Giustizia contro la Procura sassarese. Elettrizzato dai 68 proscioglimenti (alle assoluzioni con il rito abbreviato, va sommata la sentenza di non luogo a procedere per venti imputati che avevano scelto il rito ordinario), e senza attendere le motivazioni della sentenza, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria sollecita un’ispezione ministeriale nei confronti del magistrato che dispose ottanta ordini di custodia cautelare per altrettanti funzionari e agenti penitenziari.

"Bisogna verificare - spiega il segretario del Sappe, Donato Cepece - se l’azione della magistratura è stata corretta e se davvero fosse necessario ricorrere all’arresto di un così alto numero di appartenenti alle forze dell’ordine. Non ci fu alcuna spedizione punitiva e la sentenza conferma convinzioni che, fin dall’inizio, abbiamo espresso pubblicamente". Ma il sindacato è indispettito anche nei confronti dei mass media che, a suo dire, si occuparono troppo degli arresti e hanno seguito poco le assoluzioni. "Ciò che oggi deprechiamo è il fatto che, mentre nella settimana a ridosso dei fatti tutta la stampa ha posto sotto accusa gli agenti coinvolti, con articoli che apparivano già come una condanna ancor prima del processo, oggi che la magistratura ha emesso la sentenza, la notizia delle 68 assoluzioni è stata pubblicata solo da alcune testate, con scarso rilievo, relegata nelle pagine interne" si legge nella nota. "Abbiamo dato mandato - conclude Capece - al nostro studio legale di valutare se sia possibile richiedere un indennizzo economico a favore degli agenti ieri arrestati e oggi assolti, perché è inconcepibile che chi, come la polizia penitenziaria, opera per lo Stato e per la sicurezza delle istituzioni possa essere accusato, dileggiato, mortificato e alla fine arrestato per motivi insussistenti o addirittura inesistenti".

 

Pestaggio in carcere, archiviate le accuse per medici e direttore di piazza Manno

 

L’Unione Sarda, 11 marzo 2003

 

I cinque indagati oristanesi sono usciti dall’inchiesta sul pestaggio dei detenuti nel carcere di Sassari. A venti giorni dalla sentenza pronunciata dal Gup del Tribunale di Sassari, con 13 condanne e 48 assoluzioni, è arrivato un decreto del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Oristano che ha archiviato la posizione del direttore della casa circondariale di piazza Manno Pierluigi Farci, il medico in servizio il 3 aprile di tre anni fa Elisabetta Caredda, il direttore del carcere di Macomer Giovanni Monteverdi, il comandante delle guardie Antonio Cuccu e Maurizio Putzu, il medico in servizio quel giorno sempre a Macomer.

Il Gip Annalisa Pacifici ha così accolto in pieno la richiesta avanzata dal sostituto procuratore Luca Forteleoni, che aveva ritenuto insussistenti elementi che potessero ricondurre a reato. I cinque erano stati indagati all’interno dell’inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Sassari, in seguito al pestaggio (avvenuto il 3 aprile di tre anni fa) di numerosi detenuti trasferiti dal carcere di San Sebastiano alle case circondariali di Oristano e Macomer: l’ipotesi di reato era omessa denuncia per i due direttori delle carceri e per il comandante delle guardie, per non aver segnalato all’autorità giudiziaria l’arrivo dal carcere sassarese di una ventina di detenuti pestati a Sassari; i due medici in servizio il 3 aprile nelle carceri di Oristano e Macomer erano stati invece chiamati a rispondere di omessa trasmissione dei referti medici.

Atto in base al quale, successivamente i due direttori avrebbero dovuto denunciare al magistrato quanto accaduto. Secondo la richiesta formulata dal pubblico ministero e successivamente accolta dal gip, i medici Caredda e Putzu durante i controlli chiesero spiegazioni ai detenuti dei segni riconducibili a percosse, ma questi ultimi risposero che si era trattato di botte prese accidentalmente nel corso di una partita di calcio. A quel punto i medici non ebbero in mano elementi in base ai quali si potesse da ravvisare alcuna ipotesi di reato. La contestazione mossa ai due direttori era una conseguenza della condotta dei medici: secondo il pubblico ministero, Farci e Monteverdi non poterono denunciare quanto materialmente non fu riportato nei referti medici. Per questo la richiesta di archiviazione, ritenuta fondata dal gip che ha chiuso così la pagina oristanese della vicenda scoppiata con gran clamore a Sassari. L’inchiesta era arrivata al termine nel marzo di due anni fa: sotto accusa numerosi agenti penitenziari, ma anche i vertici del carcere. Secondo la tesi della Procura sassarese, il 3 aprile di tre anni fa San Sebastiano era stato il teatro della vicenda, con file di detenuti picchiati e lasciati nudi per ore, ma da Sassari in giù la sera stessa nessuno avrebbe visto né sentito quanto sarebbe accaduto, né di conseguenza avrebbe denunciato. Per questo erano stati coinvolti anche direttori e medici delle carceri di Oristano e Macomer e il capo delle guardie di quest’ultima casa circondariale. Alla fine del 2001 la posizione dei cinque indagati era stata stralciata e trasmessa, per competenza territoriale, alla Procura oristanese. Ora l’archiviazione del gip chiude il capitolo oristanese della complessa vicenda.

 

Sassari: in venti erano stati prosciolti, tiratisi fuori da un processo che li vedeva accusati, assieme ad altri cinquanta agenti e ai vertici del sistema penitenziario sardo, di un maxi pestaggio nei confronti di decine di detenuti. Il perché, ieri nelle prime motivazioni di una sentenza molto discussa

 

L’Unione Sarda, 29 maggio 2003

 

Sì, hanno perquisito, ma non si ricordano bene dove: agli agenti prosciolti in sede di udienza preliminare è bastato mischiare le carte e togliersi dal luogo del misfatto, un pestaggio fantasma, dove una frattura diventa un segno rosso, e un calcio viene retrocesso a livido, tutto durante un’operazione di trasferimento detenuti senza "niente di anormale". Tutto regolare, nessun urlo, al massimo la confusione scontata di una banale operazione di trasferimento detenuti, una ventina di facinorosi da spedire a Macomer e Oristano, il 3 aprile del 2000. Le motivazioni di non luogo a procedere, sono le prime a vedere la luce dopo la maxinchiesta. In queste prime motivazioni nessun accenno al concorso in reato, motivato in più di un’ora dal pubblico ministero Gianni Caria. E sempre sul concorso si erano profusi gli avvocati degli ottanta arrestati convinti che il grosso della battaglia si giocasse proprio lì.

Tutti gli agenti prosciolti hanno ammesso di avere perquisito; sulla logistica, certo, qualche difficoltà, non sono stati a contare i gradini in un carcere che non conoscevano nemmeno. Il tutto in un contesto che non è quello della normalità, si intuisce dalla sentenza, "che a volte necessita di maniere forti (...) e i rapporti interpersonali tra custodi e reclusi difficilmente sono improntati ad un linguaggio forbito , a gentilezze e riguardi". Secondo il giudice Demuro nei loro confronti mancavano "accuse precise e circostanziate; non vi è indicazione in relazione a quali celle l’imputato abbia perquisito e devastato; non è detto quali detenuti abbiano percosso o insultato". E poi "non si sa quali siano le celle (tra le oltre 70 esistenti a San Sebastiano) che gli imputati dicono di aver perquisito (peraltro in modo regolare). Nessuno li ha indicati o riconosciuti, nessuno li ha accusati". Un quadro accusatorio non suffragato abbastanza dalle dichiarazioni incrociate, e identiche, dei detenuti né dai certificati del medico legale, che assegnavano anche due mesi di cura. Il pm Gianni Caria ricorrerà in Appello.

 

Sassari: maxipestaggio in carcere, un processo da rifare

 

L’Unione Sarda, 25 giugno 2003

 

Una sentenza contraddittoria e immotivata, dove si usano pesi e misure diversi, riconoscendo da una parte la validità del castello accusatorio solo per alcuni, mentre dall’altra si contano le crepe. In 52 pagine il pubblico ministero Gianni Caria chiede il ribaltamento in appello della sentenza del Gup Antonio Luigi Demuro, di "non luogo procedere" contro una ventina di agenti di polizia penitenziaria, accusati del maxipestaggio di San Sebastiano. Accuse divise con altri sessanta colleghi, più il direttore del carcere Cristina Di Marzio, il provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia, il comandante delle guardie Ettore Tomassi. Alla fine avevano pagato in 13: quattro anni di carcere da dividere fra i tre imputati eccellenti, 9 agenti di polizia penitenziaria condannati, con pene che variavano da cento euro di multa a un anno; quattro mesi infine al medico del carcere.

La sentenza sarebbe frutto di "un lavoro incompleto e fuorviante - scrive il pm - Sarebbe stato più che sufficiente incrociare le dichiarazioni rese dai vari detenuti collocati nei diversi punti del carcere (celle, corridoi, cucina, cortili) per individuare una corrispondenza nella descrizione degli avvenimenti, nell’esatta cronologia degli stessi, nella presenza in punti precisi delle persone, nel riconoscimento di persone che erano in servizio". Secondo Caria dalle dichiarazioni della quasi totalità degli imputati "emerge un’enorme menzogna, assolutamente costante: quel giorno nella casa circondariale di Sassari non sarebbe accaduto nulla di rilevante; quasi nessuno si è accorto delle bestiali violenze subite dai detenuti, della violazione non solo di norme penali ma di ogni principio basilare della vita di un paese democratico. Nessuno si è accorto delle lesioni subite dai detenuti, dei pestaggi avvenuti davanti a cento occhi, dei trascinamenti per i capelli, dei detenuti buttati per le scale, delle celle devastate, delle inevitabili urla e rumori provenienti da varie parti del carcere, di come sia stata calpestata la dignità umana di persone che comunque devono essere rispettate...Tali dichiarazioni sono perfino irridenti, tanto è il divario fra quanto oggettivamente accertato e quanto sfrontatamente dichiarato; il quadro che emerge è talmente incredibile da apparire perfino surreale: i detenuti sono stati fatti uscire "gentilmente" dalle loro celle, che non si comprende chi li ha accompagnati di sotto nelle sale colloquio o chi li ha accompagnati a braccetto dalle sale colloquio ai mezzi utilizzati per il trasporto". Poi affronta la materia spinosa del concorso in reato. Per Gianni Caria il giudice ha ritenuto sussistente il concorso di persone solo per alcuni imputati e non per altri, senza alcun senso logico: "Da una parte si dispone infatti il rinvio a giudizio per alcuni imputati per tutti i reati così come ascritti, quindi con le imputazioni originarie che prevedevano il concorso, e dall’altra si ritiene il concorso astrattamente insussistente".

 

Maxipestaggio nel carcere di San Sebastiano, si viaggia su doppio binario

 

L’Unione Sarda, 17 settembre 2003

 

A partire dal 29 settembre, data fissata per l’inizio del processo, siederanno sul banco degli imputati gli agenti di polizia penitenziaria (circa una decina) che avevano scelto di non lavare i panni sporchi dietro le porte chiuse di un’udienza preliminare e di andare invece a dibattimento.

Ma il processo quasi certamente correrà parallelo al processo d’appello, chiesto dal pm Gianni Caria dopo la sentenza in udienza preliminare. Il paradosso sarebbe assistere a due esiti contrapposti, con conclusioni che potrebbero risultare opposte.

Intanto, il Gup Antonio Luigi Demuro avrebbe depositato le motivazioni della sentenza con cui condannava il provveditore regionale delle carceri, Giuseppe Della Vecchia, la direttrice di San Sebastiano, Cristina Di Marzio e il comandante delle guardie, Ettore Tomassi, sentenza anche quella a rischio di impugnazione. Già dopo la prima tranche di motivazioni il pm Caria aveva usato parole forti, commentando una sentenza che aveva condannato i capi e nove agenti, prosciogliendone altri 20 e mandandone assolti quarantotto.

Il Gup non aveva negato una sera di ordinaria violenza, che però non avrebbe avuto nulla di preordinato. Quelle botte ai detenuti, durante una banale operazione di trasferimento, sarebbero state il risultato di una rabbia montata sul momento da parte di uomini in divisa che i vertici dell’istituto penitenziario non erano riusciti a controllare, avallando implicitamente la loro condotta.

Era finita con quattro anni di carcere da spartire fra i tre imputati eccellenti; con nove agenti di polizia penitenziaria condannati, con pene che variavano da cento euro di multa a un anno; con il medico del carcere, (che li aveva fatti uscire tutti da San Sebastiano senza un graffio, ma solo sulla carta) condannato a quattro mesi. Per tutti beneficio della condizionale, non menzione, niente interdizione dai pubblici uffici. Insomma il pestaggio a San Sebastiano c’era stato, ma l’intelaiatura accusatoria, per il Gup Demuro, era sofferente. In compenso il giudice aveva picchiato duro sui risarcimenti, caricando gli unici tredici responsabili di quattro, cinquemila euro per ogni parte offesa e molti di più per le spese processuali.

Per il pm Caria, era stata una sentenza contraddittoria e immotivata, dove si erano usati pesi e misure diversi, riconoscendo da una parte la validità dell’impianto accusatorio solo per alcuni, mentre dall’altra si contavano le crepe. "Una sentenza frutto di un lavoro incompleto e fuorviante - aveva scritto nel ricorso in appello - decisa senza nemmeno prendersi la briga di incrociare le dichiarazioni rese dai vari detenuti nei diversi punti del carcere".

 

Precedente Home Su Successiva