Le paure del carcere - paradiso

 

Gorgona, le paure del carcere-paradiso

di Marco Gasperetti

 

 

Corriere della Sera, 10.03.2004

 

Viaggio tra trattori abbandonati e campi trascurati: così i detenuti hanno perso le loro libertà

 

Chiusi nelle celle, costretti a camminare nei corridoi delle camerate, i carcerati contano i giorni. Ne sono passati nove dall’ultimo delitto e l’incubo continua. "Sono nervosi, non sono abituati a stare rinchiusi - dice un agente di custodia - e in queste condizioni basta poco perché l’inquietudine si trasformi in violenza". Anche le guardie non sono tranquille. Licenze saltate, turni massacranti e un sentimento d’angoscia, mai provato prima, come se si fosse spezzato qualche oscuro equilibrio e la sicurezza fosse diventata qualcosa di leggero e fragile. Vogliono più controlli e hanno chiesto che i carcerati, quando torneranno a lavorare, non abbiano più l’accesso libero agli arnesi agricoli.

"Noi siamo disarmati, loro hanno martelli, roncole e coltelli", hanno protestato gli agenti, tanto da convincere la direzione a censire gli strumenti agricoli e a limitarne l’uso. Da ora in avanti saranno distribuiti uno ad uno, come nei carceri veri. Tutto è cambiato a Gorgona, colonia penale dove i 130 detenuti controllati da meno di 80 agenti lavoravano e si muovevano liberi tra allevamenti di mucche e di cavalli, pollai, orti, oliveti e vigneti, colture di piante aromatiche, vasche di acquicoltura e impianti in costruzione per l’allevamento di pesci tropicali. Due delitti in meno di due mesi (un detenuto sardo massacrato a colpi di roncola e un siciliano assassinato con una mazzuola) hanno sfigurato la più piccola e rigogliosa isola dell’arcipelago toscano (2,5 chilometri quadrati disseminati di pini, lecci e migliaia di varietà di piante officinali a 18 miglia dalla costa livornese) peggio di una tempesta. Oggi il paradiso dei carcerati, laboratorio di mille esperimenti pedagogici e di intraprendenti aperture, è diventato un luogo tetro, plumbeo e inaccessibile. Sempre più chiuso, sempre più galera.

Lunedì sull’isola è sbarcata una delegazione dei Verdi guidata dal consigliere regionale Fabio Roggiolani. Domani arriverà un gruppo di parlamentari. "Non ci hanno fatto vedere neppure un carcerato - racconta Roggiolani -. Ci hanno fatto salire su una jeep e portato a spasso per l’isola come turisti, mentre funzionari arrivati da Firenze organizzavano summit per decidere il futuro del carcere".
La jeep che trasporta Roggiolani è quella del direttore. E a guidarla è proprio lui, Carlo Mazzerbo, 46 anni, da 14 sull’isola. Il ministro Castelli lo ha sospeso assieme al comandante degli agenti di custodia Baingio Fancellu, ma Mazzerbo, direttore dalle idee rivoluzionarie, che a Gorgona vive con la moglie biologa e un bambino di due anni, è rimasto. La direzione temporanea è stata assunta dall’ispettore Dessì, funzionario del ministero di Grazia e Giustizia, già direttore del carcere di Sollicciano. È l’uomo della normalizzazione? È arrivato per tagliare e cancellare? Trasferire e censurare? "No, è un ottimo professionista - spiega Mazzerbo a Roggiolani - non vuole far morire Gorgona".
I segnali di un certo ottimismo non mancano. Ieri da Firenze il provveditore regionale delle carceri, Massimo De Pascalis, ha annunciato che è pronto a rilanciare l’isola e a trasformarla in un polo turistico con la possibilità di visite anche di più giorni e i detenuti trasformati in cuochi, ristoratori e albergatori.
Propaganda per stemperare la tensione? No, Mazzerbo apprezza, ma oggi è un direttore ferito. Lui non lo dice, ma tutti sanno che il primo delitto lo aveva se non annunciato temuto. Non voleva sull’isola Martino Zoroddu, pezzo da novanta dell’Anonima sarda, due omicidi, un sequestro di persona e soprattutto - si mormora - una doppia vita da bandito e da pentito. E come tutti i collaboratori di giustizia odiatissimo dal clan dei sardi, sedici sull’isola, oggi trasferiti sul continente. Il secondo omicidio, però, quello di Francesco Lo Presti, un siciliano arrestato e condannato dopo una lite finita in tragedia, non riesce a spiegarlo.

La jeep inizia a salire verso la zona degli orti. Piccoli campi coltivati, terrazzamenti con olivi, serre con erbe aromatiche, trattori, falci, rastrelli abbandonati. Strano connubio tra ordine e desolazione. Dopo un paio di curve impossibili, a picco sulla scogliera, ci sono gli allevamenti. Mucche, cavalli, polli, conigli. Prima dell’ultimo delitto decine di carcerati arrivavano qui all’alba su un rimorchio trainato da un trattore, adesso in pochissimi riescono a strappare un permesso e fanno quel che possono. "Se continua così va tutto a rotoli - dice Roggiolani - come è già successo con il turismo. L’isola è sempre più chiusa in se stessa, un processo iniziato da un anno, ben prima dei delitti. C’era una cooperativa che da Livorno gestiva le visite guidate oggi fan ben poco. I progetti ci sono, ma ho l’impressione che il rischio è che Gorgona voglia continuare a vivere solitaria, forse teme l’effetto zoo, turisti che vengono a vedere i carcerati come se fossero animali in gabbia. Sull’isola arrivano sempre più spesso reclusi pericolosi e questo non va d’accordo con il turismo. Non vorrei che i due delitti fossero un alibi per chiudere un’esperienza invidiata in tutta Europa. La Regione ha fatto molto per Gorgona, il Parco, commissariato dal ministro Matteoli, invece l’ha boicottata. Adesso tutti rimbocchiamoci le maniche".

Davanti alla Torre Vecchia, un fortilizio pisano del XIII secolo, la jeep ha come un sussulto. La Torre, in rovina, si regge a stento su una scogliera, la Costa dei Cantoni dove volano gabbiani e corvi neri. Non lontano, più in basso, ci sono grandi vasche di acquicoltura. Orate e spigole e per la prima volta ombrine. Solo qui ci sono una decina di detenuti con permesso speciale.
Si può salvare Gorgona? "Si può e si deve - dice padre David Colella, cappellano del carcere -. Però bisogna cambiare. Ci vuole maggiore attenzione negli ingressi, perché non tutti i detenuti che sono arrivati nell’isola erano idonei e regolamenti diversi. Gorgona non è un carcere come gli altri, certe regole non vanno bene. La sera, dopo una giornata di lavoro fuori dalle celle, i reclusi devono mettersi in fila e aspettare l’ispezione anti evasione. Gli agenti battono le inferriate, in un rito dal sapore antico e umiliante, soprattutto per uomini che hanno assaporato la libertà e imparato ad amarla e a difenderla".

 

 

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