Pagine sul carcere

 

Linee - guida per l’attività progettuale in ambito penitenziario

 

La scelta di impegnare il proprio tempo, professionale o volontario, in ambito penitenziario può muovere da motivazioni diverse e da "filosofie" diverse. Chiunque operi con le persone detenute nell’ambito delle attività trattamentali e/o di reinserimento vede il proprio impegno orientato da valori e principi oltre che da specifiche competenze.

Riteniamo dunque importante, in questa sede, rendere esplicito l’orientamento teorico da cui hanno origine queste pagine perché è in queste premesse che si può cogliere il senso complessivo del contributo.

L’empowerment: strategie e strumenti Il concetto di empowerment si è sviluppato in psicologia di comunità per indicare i processi attraverso i quali cittadini , svantaggiati acquisiscono maggiore potere tramite la partecipazione in associazioni di cittadini.

Questo termine nasce e si evolve dunque all’interno di strategie di sviluppo di comunità che consistono proprio nel favorire un processo di crescita di potere nei cittadini tramite la opportunità di partecipare in esperienze collettive significative.

La traduzione letterale di questo termine è "favorire l’acquisizione di potere", ovvero, secondo

rapporti a cui si deve l’elaborazione di questo concetto, accrescere le possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita.

Ciò avviene attraverso un processo tridimensionale che include:

lo sviluppo di un più potente senso di se in rapporto con il mondo;

la costruzione di una comprensione più critica delle forze politiche e sociali che impattano il proprio mondo quotidiano;

l’elaborazione di strategie funzionati e di reperimento di risorse per raggiungere scopi personali e obiettivi socio politici.

Proprio per come nasce e come si sviluppa questo concetto, la sua applicazione al mondo penitenziario si presenta come particolarmente feconda anche se richiede una ridefInizione che sia coerente con il contesto.

Parlare infatti di acquisizione di potere all’interno di un luogo in cui il potere formale sta strutturalmente ed esplicitamente nelle mani di una sola parte del contesto (la parte dei "controllori") potrebbe sembrare ingenuo o, peggio, indice di cattiva fede. Diventa allora indispensabile chiarire in che termini si parla di empowerment in questa sede in modo da non dare adito a fraintendimenti.

n processo di empowerment, per come qui viene inteso, è sostanzialmente un modo di produrre cambiamento nella forma di un aumentato accesso alle risorse per le persone in qualche modo svantaggiate, nello specifico le persone detenute. Le persone sono cioè aiutate a raggiungere abilità in termini di saper fare, di sapere e di saper essere, in grado di produrre "partecipazione competente".

Nonostante il carattere coercitivo dell’istituzione si parte dalla convinzione che esistano margini, per le persone ristrette, di salvaguardia della propria persona e dei propri diritti proprio solo attraverso l’acquisizione di competenze utili alla sopravvivenza interna e successivamente utilizzabili nella fase del reinserimento.

Ed è proprio questo uno dei primi obiettivi di lavoro che danno senso alla presenza di personale educativo e di supporto sociale all’interno degli istituti penitenziari e del mondo della pena in generale.

L’incontro della persona detenuta con il mondo degli operatori sociali (sia professionisti che volontari) deve poter dare vita ad Un aumento di competenze sociali, in caso contrario il lavoro dei primi rischia di costituirsi soltanto come legittimazione delle funzioni istituzionali di segregazione e custodia.

Si fa dunque riferimento all’empowerment proprio in termini di obiettivo specifico che giustifica la presenza stessa di personale altro da quello della custodia.

In questo modo diventa possibile uscire dalla logica semplicemente punitiva o puramente assistenziale per ipotizzare interventi che garantiscano un livello minimo di garanzia dei diritti della persona. È ad un processo di umanizzazione del carcere che stiamo facendo riferimento, in cui il "potere" di chi è detenuto è appunto quello di sostenere in modo competente i propri diritti pur in un regime di privazione della libertà.

In questa prospettiva si rinuncia a qualunque aspettativa di tipo ri-educativo e anche a finalità riformistiche, a nostro avviso mistificatorie, per avvicinarsi ad una logica che vuole il carcere residuale, transitorio, fortemente interconnesso con la comunità esterna.

Adottare il concetto di empowerment come possibile guida per il lavoro in carcere significa tuttavia attuare un primo fondamentale cambiamento nella cultura operativa di tutti. Operare con questa strategia significa infatti innanzitutto lavorare con le persone detenute per uscire dalla logica passiva del carcere che imprigiona detenuti e operatori per adottare modelli di intervento attivi, in grado di utilizzare le risorse potenzialmente presenti all’interno del carcere e mobilitare quelle esterne sia ai fini del reinserimento, sia ai fini dell’elaborazione e promozione di strategie di gestione del conflitto diverse da quella della pena detentiva.

Informazione e organizzazione sociale sono le risorse individuate al1’interno di una comunità civile, che possono essere rintracciate e sviluppate anche all’interno di un istituto penitenziario e che consentono di promuovere strategie di empowennent.

L’informazione che il possedere informazioni sia di per se uno strumento di potere è ovvio. Tanto più in una situazione di coercizione in cui la vita quotidiana è scandita da regole e procedure spesso ossessive, ma non necessariamente esplicite. Basti pensare allo strumento della "domandina" a cui la persona detenuta deve fare ricorso per chiedere di parlare con gli operatori o la direzione, o alle regole per fare la spesa all’interno del carcere, o alla scansione dei tempi per l’esercizio delle normali attività quotidiane.

Sapersi muovere, conoscere l’ambiente e le persone può essere di grande aiuto sia per vivere meglio dentro il carcere, sia per reinserirsi nella comunità civile una volta usciti (non è raro che chi entra in carcere spesso non abbia nemmeno dimestichezza con il proprio ambiente di vita esterno come accade per le fasce più deboli della popolazione, tossicodipendenti, stranieri, emarginati, ecc. ) Non bisogna inoltre dimenticare la funzione delle informazioni rispetto alle dinamiche della sottocultura carceraria in cui le gerarchie tra detenuti sono spesso legate alla minore o maggiore dimestichezza con l’ambiente istituzionale. Ecco perché negli ultimi anni si è assistito ad una particolare attenzione a questo aspetto in tutti i progetti che sono stati realizzati in ambito penitenziario. Oggi l’informazione in carcere viene promossa da molti: ne sono una prova i corsi di informazione sanitaria, l’istituzione di sportelli all’interno degli istituti, la cIrcolazione di materiale, ecc.

La questione è il tipo di attività informativa e le modalità con cui viene portata avanti che in qualche modo danno un senso diverso al promuovere informazione in carcere: non basta informare, fare corsi, insegnare qualcosa. Perché la informazione corrisponda ad una strategia di empowerment deve essere circolare e dare vita a processi comunicativi auto organizzati e alla produzione di materiale auto prodotto.

Ogni attività informativa deve cioè aumentare le competenze comunicative delle persone detenute sia come recettori che come trasmettitori; per questo chi partecipa ad occasioni di questo genere deve poter diventare a sua volta un buon canale informativo per gli altri compagni di detenzione.

Da qui la logica di lavorare sempre con gruppi piccoli, per più incontri e producendo materiale elaborato dalle persone detenute. Adottando questa strategia si riesce ad offrire una informazione mirata e quindi più efficace, si impara ad usare un linguaggio accessibile e quindi ad aumentare veramente il patrimonio conoscitivo della persona, si riescono ad aprire canali comunicativi meno diffidenti, si produce un materiale che è di immediata utilizzazione e più efficace perché elaborato da chi vive direttamente l’esperienza detentiva.

Lavorando in questo modo ci si accorge, inoltre, di quante risorse vi siano tra i detenuti; all’interno di un carcere molte persone sono capaci di scrivere, di disegnare, di pensare in termini progettuali, di comunicare efficacemente. Questo comporta sicuramente dei risultati personali sul piano della autostima per le persone detenute, ma aiuta anche gli operatori ad acquisire competenze comunicative contestuali.

Proprio per questo, se si vuole produrre informazione efficace in carcere, il lavoro di gruppo è uno strumento essenziale, la contestualizzazione delle informazioni è determinante, il rapporto diretto tra gli interlocutori (operatore/detenuti) non può essere sporadico, la documentazione deve essere elaborata con le persone che devono usufruire delle informazioni.

In assenza di tutto questo i programmi informativi in carcere, a nostro avviso, rischiano il fallimento nel senso che si traducono in un fare che non solo non aumenta le competenze di nessuno, ma consolida la logica della dipendenza totale da parte dei detenuti.

Un secondo elemento di originalità di una prospettiva di lavoro come questa è la sperimentazione di modelli in cui l’attività informativa viene svolta dagli stessi detenuti che, una volta divenuti competenti, sperimentano attività di consulenza per i propri compagni. La persona detenuta diventa in operatore e quindi sperimenta un ruolo di servizio. Si tratta di promuovere e consolidare pratiche operative quali la peer education.

Le esperienze di questo genere hanno dimostrato l’efficacia di questo modo di lavorare rispetto ai modelli più tradizionali. Informazione dunque in gran parte autogestita. In questo modo la dimensione informativa diventa anche un momento di reale responsabilizzazione della persona detenuta.

Questi principi valgono naturalmente anche per l’attività informativa che viene svolta all’esterno del carcere. Una attività progettuale che voglia essere davvero incisiva non può non porsi la questione dell’informazione e dei suoi mezzi all’interno della comunità civile e tra l’interno e l’esterno. Di carcere si parla molto spesso attraverso i mezzi di comunicazione di massa, ma raramente si fa parlare il carcere nelle scuole, nei luoghi di aggregazione, nelle associazioni di cittadini sviluppando una comunicazione tra questi sistemi. È compito di chi entra ed esce dal carcere (e cioè operatori e volontari) assumersi questa responsabilità.

L’organizzazione sociale in carcere Seconda risorsa delle strategie di empowerment, la organizzazione sociale è un dato particolarmente rilevante in carcere. Con questo termine facciamo riferimento al maggiore coinvolgimento e partecipazione delle persone nel definire i problemi e nel prendere decisioni. In sostanza parliamo di auto-organizzazione, cioè della esperienza di progettare e attuare interventi nel proprio contesto di vita. È proprio attraverso questo tipo di esperienza che le persone acquisiscono quelle competenze tecniche ed emancipatorie insieme che permettono loro di porsi nel mondo con più potere, che le rendono capaci, cioè, di sapere dove trovare risorse, come potenziarle, come incidere direttamente sulla propria realtà.

Tradurre tutto questo in un modo di vivere la detenzione è indubbiamente una scommessa molto ambiziosa, ma proprio per questo imprescindibile per chi vuole dare un senso non assistenziale al proprio operare in carcere. In questo senso concordiamo pienamente con Pisapia quando afferma che "assumere una logica di progetto significa proprio tentare di modificare quelle situazioni che appaiono immodificabili (o che vengono rappresentate come tali).

Si parte allora dalla convinzione che l’auto organizzazione sia una possibilità di vita anche all’interno di un’istituzione totale anche se non si è certo cosi ingenui da credere che lo sia automaticamente, totalmente e in modo permanente. n carcere ha un’organizzazione interna che non può che essere rigida e gerarchica dato che le sue finalità, al di là di qualunque discorso sulla retorica della rieducazione, sono repressive e di difesa sociale. Perciò è molto lontana, in particolare da chi scrive, l’idea che il carcere abbia una qualche valenza realmente educativa.

n periodo di tempo che una persona trascorre in carcere, poiché per il momento non sembra possibile eliminarlo, può tuttavia essere trasformato, per quanto possibile, in una opportunità e questo è realizzabile solo se in carcere vengono date occasioni concrete per vivere esperienze di comunicazione e di assunzione diretta di responsabilità. Questo significa individuare le pieghe (perché di pieghe e pertugi si tratta) in cui è possibile inserire occasioni di incontro tra le persone detenute, luoghi in cui la comunicazione possa circolare in modo fluido, momenti di reale supporto che prescindano dalla logica premio-punizione che vige in carcere, esperienze di relazione tra operatori e persone detenute che possano differenziarsi dai momenti valutativi della osservazione ai fini della concessione di permessi e misure alternative.

VuoI dire cioè appropriarsi di qualche spazio di vita possibile. E questo vale per chi è detenuto, ma vale anche per chi in carcere lavora e vive con pesantezza la dimensione del controllo insita nel proprio ruolo. Ci si riferisce ad educatori, esperti, assistenti sociali che spesso sentono il peso di un ruolo che viene definito dagli altri e sul quale ritengono di non poter avere margini di manovra. In realtà è nostra convinzione che lavorare in termini di empowerment, attraverso l’individuazione di momenti di auto-organizzazione, consentirebbe l’aumento di potere anche per gli operatori. Diventa allora importante defInire con più precisione e con maggiore concretezza in che termini si può parlare di auto organizzazione all’interno del carcere. Un progetto che voglia prendere le mosse all’interno di una strategia di empowerment deve innanzitutto necessariamente prevedere uno spazio di progettazione con le persone detenute. È anche con i detenuti che si devono definire i problemi e quindi le aree di intervento del progetto, è con i detenuti che si devono gestire le attività, è con i detenuti che si devono attivare esperienze di autonomia organizzativa ed è con i detenuti che si devono condividere alcuni momenti decisionali e di valutazione.

Questo vuol dire sostanzialmente creare luoghi e occasioni in cui le persone ristrette possano sperimentare le proprie capacità, i propri limiti, il grado di interdipendenza che il lavoro di ciascuno ha sulla vita dell’altro e, conseguentemente, il proprio grado di responsabilizzazione.

In questo senso la sperimentazione di momenti auto organizzati, è una opportunità molto feconda anche dal punto di vista dell’identità psicologica e sociale delle persone ristrette. Non è semplice nemmeno per le persone detenute , uscire dalla logica passiva della delega, assumersi dei rischi, prendersi degli impegni e portarli avanti, interagire in modo consapevole e mediato con il personale di custodia, con gli operatori e con i propri compagni. Tuttavia, è proprio la sperimentazione di questo genere di attività che dà modo a chi lavora in carcere di essere davvero utile alle persone detenute. L’accettazione di questa impostazione, che non voglia essere utopistica, conduce tuttavia a prendere in esame la dimensione del rischio. In un’istituzione chiusa, infatti, qualunque lavoro punti ad una maggiore autonomia di chi è ristretto, non può che essere percepito come rischioso. Per esempio, la preoccupazione che favorire la comunicazione tra detenuti tossicodipendenti aumenti il rischio di far circolare droga all’interno del carcere, è un dato di cui si deve tenere conto.

La possibilità che i conflitti si acutizzino nel momento in cui vengono gestiti collettivamente per una sorta di effetto contagioso è paventato spesso dall’istituzione come un rischio troppo alto. La paura da parte del personale di polizia penitenziaria che una relazione più umana con i detenuti comporti il rischio della perdita di autorevolezza del proprio ruolo è una preoccupazione sempre presente. La percezione degli operatori e dei volontari che un rapporto più immediato conduca a processi di strumentalizzazione da parte dei detenuti è un rischio spesso esplicitato dagli operatori stessi. Si tratta di variabili di cui essere consapevoli, che non vanno negate e su cui agire in modo prudente, attraverso strategie di contrattazione e negoziazione, comprendendo tuttavia che una sopravvalutazione di questi fattori conduce inevitabilmente ad accontentarsi di metodi operativi come il colloquio individuale o la realizzazione di iniziative più estemporanee, in cui i detenuti sono individuati come utenti, che sono sicuramente più rassicuranti per tutti ma decisamente meno produttivi sul piano dell’empowerment.

L’elemento del rischio è un dato strutturale di questo modo di lavorare, come è un dato strutturale che un detenuto che va in permesso possa non rientrare in carcere, e proprio per questo progettare e lavorare in carcere vuol dire imparare anche a gestire il rischio e questo si traduce nell’assumersi la responsabilità di ragionare sui criteri di selezione dei detenuti chiamati a collaborare al progetto, sul grado di supporto concreto che gli operatori forniscono ai detenuti, sulla definizione delle regole interne, sulle modalità di verifica del percorso, sulle decisioni successive ad eventuali "infrazioni", sulle modalità di integrazione con il personale di polizia penitenziaria.

Tutto questo a partire tuttavia da una chiarezza di fondo e cioè che la responsabilizzazione delle persone detenute non può essere intesa come una sorta di pre-requisito per cui alle attività progettuali possono partecipare solo le persone più "rassicuranti" per l’istituzione. Un progetto può e deve piuttosto costituire una vera e propria chance per coloro che hanno poche opportunità ed è su questi aspetti che lavorare secondo una strategia di empowerment può significare anche lavorare a stretto contatto con il personale di polizia per aumentarne le competenze rispetto a strategie di gestione del conflitto.

Sintetizziamo quanto esposto fin qui sulle strategie di empowerment in ambito penitenziario, sottolineando che l’adozione di questa filosofia richiede un’approfondita riflessione per chiunque voglia operare in questa direzione, sulle motivazioni che inducono al lavorare in carcere.

Il semplice "fare" in questo settore può essere utile, infatti, solo se si intende lavorare assistendo le persone detenute, se per una ragione o per l’altra si sente il bisogno di impegnare il tempo in attività rivolte alle persone emarginate, se per convinzioni religiose si ritiene che occuparsi dei carcerati sia un dovere morale, se con una formazione laica si ritiene che questo sia un dovere civile. Se è per questo che si sceglie di lavorare in carcere allora il "fare" quotidiano con i singoli individui può anche essere sufficiente e in ogni caso segno di interesse e condivisione.

Se, per contro, si intende lavorare in carcere svolgendo un’azione più "politica", se si vuole incidere anche sulle politiche sociali di cui quella criminale è uno dei sottoinsiemi, se si ritiene che il carcere sia un problema della comunità civile e sia una riposta comunque inadeguata, se si vuole incidere sulla cultura del senso comune che è notoriamente punitiva. Se si pensa tutto questo, allora il lavoro in carcere non può che essere un lavoro in comune con le persone detenute e con la comunità civile.

Questo vale in particolare per la maggior parte dei detenuti che non è certo rappresentata dai tangentisti o dagli esponenti della criminalità organizzata, ma piuttosto dalle fasce svantaggiate come i nuovi poveri, i tossicodipendenti, gli stranieri. Persone che sono rappresentative di contraddizioni sociali più che di vere e proprie carriere criminali intenzionali.

Lavorare in questa direzione significa chiedersi come operatori, volontari e non, di quali strumenti è necessario dotarsi per imparare a lavorare insieme, per accettare di sperimentare modelli di intervento complessi, per verificare criticamente le proprie posizioni quando sono frutto di semplice bisogno di autoreferenzialità, per provare finalmente a lavorare su obiettivi concreti e verificabili anche quando si lavora in carcere.

Solo l’inserimento del lavoro nel settore penitenziario all’interno di un discorso più generale sulla salvaguardia dei diritti umani in carcere, può a nostro avviso funzionare da elemento di autoregolazione per cui si mantiene alto il livello di consapevolezza del ruolo che chi opera in questo settore svolge realmente. Il rischio di acquietare la coscienza lavorando per le persone detenute, mantenendole tuttavia nella loro condizione di dipendenza e subalternità è molto più alto di quello che può: sembrare anche se derivante dalla massima buona fede. Adottare metodi e costruire progetti secondo strategie di empowerment può essere una chiave di lavoro che attenua questo rischio.

Il dentro-fuori: due facce della stessa medaglia Un secondo principio imprescindibile per chi intenda lavorare in chiave progettuale è la consapevolezza del legame strutturale tra l’interno e l’esterno e conseguentemente la proiezione dell’attività progettuale su entrambi i lati della relazione. Non è certo una novità sostenere il collegamento dentro/fuori sul piano del principio. Sarebbe invece una novità riuscire ad attuarlo concretamente.

Por conoscendo le difficoltà che si incontrano quando si intende operare anche all’esterno del carcere, riteniamo che i tentativi in questa direzione vengano sostanzialmente sottovalutati per almeno due ragioni. La prima risiede nel meccanismo secondo il quale lavorare , all’interno finisce per essere più semplice e qualche volta anche più gratificante.

La seconda fa riferimento all’incertezza e alle difficoltà che si incontrano nel definire operativamente come applicare questo principio: come si fa, sostanzialmente, a lavorare con il fuori? Quali sono le attività che si devono realizzare? Quali sono gli interlocutori che vanno coinvolti? E a che livello? Quali obiettivi bisogna darsi per lavorare all’esterno? E la persona detenuta, una volta uscita, che tipo di relazione richiede? Queste le domande che chiunque sia sensibile a questo tema si pone e i tentativi di risposta sono davvero scarsi.

Non si ha certo la pretesa di rispondere a tutti i quesiti, tuttavia riteniamo che sia possibile almeno identificare alcuni criteri metodologici generali che possono fungere da supporto per chi vuole realizzare progetti in questa prospettiva. Diamo allora per scontato che chi si pone queste domande non faccia parte di coloro che sono ostinatamente affascinati solo dalla realtà interna, ma sono disponibili a considerare l’obiettivo di muovere la realtà esterna almeno al pari di quello di lavorare dentro il carcere e tentiamo di addentrarci in questo lato della medaglia.

Diversi sono i livelli attraverso i quali il dentro e il fuori possono interagire e diverse sono le attività concrete che possono derivarne; in ogni caso riteniamo che esistano alcuni criteri di base che possono favorire questa interazione e che costituiscono una sorta di pre-condizioni senza le quali qualunque proiezione all’esterno risulterebbe fallimentare e comunque molto difficoltosa.

Il coinvolgimento degli interlocutori istituzionali il primo criterio fa riferimento al coinvolgimento dei livelli istituzionali esterni al carcere. Un progetto che voglia estendere la propria incisività all’esterno deve prevedere il coinvolgimento delle istituzioni esterne deputate per legge ad occuparsi di problemi connessi alla realtà detentiva.

I livelli di coinvolgimento possono essere diversi a seconda delle competenze istituzionali, in ogni caso garantiscono alcuni vantaggi.

Innanzitutto consentono ai progetti realizzati in ambito penitenziario di acquisire una "paternità" pubblica e di non essere dunque considerati patrimonio solo dell’istituzione penitenziaria.

Ciò conseguentemente può offrire maggiori garanzie di continuità ai progetti stessi e può aiutare a creare le precondizioni per mobilitare maggiori risorse individuando precisi livelli di impegno.

il secondo vantaggio è dato dalla funzione che per eccellenza alcune istituzioni, per esempio gli Enti locali, possono svolgere e cioè quella del supporto economico per le attività progettuali in carcere.

Supporto che, si sia convinti sostenitori del volontariato più puro oppure sostenitori ad oltranza del lavoro retribuito, è sempre indispensabile per garantire il consolidamento di esperienze operative che si pongono come obiettivo non la semplice sperimentazione ma anche e soprattutto la costituzione di risorse strutturali.

Infine, ci sembra che il coinvolgimento degli interlocutori istituzionali costituisca anche una chiara posizione non sostitutiva rispetto alle responsabilità sancite dalla norma e che quindi non possono e non devono essere eluse.

2) La promozione dell’ingresso di operatori esterni al carcere Il fatto di realizzare progetti che prevedono l’ingresso di operatori e volontari esterni alla realtà penitenziaria è di per se la concretizzazione di un collegamento tra interno ed esterno. Tuttavia, in questa sede interessa sottolineare quali sono le precauzioni da adottare se si vuole che il rapporto non rimanga unilaterale, ma sia veramente foriero di sviluppi per l’esterno.

La prima questione è data dalla funzione stessa degli operatori e dei volontari.

Al di là della competenza professionale o del ruolo istituzionale, l’operatore esterno dovrebbe garantire alle persone detenute alcune funzioni cardine che possono essere meglio esercitate da chi, non dovendo rispondere a funzioni di custodia o di valutazione, può con maggiore libertà interagire con le persone detenute.

La funzione informativa, che consiste nel portare dentro il massimo delle informazioni possibili che possano aiutare le persone detenute ad aumentare le proprie competenze sociali.

Ciò che si sostiene è che l’operatore esterno è importante non solo per l’eventuale relazione umana che riesce a stabilire, ma anche e soprattutto per la ricchezza, la completezza e la fruibilità delle informazioni che riesce a introdurre nel contesto carcerario.

La funzione connettiva. Con questo tenore facciamo riferimento al passaggio successivo a quello informativo che prevede lo sviluppo concreto di connessioni con la realtà esterna e che può consistere nel mettere in collegamento diretto le persone detenute con le risorse della comunità, attraverso gli strumenti più opportuni ed efficaci ( ovviamente consentiti dai vincoli normativi).

L’operatore che viene dall’esterno, per il fatto stesso di non avere obiettivi di tipo di custodia, può e deve assumersi la responsabilità di sostenere tutte le azioni necessarie a garantire i diritti delle persone ristrette. Chiamiamo volutamente questa funzione di garanzia e non di "denuncia" perché siamo convinti che quest’ultima possa essere solo uno degli strumenti della garanzia (e non sempre il più efficace, anche se sicuramente il più visibile), ma non il fine di chi lavora in carcere.

Quest’ultima si sostanzia invece in una azione sociale interna ed esterna al carcere di tipo continuativo, progressivo, fatto di piccoli ma costanti passi, che richiede credibilità e autorevolezza anche rispetto agli altri interlocutori presenti in un carcere.

La funzione promozionale, attraverso la quale l’operatore che singolarmente fa in qualche modo portavoce nel proprio ambito di riferimento e promuove cultura all’esterno. Se ciò che viene appreso all’interno del carcere diventa patrimonio di più persone (all’interno del servizio sul territorio, nella propria associazione, nella rete dei rapporti informali), acquista una valenza realmente collettiva, in caso contrario finisce per restare sempre e comunque una esperienza interna con cui si agisce nel qui e ora.

3) Realizzare attività interne con valenza specificamente esterna Si tratta in questo caso di un criterio davvero imprescindibile per lavorare in una logica progettuale. Anche quando la scelta fosse quella di operare solo dentro 1’istituzione penitenziaria, le attività che si svolgono devono poter avere un risvolto concretamente mirato all’esterno.

È cioè indispensabile uscire dalla logica del carcere come semplice "laboratorio protetto" delle attività professionali, culturali, lavorative, aggregative, ecc. Un luogo in cui si opera in chiave di .’come se..." tipica di una concezione pedagogica di tipo istituzionale.

L’impostazione più realistica, che qui viene proposta, è già largamente condivisa soprattutto per quanto concerne i corsi di formazione professionale realizzati in carcere che negli ultimi anni cercano di strutturarsi nell’ottica di aprire veri e propri posti di lavoro all’esterno, oppure nell’uso delle attività culturali (in particolare quelle teatrali) che vengono rappresentate all’esterno.

Restano tuttavia esperienze sporadiche, portate avanti con mille difficoltà connesse il più delle volte al problema delle garanzie giuridiche e quindi intrappolate nella maggiore o minore discrezionalità dei singoli Tribunali di Sorveglianza che concedono più o meno facilmente i permessi e che in ogni caso sono soggette alla precarietà legata all’affidabilità stessa dei singoli detenuti.

In linea generale, dunque, la valenza esterna delle attività previste in un progetto resta un problema aperto a cui è forse possibile accostarsi individuando, anche in questo caso, qualche criterio minimo che consenta almeno di non perdere di vista la questione.

Due sono i livelli che a nostro avviso vanno analizzati alla luce del significato esterno delle attività: uno concerne gli scopi delle singole attività e uno i livelli di contesto.

Per ciò che concerne gli scopi, il senso, delle attività previste in un progetto riteniamo che le stesse debbano poter dare conto in modo esplicito delle seguenti richieste:

l) quali sono le capacità che vengono apprese attraverso una certa attività?

2) le capacità apprese potranno essere spese, da chi oggi è detenuto, quando uscirà dal carcere?

3) se si, quali sono le condizioni che le persone detenute dovranno mettere in atto per rendere possibile questo percorso?

Per ciò che concerne i livelli organizzativi, le domande minime a cui rispondere sono a nostro avviso cosi riassumibili:

l) quali sono i referenti esterni che vanno coinvolti nelle singole attività?

2) quali procedure vanno avviate, oppure costruite, per garantire l’estensione esterna?

3) quali vincoli istituzionali sono effettivamente ostativi e non possono essere rimossi?

4) qual è la dimensione temporale più adeguata per non cadere nella frammentarietà delle iniziative e nel contempo per garantirne la concretizzazione all’interno del carcere?

Ragionare in questi termini sulle attività da realizzare all’interno di un progetto, consente di scegliere le attività più rispondenti agli obiettivi che si vogliono raggiungere e salvaguardare dal rischio, assolutamente ricorrente in carcere, di fare le cose perché sono buone in se o perché di fronte al vuoto del carcere l’importante è comunque fare qualche cosa.

4) Creazione di opportunità esterne al carcere Un quarto criterio che a nostro avviso è necessario seguire per garantire che un progetto in carcere corrisponda ad un orientamento dentro/fuori, è che siano previste esplicitamente delle azioni esterne che agiscano da supporto per il passaggio dal dentro al fuori. , Non si tratta semplicemente di "trovare casa e lavoro" (an;

che se questo resta un impegno fondamentale), ma piuttosto di offrire punti di riferimento facilmente accessibili a chi esce, con operatori dedicati che siano competenti, che offrano informazioni mirate in relazione ai bisogni e orientamento alla persona.

Punti decentrati nelle diverse zone della città che funzionino da connessione operativa tra la persona e la rete delle risorse.

Non si vuol entrare nel merito delle modalità di realizzazione di queste attività in questa sede; si vuole però sottolineare che in assenza di azioni esterne, pensate e strutturate già all’interno dei progetti da attuare in carcere, si rinuncia al senso più profondo dell’impegno in ambito penitenziario. Chiunque abbia lavorato in carcere, e ancora di più chiunque lo abbia vissuto in prima persona sa infatti che la vera scommessa è nelle possibilità del reinserimento nella comunità civile. Avere identificato alcune linee-guida per lavorare in carcere secondo una prospettiva progettuale, significa avere costruito nella sostanza i binari entro i quali costruire i singoli percorsi progettuali. Proprio questa, a nostro avviso, è L’operazione più faticosa perché in questa fase si incontrano/scontrano ideologie, motivazioni personali, culture di riferimento, aspettative di ruolo, stereotipi, identità sociali. Decidere di lavorare in carcere vuol dire infatti fare i conti con tutti questi livelli di analisi e l’attività progettuale, in quanto attività collettiva per eccellenza, non può prescindere da una continua riflessione proprio sugli aspetti di fondo di questo tipo di impegno.

 

 

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