Pagine sul carcere

 

La funzione della formazione professionale nel penitenziario

 

Premessa L’argomento sul quale verte questo contributo fa parte della storia del carcere da molto tempo e dunque non costituisce una novità; fin dalla fine dell’ottocento nelle carceri italiane l’istruzione e il lavoro sono stati presenti e hanno influito sulla vita delle persone detenute e dei loro "controllori".

È sufficiente dare uno sguardo alla letteratura dell’epoca o alle foto d’archivio del Ministero della Giustizia.

Tuttavia non e un caso se ancora oggi ci ritroviamo a parlare della formazione in carcere: questo strumento ha infatti conosciuto un’evoluzione sia concettuale che operativa particolarmente significativa.

Vorrei allora riassumere brevemente in premessa questa evoluzione perché mi consente di offrire un contributo attuale che tuttavia possa tenere conto del passato e anche dei rischi che potremmo correre oggi nell’affrontare questo tema come se fosse nuovo.

Si tratta infatti di collocare il tema all’interno di un’istituzione ancora oggi definita totalizzante perché pervade la vita del detenuto, perché completamente separata dalla comunità civile, perché in grado di reggersi indipendentemente dai contatti con l’esterno. Totalizzante perché spesso invita anche a percorsi mentali totalizzanti sia da parte dei detenuti che da parte degli operatori che lavorano in carcere e, oggi, da parte dell’altissimo numero di interlocutori che vi accedono dall’esterno.

Tuttavia questa è la realtà: il carcere è un’istituzione totale e come tale è tesa innanzitutto alla propria sopravvivenza.

È in questi termini che tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, si sono interpretati l’istruzione, la formazione e il lavoro penitenziario. All’inizio del secolo scorso il carcere era uno dei pochi luoghi in cui fasce svantaggiate potevano imparare un mestiere, imparare a leggere e scrivere e questo è stato vero fino a non molto tempo fa. Fino a quando, con la riforma penitenziaria del 1975, l’istruzione e il lavoro sono diventati strumenti del trattamento in virtù della funzione rieducativa della pena.

In ogni caso 1’uso di questi strumenti risponde ancora oggi a due diverse funzioni: una, quella esplicita, è proprio quella "trattamentale", l’altra (meno esplicita ma non per questo meno vera) è quella che potremmo definire "contenitiva".

Poter riempire il tempo di vita dei detenuti è un indubbio vantaggio dell’istituzione proprio perché la vita dentro le celle, in particolare in momenti di sovraffollamento, può essere insostenibile. In questo senso la formazione, come tutti gli altri strumenti, può costituire un allentamento della tensione, un impegno mentale che favorisce la non fissazione nel qui e ora della cella, un’occasione di incontro con persone che provenendo dall’esterno favoriscono una sensazione di minore abbandono nei detenuti. E questo ha una ricaduta positiva sulla sicurezza interna. Si tratta di una funzione molto importante che già da sola potrebbe essere vista come coerente con un processo di umanizzazione della pena che resta indispensabile.

Dalla riforma penitenziaria a oggi di strada ne è stata fatta.

Su alcune questioni si ha l’impressione di essere tornati indietro, su altre invece si ha l’impressione di aver fatto dei passi avanti.

Ed è proprio qui che credo vada collocato un ragionamento complessivo sul tema della formazione in carcere.

La proposta che introduco è di passare dalla formazione come strumento di contenimento e di

rieducazione, e quindi come uno strumento tutto interno al carcere, ad una concezione della formazione come vero e proprio strumento finalizzato al reinserimento sociale.

Non credo che questo passaggio sia da dare per scontato, soprattutto dal punto di vista operativo. Benché infatti possiamo essere tutti idealmente d’accordo sul fatto che oggi intendiamo la formazione come uno strumento volto al reinserimento dei detenuti, io non credo che abbiamo ancora messo in campo metodi e strumenti fortemente coerenti con questa logica. E credo inoltre che non siamo tutti consapevoli del pericolo insito nel credere che il carcere possa fare bene a qualcuno...opinione molto più diffusa di quanto si crede.

Si fa molta fom1azione in carcere (vi sono detenuti che insieme agli anni di pena accumulano titoli e qualifiche), le risorse ad essa destinate sono sempre più consistenti sia a livello nazione che a livello europeo, i soggetti esterni pubblici e del privato sociale hanno mostrato una forte sensibilità in questi ultimi anni e le politiche sociali sembrano orientarsi in questa direzione in modo forte.

A mio parere questo non è tuttavia sufficiente; è necessario impostare delle buone prassi, consapevoli e valutabili, che ci riparino dal rischio di riprodurre processi già vissuti. Mi riservo di dire al termine del mio intervento quali sono i rischi a cui a mio avviso potremmo andare incontro se non tenessimo presenti alcune attenzioni di fondo.

Provo dunque a costruire un percorso metodologico che possa fornire una cornice, sulla quale ovviamente confrontarci, che tiene conto sia del sistema penitenziario che del sistema delle reti esterne che oggi collaborano con il primo soprattutto sul tema che ci riguarda in questa sede.

Si tratta tuttavia di riflessioni che possono trovare un’applicazione anche più generale rispetto a diverse progettazioni che presuppongono l’integrazione.

La proposta che introduco è di passare dalla formazione come strumento di contenimento e di ri-educazione, e quindi come uno strumento tutto interno al carcere, ad una concezione della formazione come vero e proprio strumento finalizzato al reinserimento sociale.

Non credo che questo passaggio sia da dare per scontato, soprattutto dal punto di vista operativo. Benché infatti possiamo essere tutti idealmente d’accordo sul fatto che oggi intendiamo la formazione come uno strumento volto al reinserimento dei detenuti, io non credo che abbiamo ancora messo in campo metodi e strumenti fortemente coerenti con questa logica. E credo inoltre che non siamo tutti consapevoli del pericolo insito nel credere che il carcere possa fare bene a qualcuno...opinione molto più diffusa di quanto si crede.

Si fa molta fom1azione in carcere (vi sono detenuti che insieme agli anni di pena accumulano titoli e qualifiche), le risorse ad essa destinate sono sempre più consistenti sia a livello nazione che a livello europeo, i soggetti esterni pubblici e del privato sociale hanno mostrato una forte sensibilità in questi ultimi anni e le politiche sociali sembrano orientarsi in questa direzione in modo forte.

A mio parere questo non è tuttavia sufficiente; è necessario impostare delle buone prassi, consapevoli e valutabili, che ci riparino dal rischio di riprodurre processi già vissuti. Mi riservo di dire al termine del mio intervento quali sono i rischi a cui a mio avviso potremmo andare incontro se non tenessimo presenti alcune attenzioni di fondo.

Provo dunque a costruire un percorso metodologico che possa fornire una cornice, sulla quale ovviamente confrontarci, che tiene conto sia del sistema penitenziario che del sistema delle reti esterne che oggi collaborano con il primo soprattutto sul tema che ci riguarda in questa sede.

Si tratta tuttavia di riflessioni che possono trovare un’applicazione anche più generale rispetto a diverse progettazioni che presuppongono l’integrazione.

Le premesse per attivare percorsi formativi mirati al reinserimento Si tratta di individuare in primo luogo alcune premesse senza le quali è difficile pensare che la formazione professionale in carcere possa diventare una reale opportunità per il reinserimento.

Alcune di queste premesse riguardano il sistema delle reti esterne, altre riguardano il sistema penitenziario e altre invece sono espressione dell’integrazione organica dei due sistemi.

Le reti esterne È necessario che chi promuove e realizza percorsi di formazione professionale definisca in partenza quale strategia intende adottare e, in specifico, quale valenza i percorsi possono avere per i detenuti rispetto a finalità generali quali l’umanizzazione della pena, l’acquisizione di strumenti di base, il semplice orientamento, la sperimentazione di percorsi di apprendimento in assenza di precedenti esperienze o per un passato troppo lontano di formazione.

Questo primo livello va precisato perché è compatibile con percorsi di formazione che possono non avere come esito concreto la competenza professionale e/o lavorativa ma hanno un forte valore propedeutico. È quanto spesso già accade ma non è reso esplicito. Questo tipo di percorsi può trovare realizzazione in modo coerente anche solo all’interno del carcere.

Questo chiarimento di base permette di identificare con maggiore precisione il target dei corsi. Chiunque abbia lavorato in carcere sa che questa è una questione difficile da risolvere: i criteri di accesso degli allievi spesso rispondono ad esigenze diverse da quelle previste dall’impianto formativo e questo si traduce sovente in abbandoni del corso da parte di soggetti che non avevano aspettative e motivazioni chiare.

Se gli enti promotori e gestori della formazione riescono a precisare il livello di formazione proposto è forse più facile individuare le persone interessate e offrire ai detenuti il percorso formativo più compatibile con i loro effettivi bisogni alle premesse per attivare percorsi formativi mirati al reinserimento Si tratta di individuare in primo luogo alcune premesse senza le quali è difficile pensare che la formazione professionale in carcere possa diventare una reale opportunità per il reinserimento.

Alcune di queste premesse riguardano il sistema delle reti esterne, altre riguardano il sistema penitenziario e altre invece sono espressione dell’integrazione organica dei due sistemi.

Le reti esterne È necessario che chi promuove e realizza percorsi di formazione professionale definisca in partenza quale strategia intende adottare e, in specifico, quale valenza i percorsi possono avere per i detenuti rispetto a finalità generali quali l’umanizzazione della pena, l’acquisizione di strumenti di base, il semplice orientamento, la sperimentazione di percorsi di apprendimento in assenza di precedenti esperienze o per un passato troppo lontano di formazione.

Questo primo livello va precisato perché è compatibile con percorsi di formazione che possono non avere come esito concreto la competenza professionale e/o lavorativa ma hanno un forte valore propedeutico. È quanto spesso già accade ma non è reso esplicito. Questo tipo di percorsi può trovare realizzazione in modo coerente anche solo all’interno del carcere.

Questo chiarimento di base permette di identificare con maggiore precisione il target dei corsi. Chiunque abbia lavorato in carcere sa che questa è una questione difficile da risolvere: i criteri di accesso degli allievi spesso rispondono ad esigenze diverse da quelle previste dall’impianto formativo e questo si traduce sovente in abbandoni del corso da parte di soggetti che non avevano aspettative e motivazioni chiare.

Se gli enti promotori e gestori della formazione riescono a precisare il livello di formazione proposto è forse più facile individuare le persone interessate e offrire ai detenuti il percorso formativo più compatibile con i loro effettivi bisogni a partire da una conoscenza effettiva delle loro possibilità di partenza.

Su questo primo livello di formazione inoltre, andrebbero seriamente presi in considerazione percorsi che operino sulla cultura del lavoro in se, sulle competenze sociali indispensabili non solo per trovare un lavoro ma per vivere in un contesto lavorativo. Si tratta di un bisogno molto importante, che a mio avviso dovrebbe essere costitutivo dei percorsi formativi in carcere dal momento che i due problemi più importanti, per chi ha sperimentato una carriera delinquenziale, sono l’accettazione di una logica del lavoro meno pagato di quello illegale e la sperimentazione di relazioni sociali in contesti diversi da quello della strada o del mondo criminale.

Sovente è su questi aspetti che le esperienze di risocializzazione falliscono.

Un secondo livello di formazione è quella professionale vera e propria. Quella che dovrebbe consentire l’acquisizione di competenze spendibili anche dopo il periodo della carcerazione. Su questo livello mi sembra fondamentale che ci sia chiarezza sui mercati possibili intendendo sia quelli interni agli istituti penitenziari, sia quelli esterni. E non solo come mercati in generale, ma i mercati locali, quelli del territorio in cui il singolo carcere è presente. Su questo secondo livello, a mio avviso, è infatti importante garantire esperienze di stages alL’esterno che il più delle volte sono rese impossibili dalla dislocazione logistica del carcere e delle risorse che ospiterebbero gli allievi.

In questa prospettiva è importante fare una scelta di campo abbastanza chiara. Benché i corsi di fom1azione che individuano gli stages all’interno dell’istituto (penso a laboratori attivi all’interno, o a lavori di manutenzione) costituiscano una risorsa effettiva e diano anche sicurezza all’istituzione (i detenuti non escono e dunque tutto può essere gestito all’interno), corrono il rischio di non costituire una effettiva esperienza formativa e lavorativa per i detenuti.

Il fatto stesso che si lavori dentro l’istituzione impedisce di sperimentare un rapporto di lavoro come quello esterno, delle relazioni umane altre da quelle delinquenziali, delle regole legate al mondo del lavoro e non a quello del carcere.

Pur mantenendo l’idea di percorsi di questo genere, che comunque possono migliorare la vita del detenuto all’interno, è importante operare strategicamente in una logica che dia priorità ad esperienze formative il più possibile connesse con la realtà esterna.

Vanno inoltre a mio avviso promossi percorsi orientati all’autoimprenditorialità, sia perché questo è un dato ormai significativo anche per i lavoratori in genere, sia perché esperienze legate al microcredito hanno dimostrato come questa possa essere la strada giusta per quelle fasce di marginalità e povertà che oggi sono fortemente rappresentate in carcere.

In questo senso il mondo della formazione professionale, soprattutto quello istituzionale, dovrebbe trovare una maggiore integrazione con i programmi di inserimento lavorativo per le fasce deboli che sono patrimonio specifico del mondo del privato sociale. Oggi non ci sono progetti di questo genere che integrino la loro attività con i centri di formazione professionale, per esempio.

Sempre facendo riferimento agli enti promotori e gestori, è a mio avviso fondamentale che si operi sulla contestualizzazione degli interventi e conseguentemente sulla formazione dei formatori (sia che provengano dal mondo istituzionale, sia che operino attraverso il privato sociale).

Chi lavora nel campo della formazione ed entra in carcere deve conoscere il contesto, le sue regole, la sua logica, i ruoli che vi sono rappresentati e questo non solo perché è funzionale alla gestione del lavoro quotidiano ma perché l’esperienza detentiva incide sia sulla dimensione soggettiva delle persone (sia i detenuti che gli operatori), sia sulla produzione di significati complessivi dell’esperienza formativa e lavorativa.

Infine, la questione della connessione con il sistema delle Imprese.

Nodo sollevato da tutti, ma sul quale si progetta poco e per il quale non vengono destinate risorse: se vogliamo che il mondo delle imprese, anche quello profit, sperimenti con noi, è necessario che nei progetti sia previste azioni concrete di reperimento, sensibilizzazione e soprattutto supporto per le imprese. Alcune esperienze di inserimento lavorativo di fasce debole dimostrano che, se effettivamente e adeguatamente supportate, le imprese sono più disponibili di quanto sembri. c In questo caso utilizzare forme di tutor mirato non rivolto soltanto alla persona, ma piuttosto proprio all’impresa, sarebbe una efficace strategia.

Un mondo penitenziario Molti sono, a mio avviso, i cambiamenti necessari per rendere la formazione professionale un effettivo strumento di reinserimento. Il carcere non può auspicare un massiccio intervento della comunità esterna e mantenere inalterato il proprio sistema interno. Mi limito a sottolineare la questione rispetto alla formazione professionale, ma ovviamente questo vale anche per altre azioni.

In primo luogo, se si ritiene che la formazione sia importante, vanno ridefiniti alcuni aspetti organizzativi interni: gli orari, le sedi della formazione, le modalità di accesso dei materiali, i trasferimenti dei detenuti, ecc.

Tutte questioni note, ma sulle quali ancora non si capisce come poter incidere. Ciò a cui si assiste è la sensazione che non sia mai chiaro chi deve prendere le decisioni, chi le prende davvero (perché vengono comunque prese), ecc.

È noto che proprio le regole implicite sono quelle che tengono in piedi 1’istituzione totale e sarebbe dunque ingenuo pretendere che tutto questo cambi come per miracolo; mi limito a far notare come spesso da parte del sistema penitenziario ci sia addirittura l’implicita pretesa di valutare la qualità degli interventi fatti dagli esterni, senza considerare che la propria organizzazione incide molto più fortemente sulla efficacia dei percorsi formativi e lavorativi dal momento che regole e procedure sono dettate proprio dall’interno.

In secondo luogo è indispensabile una riflessione congiunta con la magistratura di sorveglianza. È un nodo spinoso, questo, dal quale non è tuttavia possibile prescindere soprattutto se si vuole che gli stages, per esempio, possano essere realizzati all’esterno dell’istituto. Credo sia tempo di costruire rapporti organici con le magistrature locali con le quali negoziare fin dall’inizio alcuni criteri per la realizzazione delle attività formative: a chi spetta la promozione di questo genere di rapporti?

Nella mia lunga esperienza di carcere mi sono resa conto che laddove esistono volontà nelle direzioni degli istituti questa è una cosa possibile.

Un ulteriore passaggio che va fatto e che ha già trovato una spinta in questi ultimi anni, è la riqualificazione degli operatori penitenziari. I problemi di organico sono ben noti e possono costituire un ostacolo di base che non ci consente di fare più alcun ragionamento, perciò credo sia importante ragionare sulla qualità degli operatori.

Oggi è pensabile che chi lavora in carcere debba disporre di competenze diverse da quelle di quindici anni fa: a differenza di allora, infatti, ci si deve rapportare con un consistente numero di soggetti che entrano dall’esterno, con metodologie di lavoro che hanno una forte dimensione progettuale e non più di classica presa in carico del singolo soggetto, con un indubbio interesse a partecipare da parte del volontariato.

Tutte cose che vent’anni fa auspicavamo e che oggi sono una realtà: come si sta reagendo a tutto questo? La sensazione di chi arriva dall’esterno è di una certa difficoltà, di un continuo difendersi dall’idea che ci sia sempre del lavoro in più da fare, di un legittimo bisogno di essere presenti ma contemporaneamente di appesantimento per i carichi di lavoro già eccessivi.

Tutti problemi reali ovviamente, ma che impediscono di ottimizzare forme di integrazione effettive che sul tempo medio - lungo costituirebbero un aiuto anche per il personale penitenziario. Non mancano tuttavia azioni che vanno in questa direzione e oggi, soprattutto sul tema della formazione e del lavoro, si stanno muovendo nuove competenze anche tra gli educatori penitenziari, ci sono programmi di formazione interessanti per gli agenti di polizia penitenziaria, ci sono strategie di lavoro più orientate alla rete da parte dei CSSA.

Forse chi resta un poco , fuori da tutto questo movimento è il mondo degli esperti ex art. 80; un mondo a mio avviso endemicamente in ritardo.

Infine, nel mondo del penitenziario, è diventato importante avviare un processo di definizione più chiara dell’interazione tra la sicurezza e il trattamento che sul piano del principio viene affermato, ma sul piano operativo (regole, ruoli, responsabilità) è ancora molto confuso. Da questa chiarezza possono forse derivare anche modalità concrete di lavoro che possano arginare i trasferimenti dei detenuti nel mezzo di un corso, modalità che valorizzino quanto un detenuto fa anche se va in un altro carcere, procedure di accesso degli operatori esterni più snelle, passaggi di informazioni e comunicazioni più efficace.

Naturalmente tutto questo non è solo frutto di singole volontà, ma piuttosto di sperimentazione di modelli di lavoro veramente integrati ed è con questo che vorrei avviarmi alla conclusione del mio contributo.

Quali passaggi dovrebbero essere fatti per garantire una realizzazione più integrata dei percorsi formativi?

I passaggi per l’integrazione cooperazione e progettazione è la prima parola chiave. E con questo termine non mi riferisco solamente alla condivisione dell’idea progettuale, ma anche e soprattutto a una definizione comune della struttura organizzativa di un progetto. A partire dai criteri di accesso dei detenuti, per giungere ai ruoli, compiti e responsabilità degli interlocutori coinvolti, nonché alle procedure operative da mettere in atto.

All’interno di questo passaggio è indispensabile, a mio avviso, coinvolgere anche rappresentanti della polizia penitenziaria perché è solo attraverso la sperimentazione concreta di una collaborazione "alla pari" che si potrà nel tempo sperare in una effettiva integrazione.

Progettazione mirata è la seconda parola chiave. Mirata vuol dire che tenga conto di tutte le variabili che possono incidere sulla realizzazione di un progetto: la tipologia dei detenuti, il bisogno formativo di quello specifico contesto territoriale, le dimensioni del carcere e la sua logistica, i tempi della pena, l’esistenza di altre offerte nello stesso carcere, la politica della magistratura di sorveglianza. Si tratta di incrociare, prima di progettare, l’ente promotore e gestore con l’ente che dispone dei futuri allievi. È, questo, quello che si definisce lavoro di rete reale.

Formazione integrata. È quanto si sta già facendo anche nella sede che ci accoglie oggi per una attività tipo seminario, ma sono tutti previsti gli interlocutori? C’è qualcuno della polizia penitenziaria? Ci sono i CSSA? Se è cosi siamo sulla buona strada. Se cosi non è, allora c’è da riprendere in esame una questione importante: laddove si voglia davvero lavorare in rete è necessario domandarsi se la dimensione intersistemica viene salvaguardata e questo per il sistema penitenziario è una problema vecchio.

CSSA e Istituti sono spesso mondi separati, la magistratura di sorveglianza è un mondo a se, molte realtà che lavorano in carcere non sanno nemmeno dell’esistenza di altri, insomma, credo sia importante lavorare in modo organico sulla rete interna mentre si opera con la rete esterna, altrimenti la parola rete diventa uno slogan che semplicemente aumenta la frammentazione.

Questo è anche compito di chi, come me, si occupa di consulenza e formazione. Forse la promozione concreta del lavoro di rete deve essere garantita proprio da chi è chiamato ad aiutare i diversi sistemi e allora il mondo della formazione (soprattutto quella che si occupa degli operatori) deve interrogarsi su questa sua competenza, su quanto faccia parte del know how necessario strutturalmente per operare in questo settore.

Infine, la valutazione integrata e partecipata. Valutazione è una parola oggi abusata e in Italia sicuramente siamo ancora alle prime armi rispetto ad altri paesi: oscilliamo tra l’idea di valutare tutto adottando criteri statistici poco coerenti con settori di lavoro come quello sociali, e l’idea che, siccome si parla di esseri umani, niente può essere valutato.

Lo ritengo che in modo più saggio non si debba rinunciare a verificare se e come quello che facciamo dà dei risultati e quali, ma lo dobbiamo fare in una logica sensata, che ci veda coinvolti congiuntamente non solo nel registrare le cose che si fanno, ma nel valutarle veramente imparando cosi dalla esperienza.

Ogni progetto dovrebbe prevedere dei momenti di valutazione prima, durante e dopo, e soprattutto predisporre le risorse per lavorare concretamente in equipe sulla valutazione.

Non è possibile in questa sede approfondire l’argomento, ma le esperienze di valutazione partecipata realizzate nell’ambito di progetti complessi ha messo in luce quanto questo strumento, se adeguatamente condotto, può essere foriero di nuovi saperi e nuove pratiche sempre più coerenti con i bisogni delle persone.

Considerazioni conclusive Mi sembra di potere, senza alcuna pretesa di esaudiva, sottolineare come l’attenzione sui punti sottolineati consenta di interpretare la formazione professionale come una vera e propria strategia di sistema in grado di favorire concretamente i percorsi di reinserimento sociale delle persone oggi detenute.

Se concretamente attuate dentro e fuori dal carcere, queste azioni consentono di limitare un rischio sempre presente nel lavorare con il sistema penitenziario: si tratta dell’effetto paradossale per cui più si lavora all’interno, meno si attivano misure alternative alla pena.

Più vengono destinate risorse alla formazione professionale in carcere, più questo si traduce in un indubbio aumento di posti di lavoro per docenti, consulenti, esperti, operatori sociali ma non si creano parallelamente più posti di lavoro per i detenuti.

Più si offrono opportunità in carcere e più questo diventa il luogo della sostituzione dell’impegno che dovrebbe invece assumersi la comunità civile e la legittimazione di una concezione ri-educativa della pena che ormai tutti consideriamo superata.

Sono rischi sempre presenti e sui quali l’attenzione non è mai abbastanza, soprattutto per coloro che, nuovi di questo sistema, operano in perfetta buona fede.

 

 

Precedente Home Su Successiva