Una vita in prima linea

 

Un passato che è “come un’ombra

che mi cammina sempre accanto”

Sergio Segio racconta la sua storia nel terrorismo degli anni 70

 

Sergio Segio inizia la sua militanza politica in Lotta Continua nei primi anni Settanta, fuori dalle fabbriche di Sesto S. Giovanni, ma ben presto si rivolge alla lotta armata. Nel 1974 è tra gli iniziatori di un percorso che, due anni dopo, assumerà la sigla di Prima Linea, destinata a diventare una delle principali organizzazioni terroristiche italiane. Segio viene arrestato a Milano, il 15 gennaio 1983: stava preparando un assalto al carcere speciale di Fossombrone. Sarà l’ultimo militante di Prima Linea a uscire dal carcere dopo aver espiato 22 anni di pena

 

recensione di Stefano Bentivogli

 

Non è facile affrontare una ricostruzione personale, pur supportata da una bibliografia ricca di documentazione, quando si tratta di una storia come quella di Prima Linea e più in generale dei gruppi rivoluzionari armati di sinistra che operarono in Italia durante gli “anni di piombo”. Ci si trova di fronte ad una sintassi antica per le persone troppo giovani e che spesso non hanno neanche idea di cosa si parla, oppure ci si trova, essendo in qualche modo passati per quegli anni, con una sensazione di disturbo per il vedersi ripassare sotto gli occhi delle immagini che magari si preferisce dimenticare, o di rancore perché per molti quelli furono anni della sconfitta, o per alcuni sicuramente di dolore per la riapertura di ferite non ancora rimarginate.

“Una vita in Prima linea” di Sergio Segio è un libro, a mio avviso, destinato al rischio di essere cassato, sin dalle prime pagine, dalla dedica dove si ricorda, ai figli dei compagni e delle compagne protagonisti delle azioni armate di quegli anni, che i loro genitori sono state persone buone e leali.

Proprio sulla rivendicazione del substrato ideale che caratterizzò le tante azioni militari di quegli anni, che ritorna sotto varie forme, si possono assumere atteggiamenti diversi, divergenti e in contrasto: accettare rigidamente che anche chi è in guerra può allo stesso momento essere buono e leale, oppure che il decidere la guerra (o la ritorsione) non consente di essere né buoni e tanto meno leali. Una specie di guerra, ecco secondo me l’unico sfondo sul quale è possibile leggere la storia di Prima Linea, una guerra condotta da pochi ma sostenuta direttamente o meno da altri, assecondata da molti.

È comunque ridicolo valutare le dimensioni dei gruppi combattenti di quegli anni, senza considerare i vasti strati di consenso che questi ricevevano: parliamo infatti di persone, di gruppi, che con percorsi diversi si trovarono uniti nel decidere la via armata al cambiamento. Anche qui ognuna di queste persone ha riempito di distinguo il quadro a cui l’identità politica e culturale faceva riferimento, ed anche Sergio Segio lo fa, tracciando le linee di confine tra le pratiche politico – militari di Prima Linea e quelle delle Brigate Rosse.

Certo rileggere il racconto dettagliato di alcune azioni di guerriglia di quegli anni, narrate come storia propria ancora presente e lucida nel ricordo, può lasciare interdetti, anche irritati, tanto da non cogliere i passaggi importanti sulla consapevolezza del delirio che si stava consumando, sulla perdita della dimensione umana. Come quando si parla dell’omicidio di William, “compagno della rete”, ma ad uno stato di “coinvolgimento iniziale”, messo sotto pressione dai magistrati, con la minaccia di imputazione di concorso nell’omicidio Alessandrini. Dell’esecuzione Sergio Segio scrive: “Non volevamo lasciare un peso così tremendo sulle spalle di altri compagni. Lo assumemmo sulle nostre, e non fu facile, né allora né dopo. Perché se dare la morte lascia sempre dei segni indelebili, quella ci lacerò ancora più in profondità. Le giustificazioni che fanno apparire sostenibile uccidere traggono alimento dalla spersonalizzazione, dalla riduzione di un uomo a nemico, a “cosa”, a simbolo negativo […] Vorrei dire che non avemmo scelta. Non sarebbe vero. Perché una scelta c’è sempre. Ma c’è anche una logica, allucinata e ferrea, che è quella della guerra. Vera o mimata, unilaterale o reciproca che sia. Se la si abbandona, se la si mette anche solo per un attimo tra parentesi, crolla tutta l’impalcatura”.

Non si può non cogliere qui un giudizio così netto sulla logica aberrante della guerra, a cui corrisponde necessariamente una perdita di umanità, così come si riconosce che alla guerra c’è sempre una possibilità di scelta alternativa, che non esclude il conflitto, lo scontro anche duro, ma che mantiene il valore della vita come primo, e non declassabile in funzione di un fine anche “giusto”.

Certo sarebbe più facile un racconto tutto al presente, dove si arriva direttamente all’ammissione dell’errore, della sconfitta, del rimorso senza dare traccia della crudezza di una storia piena di violenza e di morti. E forse sta qui la difficoltà nell’affrontare un racconto che resta in un fragile equilibrio tra il tono della lotta con motivazioni giuste, illustrata con tratti di freddezza, alternato al bilancio drammatico, politico, storico ma soprattutto personale che sta nell’epilogo della logica della guerra stessa.

Ma credo che lo sforzo dell’esporsi in questo modo consenta di riconoscere un richiamo senza tentennamenti alle proprie responsabilità. E questa posizione è una posizione scomoda oggi, un riaprire una finestra su anni dove il ricorso alla lotta armata molti ritengono che debba rimanere un momento storico sul quale non andare più a far visite guidate dai protagonisti, almeno da quelli che le armi le impugnarono senza divisa, in clandestinità. Mentre non conosco proprio libri scritti sugli omicidi da parte delle forze dell’ordine durante scioperi e cortei, all’interno delle leggi per il “grilletto facile” emanate per fare la “guerra al terrorismo”, dove sono cadute addirittura vittime che con la lotta armata non avevano niente a che fare: chi colpì, o permise che si colpisse, coperto dalle leggi dello Stato, non scrive, non parla, come se non ci fosse più niente da dire.

Resta giusto, secondo me, che chi è stato vittima dei reati commessi negli anni di piombo espliciti tutto il dolore ancora vivo, che si senta ferito, che protesti, ma trovo giusto e coraggioso che chi si espone come fa Sergio Segio, come in altro modo fa Susanna Ronconi – ma anche tutti gli altri che in fondo al libro sono elencati con nome, nome di battaglia, attuale occupazione, – abbiano ascolto e rispetto.

Io credo che queste persone, che sono ormai fuori dal carcere, non si stiano proponendo in un confronto nel quale guadagnano qualcosa, anche perché perfino chi in quegli anni il terrorismo lo assecondava, o almeno non prendeva posizioni contro, ora spesso spara ad altezza d’uomo, da dentro i partiti di potere, con nuove condanne fatte a volte di ostracismo, vendetta sopra la giustizia, annientamento civile.

“Quel passato che non passa per me è come un’ombra, che mi cammina sempre accanto. Non ci si può separare dalla propria ombra. Ma l’ombra e la persona di cui essa è riflesso sono diverse. La cosa vera è la persona. Dunque l’oggi, sapendo che in esso è naturalmente ed irrimediabilmente contenuto il passato. E sapendo anzi che senza ombra non si sarebbe vivi.”

Così Sergio Segio, in chiusura, dà un significato a quelli che sentono oggi il peso di scelte sbagliate, senza dissociare pezzi della propria storia, perché senza la consapevolezza di questa storia non si rimane persone, come senza la propria ombra non si è vivi.

 

 

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