20 anni in attesa di giudizio

 

Dal sindacato al carcere: imputazione spionaggio

20 anni in attesa di giudizio

La disumanità dei tempi lunghi dei processi, i legami familiari che si sfasciano

nella storia di un sindacalista accusato di terrorismo

 

Diario di Luigino Scricciolo, il sindacalista della UIL accusato di appartenere alle Brigate Rosse e di essere una spia dei servizi segreti bulgari, arrestato nel 1982 per il sequestro del generale americano Nato James Lee Dozier

 

recensione di Elton Kalica

 

La mia cella era piccola, mattonelle rosse per terra, azzurrine alla parete, bianco sporco il colore della tinteggiatura. I pochi oggetti semplici e scarni destarono il mio interesse, ma nessuno riusciva a darmi conforto o compagnia. Gli stessi strumenti se poggiati sul tavolo di casa assumono un senso di vita e di utilità, qui sono elementi di durezza, di pena.

Descrive così il suo secondo giorno di carcerazione Luigino Scricciolo, sindacalista della UIL. È il 4 febbraio 1982 quando gli mettono le manette durante una conferenza e lo portano in questura. Le accuse sono diverse e gravissime – terrorismo, banda armata, spionaggio – il mandato di cattura è stato emesso anche nei confronti di sua moglie, che viene arrestata con lui.

“20 anni in attesa di giudizio” è un diario di dolore che insegna molto. Luigino Scricciolo racconta la sua carcerazione spalancando al lettore una finestra su un mondo fatto di sbarre, che in questo caso si riveleranno davvero la materializzazione dell’ingiustizia, e la causa di una catena di incancellabili dolori, di gratuite sofferenze.

Sono un carcerato anch’io, conosco la galera da più di dieci anni, e dichiaro di aver trovato il suo racconto stupendo, perché dà la sensazione di essere realmente completo. L’autore tocca moltissimi aspetti della vita detentiva, cominciando proprio dall’ingiustizia delle accuse infondate. Contro Luigino infatti vi erano soltanto sospetti, congetture, gelosie, ma niente di concreto che provasse anche in minima parte le accuse, e ciò significa che anche gli uomini che amministrano la Giustizia nella nostra società possono sbagliare, e se poi penso ai Tanzi di turno, non faccio soltanto demagogia se dico che viviamo in uno Stato in cui il sistema giuridico produce disuguaglianze e inutili sofferenze.

Non si può dimenticarsi dei danni fisici e mentali che l’isolamento causa nelle persone. L’autore nella sua disgrazia ha la “fortuna” di essere detenuto nel carcere romano di Rebibbia, che era ed è uno degli istituti più “decenti” d’Italia, e ciononostante le condizioni di vita che lui descrive sono inaccettabili per un paese civile. La sofferenza generata dall’isolamento, unita al dolore causato dalle pesanti accuse, piegano lo spirito di Luigino e spezzano la sua voglia di vivere, a tal punto che lui smette di nutrirsi, aggravando di molto le sue condizioni di salute. Quando raggiunge uno stato di deperimento psichico e organico gravissimo, è ricoverato al San Camillo di Roma: ha perso oltre il quaranta percento del suo peso corporeo, segno chiaro della sua decisione di lasciarsi morire.

Luigino dichiara allora di fare uno sciopero della fame per protesta contro le accuse che gli sono imputate e per avere un colloquio con il giudice istruttore, ma quando deperisce a tal punto che si muove solo su una sedia a rotelle, è chiaro che l’isolamento l’ha portato vicino alla pazzia, e il pensiero di togliersi la vita non è più una scelta, ma più che altro una conseguenza del crollo psichico.

 

La disumanità dei tempi lunghi dell’attesa di giudizio

 

Il tasto più dolente della detenzione, che è anche un denominatore comune della vita di tutti i detenuti, è la difficoltà a mantenere i legami familiari. Nemmeno Luigino sfugge a questa maledizione della galera, e il suo rapporto con Paola, sua moglie, non riesce a resistere alla detenzione. Le alte mura del carcere hanno creato una frattura insanabile. Forse quando si finisce in carcere, gli uomini si modificano nel corpo e nella mente, o forse il carcere tira fuori dei lati oscuri, l’anima più nascosta, fatto sta che sua moglie scopre in Luigino-detenuto un uomo cambiato, che non ama più. “Reagisci, non lasciarti vivere questa esperienza addosso. Non pensare di cercare pietà negli altri: (...) e per favore, smettila con queste storie sulla fede la speranza la carità. Proprio tu. Se è vero sono affari tuoi, se è una posa allora cercane una più decente e dignitosa. Non è con i rosari che si risolve tutto questo, né cercando di accattivarsi i preti. (…)”, scriveva Paola sperando di vedere suo marito ritornare il sindacalista eroico e combattivo che aveva conosciuto in passato, invece Luigino è molto più “umano” di quello che lei credeva. La lettera successiva annuncia la fine del loro matrimonio.

Da lettore detenuto mi è difficile esprimere un giudizio sulla brutta fine di questa storia d’amore, ma credo di poter affermare che non è colpa di nessuno dei due. È incredibile quanto la galera stravolga e rovini le persone, i sentimenti, le sensazioni, ma soprattutto la galera fa crescere le incomprensioni. Quando sei in carcere non puoi infilare la scheda nell’apparecchio telefonico, comporre il numero, chiamare tua moglie e chiarirti. Nelle carceri italiane questo non esiste. Hai una telefonata di dieci minuti a settimana, che è registrata, e devi scegliere se parlare con tua moglie, con tua madre o con i tuoi figli, e ovviamente se vi sono motivi di insoddisfazione, o di sospetto, non puoi fare altro che accumulare rabbia e nervosismo senza poterti chiarire, rappacificare. Riflettendo su quanto è pesante un rapporto che abbia a che fare con la galera mi accorgo che in questa situazione non ci sono responsabilità da imputare, né al marito nervoso e impaziente, né alla moglie sola e dura, la responsabilità del matrimonio che finisce è soprattutto della galera, e nel caso di Luigino, sono sicuro che se non ci fosse stato il carcere, quel legame non si sarebbe spezzato.

Alla fine, nel luglio del 1985, Luigino ritorna a essere un uomo libero. Anche se rimarrà ancora per molti anni in attesa di giudizio. Il dopo carcere è complicato per tutti, anche per un ex sindacalista, e il lavoro è difficile da trovare. Un amico lo invita a fare il giardiniere e Luigino non ci pensa due volte, si tira su le maniche e lavora. Ha le mani dure, callose, spaccate, ma questo è soltanto un motivo di felicità, perché lui sa bene che il lavoro dovrebbe servire anche a restituire la dignità alle persone, indipendentemente dal tipo di mansione che stanno svolgendo. Oltre al lavoro, Luigino s’impegna nel sociale, e poi deve continuare a lottare per farsi riconoscere la propria innocenza.

La disumanità dei tempi lunghi dell’attesa di giudizio è un altro aspetto che in questo diario si tocca con mano. È incredibile che un cittadino abbia dovuto aspettare venti anni per vedere un tribunale esprimersi su quelle pesanti accuse. Il diritto ad avere un processo in tempi brevi è riconosciuto non soltanto dalla Costituzione italiana, ma anche dalla Convenzione europea dei diritti umani, e però spesso i Tribunali non riescono a dare risposte veloci ai cittadini, li tengono per anni con il fiato sospeso, nell’angoscia del rischio di entrare in galera, impedendo loro così di costruirsi un qualsiasi progetto di vita.

Alla fine, dopo essere stato per venti anni schiacciato dal peso di accuse terribili, arriva la sentenza che lo assolve, con formula piena.

La mia intenzione era di recensire questo libro per invitare i lettori di Ristretti Orizzonti a leggerlo e a conoscere così un altro caso di ingiusta detenzione, e so che la recensione dovrebbe svelare quel po’ che serve per incuriosire le persone. Ma ho finito per raccontare tutta la storia, perché non potevo non parlare di quegli aspetti della galera che Luigino racconta e che io conosco, capisco e quindi rivivo con coinvolgimento. Comunque nel libro c’è molto di più, e allora, anche se ormai sapete come va a finire la storia, vi consiglio di leggerlo lo stesso.

 

 

Precedente Home Su Successiva