Una piccola tenda d'azzurro

 

Una piccola tenda d’azzurro

Il carcere raccontato da un ex terrorista. Un libro da leggere per prepararsi mentalmente a quanta miseria, a quanta violenza e a quanto sangue dobbiamo aspettarci di rivedere nelle carceri italiane tra pochi anni, se le cose non cambiano

 

recensione a cura di Elton Kalica

 

Mi succede a volte, mentre leggo un romanzo o un racconto, di identificarmi in uno dei personaggi, oppure di emozionarmi nel leggere la descrizione di una scena che mi riporta in una circostanza già vissuta, ma specialmente quando leggo storie di carcere, mi capita quasi sempre di ritrovare degli spazi già conosciuti, delle facce già viste, sofferenze già subite, tutto uguale: l’unica differenza sono le emozioni che rimangono personali, uniche.

Il carcere è come visitare senza un cicerone una specie di museo degli orrori, dove si è presi per il bavero e spinti dentro con la forza, per ritrovarsi in mezzo ad altre centinaia di uomini che vogliono soltanto andare via – ognuno aspetta l’uscita a modo suo, c’è chi si fa il giro guardando con curiosità ogni quadro, c’è chi si siede in un angolo e attende passivamente gli eventi, c’è chi cerca di migliorare l’ambiente e si mette a spolverare le statue, e potrei menzionare decine di atteggiamenti diversi che le persone assumono quando si trovano in una simile situazione – non conosci il percorso, non sai per quanto tempo ci rimarrai e non sei mai solo. Arrigo Cavallina è uno di quelli che non solo è sopravvissuto ai tanti anni di pena senza farsi piegare, ma ha anche modellato il carcere a sua forma, una forma che nasce dal rifiuto di subire la stupidità della pena, il suo tempo morto, il suo spreco parassitario, perché lui ha deciso di vincere la sua partita non scappando dal carcere, ma sottraendo corpo e spirito al logoramento prodotto dalla pena, e dando al tempo un senso per lui e per tutti gli altri detenuti.

“La piccola tenda d’azzurro” è un diario che racconta, in modo semplice, scorrevole e spesso poetico, un’eternità spesa in carcere: è una raccolta di eventi, di emozioni, di sogni realizzati e non, dove si tratta in modo approfondito una serie di argomenti che sono ancora di grande attualità. Arrigo Cavallina inizia la sua autobiografia raccontando della sua infanzia, periodo in cui in casa sua si respirava un antifascismo profondo. Per poi narrare di quella fase della sua vita nella quale tutte le guerre e le ingiustizie che succedevano nel mondo sembravano toccare direttamente il suo cuore e la sua mente. Anni di impegno nella Federazione giovanile del Partito Comunista poi nell’Unione per la gioventù, e ancora in Potere Operaio, sempre nel rincorrere l’utopia sovversiva con le letture di Marx, Lenin, Mao.

Così, tra riunioni politiche, assemblee interminabili, volantinaggi, attentati e rapine, avviene il suo primo arresto, e l’inevitabile detenzione nei gironi d’inferno che si chiamano carceri giudiziari, da San Vittore, a Treviso, da Udine a Trento a Novara. Al processo viene assolto per insufficienza di prove e, una volta fuori, si unisce a dei compagni vecchi e nuovi per fondare l’organizzazione “Proletari Armati per il Comunismo” (PAC), con l’obiettivo di svolgere un’attività proiettata solo contro il sistema carcerario. Il gruppo prepara la lotta armata e diventa da subito operativo: mette in atto varie rapine e una serie di attentati.

Ma Arrigo Cavallina è attratto da altre idee. In una delle sue pagine dedicate a quella continua ricerca d’identità che accompagna l’intero racconto, confessa che nonostante gli attentati e la violenza, la sua idea di autonomia, più che di sovversione politica, si rivolgeva ad altre dimensioni che stavano emergendo in luoghi del tutto estranei alla lotta armata. Sognava un gruppo aperto anche ad altre esperienze: alla scoperta dei propri condizionamenti, ai rapporti con la natura, alla critica dei modelli di consumo. “Quando verrà il giorno in cui invece di rivendicare un attentato rivendicheremo un modo diverso di aver educato un bambino?”.

Non passa tanto tempo che finisce di nuovo in carcere. I mandati di cattura cominciano ad arrivare uno dopo l’altro, mentre lui si interroga sul senso di tutto quel male che le sue azioni hanno prodotto in persone che nulla avevano a che fare con la sua lotta: “Cosa serve, con che faccia davanti ai familiari posso permettermi di dire qualcosa di negativo su una persona colpita, quando il nostro gesto è comunque non solo sproporzionato e ingiustificabile, ma collocato su un altro piano, quello della vita, che è per noi assolutamente indisponibile?”.

Arrigo nel frattempo comincia a capire che nessun esercito popolare sarebbe disposto a seguirlo nella sua lotta e che sono tanti i compagni, un’intera generazione, che continuano ad avere uno stesso destino, massacrati sotto una raffica di colpi d’arma da fuoco oppure seppelliti da lunghe condanne. Allora decide di rinunciare all’impegno rivoluzionario armato, di cambiare vita. Le strade sono due, pentirsi oppure continuare nella lotta, sembra che non esistano vie di mezzo, invece lui intende proseguire in un’altra direzione: separarsi dal terrorismo senza pentirsi. Ma deve lottare molto per l’affermazione di quella strada che si chiamerà dissociazione. Un’impresa per niente facile.

 

Dissociazione: dalla responsabilità collettiva a quella personale

 

All’interno del carcere Arrigo trova un mondo inaspettato. La maggior parte degli arrestati per reati di terrorismo o si pente, oppure continua la sua attività eversiva anche all’interno del carcere. Organizza proteste, formula programmi d’azione, convoca tribunali del popolo. Ma lui non riesce più a riconoscersi in queste organizzazioni. Per lui, una carcerazione senza sbocchi, senza speranze produce soltanto violenza. D’altro canto, anche la magistratura in quegli anni non fa distinzioni tra i detenuti, se non tra collaboratori di giustizia e non, continuando a negare differenze e possibilità di cambiamento, come se ci fosse una volontà di spingere tutti a gesti di disperazione. Al carcere di Trani una protesta organizzata da alcuni brigatisti viene soffocata con una dura repressione.

Arrigo prova a parlare anche agli altri compagni detenuti che non hanno intenzione di pentirsi, ma che però non condividono la violenza che continua a imperversare nelle carceri e fuori. Le sue parole trovano presto ascolto tra sempre più detenuti e molti cominciano a muoversi nella direzione di un movimento per la dissociazione. Per loro è fondamentale cercare di coinvolgere il maggior numero di persone e sensibilizzare i politici, affinché accettino il fatto che c’è anche chi non si considera in guerra e non si riconosce più nella lotta armata. L’obiettivo è che i tribunali accettino la diversità, il cambiamento, passando dal giudizio sulla responsabilità collettiva a quella personale. Perciò chiedono una legge che riconosca la dissociazione, nella coscienza che se si continua a negare l’individualità è difficile riuscire a ricostruire una speranza.

Si sa che togliere la speranza ai detenuti significa scatenare una violenza perpetua, e in fondo il movimento promosso da Arrigo mira soprattutto a questo: dare un futuro a chi sta in carcere, perché se si chiude ogni strada le persone non avranno più nulla da perdere, e allora ci sarà soltanto violenza, da tutte le parti. Se a seguire l’idea della dissociazione sono stati in tanti, altrettanti sono contrari e cominciano a gettare su di loro accuse d’infamia, di tradimento. Ma in realtà i veri traditori erano i pentiti e questo è un argomento, tutt’oggi presente, che Arrigo affronta sempre nella prospettiva della dissociazione. Per avallare le teorie dell’accusa, i pentiti spietatamente rimettono nell’occhio del conflitto anche chi se n’era allontanato, magari da anni, o chi lo aveva solo sfiorato, causando in questo modo il richiamo nel gioco al massacro di migliaia di non combattenti, scaraventati dalla tranquillità alla latitanza o alla galera. Insomma, i pentiti più che servitori della giustizia diventano carnefici dei propri compagni con un unico motivo, quello di salvarsi dalla galera.

 

Le cose buone ereditate dai terroristi

 

Quando, nove anni fa, sono entrato in carcere, i detenuti più vecchi mi raccontavano che molto di quello che c’è di buono nelle carceri, corsi scolastici, attività culturali, spettacoli, giornali, è stato guadagnato con la fatica e spesso anche con il sangue dei terroristi rossi. In realtà io non ero ancora nato quando l’Italia viveva i cosiddetti anni di piombo, ma essendoci in Albania un governo comunista, credo che la lotta armata che era in corso in Italia fosse considerata come una cosa giusta: ricordo che mio padre mi raccontava che questo fenomeno era stato un tentativo di instaurare in Italia un governo di matrice proletaria, ma che i rivoluzionari avevano sottovalutato il fatto che gli accordi tra le due più grandi potenze non prevedevano un rovesciamento di regime in Italia, e perciò era stato un sacrificio inutile. Naturalmente anche a mio padre era sfuggito il particolare che dietro gli attentati c’era forse un gioco di interessi di chi aveva capito che i gruppi terroristici non creavano simpatie e consensi, e lasciava fare, aspettando di trarre giovamento dall’odio che suscitavano nel popolo gli attentati.

Tuttavia i primi anni di carcerazione li ho passati in un carcere circondariale, dove di cose buone ve ne erano ben poche. Ero lontano da casa, senza colloqui e senza telefonate. Conoscevo poco la lingua e i lunghi anni in attesa della condanna li ho trascorsi in assenza di qualsiasi attività alternativa alle poche ore di passeggio, che facevo in una vasca di cemento in compagnia di cinquanta persone. Le uniche cose che avevo erano un televisore perennemente acceso in una cella sovraffollata e i tre pasti immangiabili. Le cose buone le avrei viste successivamente, quando sono stato trasferito in un carcere penale. Così come anche l’autore del libro racconta, nel carcere penale le possibilità di creare delle condizioni decenti di vita sono maggiori. Le persone, di fronte a prospettive fatte di lunghi anni di carcere, sono più predisposte a cambiare i propri valori, accettano più facilmente di sostituire un’attività culturale, di formazione o lavorativa, alle sbronze, all’autolesionismo, al ribellismo viscerale. Basta che ci sia la volontà da parte delle istituzioni di creare le condizioni favorevoli e offrire queste opportunità al detenuto che desidera crescere, che vuole cambiare.

Arrigo Cavallina racconta con particolare entusiasmo la sua attività nel carcere penale, che diventa una vera e propria missione per costruire tutto ciò che è possibile e immaginabile in una galera. Lui e i suoi compagni di dentro e di fuori organizzano laboratori di teatro, fondano una cooperativa dal nome “5 e novanta”, trovano i finanziamenti per produrre un lungometraggio su una storia pensata collettivamente da detenuti, fondano un giornale carcerario che si chiama “Ora d’aria” con lo scopo di dare un’immagine più vera e complessa di quello che c’è in carcere e di sensibilizzare il territorio a una maggior partecipazione sui temi del sociale. Passi da gigante per raggiungere un obiettivo comune: affermare la validità della riforma penitenziaria, dimostrare che funziona e che tanti detenuti riescono non solo a cambiare, ma anche a ricostruirsi una vita onesta.

 

Un libro che mi ha insegnato che si possono prendere le distanze dall’illegalità anche senza essere pentiti stipendiati

 

Anche io alla fine, dopo anni di sofferenti trasferimenti da un carcere all’altro, legato dentro la cella buia del furgone blindato, sbattendo da tutte le parti ad ogni curva e vomitando ad ogni frenata, anch’io ho trovato nel carcere penale la mia salvezza dall’abbrutirsi, dall’essere schiacciato da una pena insensata. A distanza di vent’anni dalle prime attività organizzate dai compagni di Arrigo ho potuto anch’io frequentare gli stessi corsi, insieme ad altri compagni di pena produciamo una rivista che ha gli stessi obiettivi del loro giornale; continuo a dare esami universitari all’interno del carcere, e partecipo a parecchie altre attività, trovando così la possibilità di impegnare le mie energie in modo più dignitoso, di sfruttare il tempo per crescere personalmente, ma anche facendo qualcosa di utile per gli altri. E soprattutto, attraverso questo mio impegno dimostro quotidianamente che si può cambiare, che si possono prendere le distanze dall’illegalità anche senza essere pentiti stipendiati.

Certo che, se a quei tempi i benefici previsti dalla riforma Gozzini erano un’istituzione ancora fragile, oggi tutto si sta progressivamente deteriorando, dopo le continue valanghe di leggi emergenziali. Arrigo in questo suo diario ricorda il caso di “Johnny lo zingaro” che scappa dal permesso, e che poi spara e uccide prima di essere arrestato. Anche in quella occasione la solita campagna di stampa contro i permessi mette in croce il giudice di sorveglianza.

Arrigo Cavallina in quell’occasione, in una lettera ai principali quotidiani italiani, riesce a spiegare efficacemente che la riforma non è stata decisa dal parlamento per il sollazzo dei detenuti, ma che è uno strumento di interesse sociale e anche di difesa dei cittadini. “O si stabilisce che ogni condanna è a vita e nessuno uscirà mai dal carcere, o ci si preoccupa di “curare” i colpevoli, oltre che punirli, per la loro trasformazione positiva e il loro reinserimento sociale. Solo così si evita di restituire alla società delinquenti convinti e incattiviti… “Johnny lo zingaro” sarebbe comunque uscito relativamente presto a fine pena; senza un tentativo di incoraggiarlo a cambiare valori, quel che poteva succedere (ed è purtroppo successo) sarebbe sicuramente successo. Nessun progresso è indolore, da ogni esperimento può uscire prima o poi una delle poche palline nere. Ed è subito evidente, terribile il danno. Ma quanti altri danni sono stati evitati?”

Ecco, niente può sembrare più attuale che questa lettera oggi, nel 2006, quando per via di alcuni episodi di sangue e dopo una lunga campagna da parte dei mass media contro i benefici della legge Gozzini, con accuse ai Magistrati di Sorveglianza di essere troppo generosi, si sono ritrovati esclusi da questo istituto prima la gran parte dei detenuti stranieri, e poi i recidivi (legge ex-Cirielli). Vale a dire che già una parte consistente della popolazione detenuta non può più usufruire di quei benefici che detenuti come Arrigo Cavallina e i suoi compagni hanno difeso con tanti sacrifici. E la cosa diventa ogni giorno più preoccupante, di fronte al fatto che tutte le forze politiche sembrano condividere queste scelte di troncare gli effetti di una legge che è sempre stata considerata un esempio di civiltà.

Oggi più che mai è diventato difficile lavorare per ricostruire una speranza, mentre si ha quasi la certezza che si verificherà quello che già prevedeva nella sua lettera Arrigo, “un ritorno a quel clima carcerario fatto di sangue e di rivolte che solo l’intelligenza riformatrice ha saputo estirpare”. Ho letto questo libro riscoprendo in ogni sua pagina che le mie sofferenze non sono nuove, e che altri le hanno passate prima di me; ma ho anche visto com’era il carcere una volta e ho capito che cosa significherebbe ritornare al periodo di pre-riforma. Perciò penso che tutti dovrebbero leggerlo per prepararsi mentalmente a quanta miseria, a quanta violenza e a quanto sangue dobbiamo aspettarci di rivedere nelle carceri italiane tra pochi anni, se le cose non cambiano.

 

 

Precedente Home Su Successiva