Andare ai resti

 

Andare ai resti

Storie di anni nei quali il carcere diventa il luogo di incontro e di produzione politica e culturale. Le carceri degli anni Settanta attraverso testimonianze e racconti di banditi, rapinatori, guerriglieri

 

di Stefano Bentivogli, aprile 2006

 

Se l’obiettivo dell’inchiesta di Emilio Quadrelli era quello di tracciare la storia del carcere italiano degli anni Settanta, certamente questo libro lo raggiunge, e lo fa attraverso alcuni spaccati di vita dei banditi e dei guerriglieri che degli anni Sessanta/Ottanta furono i protagonisti, fuori e dentro le carceri, di fenomeni come il terrorismo eversivo e le gang di rapinatori, le cosiddette batterie. Il libro è una raccolta di interviste e testimonianze di donne e uomini passati per la galera in quel periodo, storie di anni nei quali il carcere diventa per loro il luogo di incontro e di produzione politica e culturale. Ma probabilmente i risultati che quest’inchiesta raggiunge sono molteplici e variegati, come variegata fu quella stagione che vide la nascita di nuovi soggetti criminali e politici, il loro incontrarsi e contaminarsi a vicenda dentro le carceri italiane, il loro lasciare dentro e fuori delle galere dei segni ancor oggi visibili.

Andare ai resti, giocarsi tutto nel gergo pokeristico, era un po’ più di una modalità organizzativa nell’esecuzione dei “colpi”, delle rapine, era una filosofia di vita, per la quale diventava un segno d’identità vero e proprio portare sempre tutto al limite, e prima di ogni altra cosa i valori di amicizia e solidarietà tra pari, ma anche il rifiuto del potere, delle gerarchie della “vecchia malavita tradizionale”, quella che finiva invece per riproporre gli stessi sistemi di subordinazione e sottomissione del potere costituito.

Si tratta veramente di soggetti nuovi, perché se da una parte i guerriglieri, i politici, in questi anni raggiungono l’apice della loro espressione sia dal punto di vista politico che da quello militare, per i “bravi ragazzi”, quelli delle batterie, abbiamo a che fare con persone che fanno della pratica illegale uno stile di vita, fuori completamente dalle logiche della malavita tradizionale, fuori dai ruoli tradizionali della famiglia e del tradizionale rapporto uomo donna, uno stile di vita tutto giocato sull’idea del conflitto inevitabile, della sfida senza calcoli di opportunità, dell’agire senza mai guardarsi alle spalle.

Per chi conosce il carcere e l’illegalità di oggi sembrano quasi favole, e si finisce per rimanerne affascinati se le si mette a paragone con la realtà presente. Sicuramente nella rievocazione del passato si corre un po’ il rischio di mitizzare i fatti, di omettere le parti meno piacevoli, ma nonostante questo il paragone rende evidente l’assenza di storie di vita significative di oggi rispetto al fiorire di vicende particolari che caratterizza invece gli anni Settanta dando l’immagine di una realtà in grande movimento.

Quello che più mi ha colpito è che, nelle ricostruzioni fatte nella redazione di Ristretti Orizzonti sulla storia del carcere italiano, al periodo dei rapinatori e dei guerriglieri si faceva seguire il successivo comparire sulla scena degli stranieri e dei tossicodipendenti. In realtà il cambiamento dentro le carceri comincia un po’ prima ed ha a che fare con una progressiva egemonia negli Istituti della criminalità organizzata. Questa, per il suo sistema di potere gerarchico, per la sua abitudine a trattare e ad andare spesso a braccetto col potere costituito, per il suo riproporre schemi classisti all’interno della popolazione prigioniera, non poteva che entrare presto in conflitto con i ragazzi delle batterie ed i guerriglieri, soprattutto quelli slegati dalle grandi organizzazioni politico-militari, e con i quali era quindi più facile un rapporto di contaminazione ed influenza reciproca.

Arriva poi il periodo delle carceri speciali, ovvero la creazione di un sistema talmente blindato che fa perdere la testa a chi vi è sottoposto. Quella che era una pratica tipica della malavita, la caccia all’infame, al collaboratore, che in alcuni casi finiva invece con l’essere l’eliminazione del nemico interno, per certi detenuti politici si chiama processo di epurazione. Il clima di terrore e di sospetto tra i detenuti diventa la questione più importante e le attività più praticate sono le indagini interne, i processi con tanto di tribunali interni, gli omicidi dentro le carceri. Più che i traditori vengono spesso eliminati, in un clima di follia totale, gli avversari più deboli, quelli fuori dall’egemonia del Partito Armato.

A questo punto, prima ancora che le sezioni si riempiano all’inverosimile di stranieri e tossicodipendenti, arriva la riforma, e poi la legge Gozzini, quella che per alcuni è considerata una conquista, per altri una via d’uscita, per altri ancora la fine in termini di morte culturale e sociale di persone e di un mondo, che non era abituato a mettere in conto una tregua, un’eventuale passo indietro, una qualsiasi forma di mediazione.

Dentro la riforma la malavita organizzata in qualche modo ci sguazza, lo scambio, la mediazione sono mezzi che pratica con estrema padronanza. Diverso è per i “bravi ragazzi, quelli delle batterie”, ai quali manca il terreno sotto i piedi, in carcere comincia l’era dell’isolamento, anzi dell’autoisolamento: principi, valori, su cui giocarsi tutto sono ormai patrimonio di pochi.

E fuori è come dentro, altro che il carcere  slegato da quello che succede nella società dei liberi! E di ciò al momento di uscire ci si rende conto subito. L’illegalità veramente diffusa è quella praticata legalmente, come il lavoro precario e sempre meno tutelato, è quella che va per la maggiore. Le “dure” (nel gergo della malavita, le rapine), quelle vere non hanno più i soliti attori principali, la gran parte di loro ha scoperto il mercato della cocaina, un mercato molto redditizio e “pulito”. Con un piccolo giro di clienti, ovviamente del ceto benestante, si guadagna bene e soprattutto si corrono pochi rischi. Chi ha ancora il gusto del brivido, del tentare l’impossibile non ha più spazio, il crimine ormai fa i suoi conti ed impara a farli bene.

Per chi poi si trova a rientrare in carcere è uno shock, non ritrova più il carcere della solidarietà tra pari, della lealtà, dell’opposizione alle gerarchie, al potere, agli sbirri, ma trova piuttosto alcool, psicofarmaci, eroina. Altro che pensare ad andare a casa, come si faceva negli anni Settanta concentrandosi solo sull’idea di una possibile evasione, il problema ora è solo fregarsi l’uno con l’altro per prendere punti con la Direzione.

E poi arriva l’eroina che miete vittime fuori dalle carceri e crea antagonismo dentro, tra i tossicodipendenti ed i bravi ragazzi non corre buon sangue, i primi sono troppo in mano a chi ha il potere, non ci si può fidare. Con gli stranieri invece abbiamo a che fare con la povertà totale, spesso con culture che non mettono in conto il conflitto col potere bensì, al massimo, quel minimo di illegalità che consente di raccattare le briciole degli altri, e poi tanta divisione, soprusi sui più deboli, un universo di diversi non organizzabile su nulla. Le testimonianze dell’ultima parte del libro sono ovviamente le meno “belle”, rappresentano in modo abbastanza fedele l’oggi, nei quartieri e dietro le sbarre, una realtà che ci sforziamo ogni giorno di capire nella sua complessità.

 

Ma non è detto che i detenuti di oggi pieghino sempre il capo ad un sistema di omologazione

 

Emilio Quadrelli con questa ricerca sulle carceri, che parte col racconto del periodo dei movimenti collettivi all’interno dei quali emergono storie individuali “forti” e si conclude con i recenti anni dell’individualismo, dove invece è proprio l’individuo ad annegare insieme al senso di appartenenza ed ai valori conseguenti, finisce per fare una lettura che si fonda sulla teoria del conflitto di classe. In questo senso la richiesta di certezza della pena e la conseguente pratica di carcerizzazione in atto oggi non vanno in direzione opposta alla riforma Gozzini, ma sono visti come il suo completamento. L’umanizzazione delle carceri, il trattamento, la risocializzazione sono allora considerati nient’altro che pratiche atte a rimettere i “disagiati”, i deviati, i nuovi proletari e sottoproletari insomma, in condizione di  produrre, di rientrare nel sistema di produzione capitalistico neoliberista.

E qui il ricercatore si ferma, scontentando probabilmente qualcuno, me compreso, perché, pur essendo l’inchiesta appassionante, l’analisi convincente, resta un po’ l’impressione che alla fine tutto debba rientrare solo nella logica dei rapporti di forza e basta. È una lettura che non apre a prospettive interessanti per il futuro della realtà carceraria, e che finisce per rendere inutile qualsiasi volontà di agire anche nel presente, perché appare evidente che nella gran parte dei casi chi continua a fare qualcosa ed a credere nel cambiamento, ottiene al massimo un grande dispendio di energie a fronte di probabili risultati quali la riduzione del danno da carcere e basta.

Ma forse i segni che restano indelebili, di quegli anni raccontati da Quadrelli, sono la capacità di andare avanti anche quando il conflitto si presenta con rapporti di forza svantaggiosi o irrimediabilmente perdenti, perché talvolta la sola capacità di resistere alle sconfitte annunciate, il non arrendersi su questioni di principio, su valori sui quali non si possono opportunisticamente “fare i conti”, ha comunque un senso. E poi conviene continuare ad osservare le nuove generazioni che arrivano in carcere e che non sono, automaticamente e cinicamente, come ce le immaginiamo, sono persone nuove e non è detto che pieghino il capo ad un sistema di omologazione, come non è detto che tra loro non ci sia chi, a modo suo, sia pronto ad “andare ai resti” per garantirsi uno spazio che sia il suo, e non quello che il sistema di produzione gli chiede supinamente di accettare.

 

 

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