La strage continua

 

Le pene sono ritenute sempre troppo brevi, troppo “generose”

Alcune riflessioni sugli omicidi colposi, a margine di Strage continua

Mi lascia perplesso quando la prevenzione si intreccia con richiesta di giustizia più severa

 

di Vanni Lonardi, febbraio 2009

 

Sono tempi strani quelli di oggi. Nei mesi scorsi le prime pagine delle cronache giornalistiche, soprattutto televisive, non facevano altro che trasmettere bollettini di guerra, che avevano al centro gli incidenti stradali e i cosiddetti omicidi colposi, arrivando ad etichettarne gli autori come i “nuovi mostri”. Si è invocata all’unanimità una giustizia più severa per “ubriachi e drogati” al volante che continuano indisturbati ad ammazzare senza scontare un giorno di galera, e le sentenze “esemplari” non sono tardate ad arrivare, classificando in alcuni casi il reato come omicidio volontario e prevedendo così pene di 10 e 16 anni di carcere. Però di prevenzione non ho mai sentito parlare. Ma da qualche tempo a questa parte, da quando cioè la nuova emergenza è costituita dagli stupri, sembra che tali incidenti siano scomparsi, hanno di fatto perso di interesse, non reggono più “mediaticamente”, le TV ne parlano decisamente meno.

Strage continua è un libro che tratta di questo argomento, ma non vuole essere un’inchiesta, quanto piuttosto un viaggio verso una responsabilità condivisa. I morti sulla strada continuano ad essere ogni giorno circa 16, così almeno dicono le statistiche, ma sembra che l’unica via d’uscita sia quella di innalzare le pene allo scopo di porre un deterrente al fenomeno. Nella lettura del libro ho avvertito fortemente una frustrazione generale per la mancanza di giustizia. È molto toccante una delle testimonianze iniziali, dove un padre di famiglia racconta il dolore per la perdita di un figlio, travolto da un pirata della strada che non ha rispettato la precedenza, e trovo molto istruttivo che tali esperienze siano raccontate nelle scuole, affinché i ragazzi capiscano qual è il valore della vita, cosa significa la perdita di una persona.

Mi lascia invece perplesso quando la prevenzione si intreccia con la richiesta di una giustizia più severa: lo stesso racconto del padre termina quando lui traccia sulla lavagna il numero 2. “Gli avranno dato 2 anni”, dice un ragazzo. “No, 2 mesi, 2 mesi di sospensione patente”, è stata la risposta, seguita da un comprensibile, lungo No indignato dei ragazzi. Quello che mi sembra passare è un messaggio che non riguarda più la prevenzione, ma come un invito a stare attenti che lì fuori ci sono i mostri che guidano ubriachi e irrispettosi del Codice stradale e, anche se uccidono qualcuno, se la cavano allegramente perché in galera non ci finiscono mai. Ovviamente il ragazzo tende a immedesimarsi nella vittima, a provare un senso di ingiustizia profonda, ma ha ben capito che la persona al volante potrebbe anche essere lui o il fratello o il genitore? A me sembra che la cosa che più colpisce rischia di essere non più la causa dell’incidente, ma la sentenza di condanna per il colpevole, che è sempre considerata inadeguata, troppo generosa, troppo lassista.

Il libro fa poi riferimento all’Associazione famigliari e vittime della strada, costituita per dare un sopporto alle vittime, un sostegno nel momento difficile per far capire che non si è soli nel dramma. È una associazione a cui, per la ricchezza della sua esperienza, è stato riconosciuto un ruolo importante in materia di sicurezza stradale, e che si è fatta portavoce di diverse proposte parlamentari. Quello che però non condivido è il duplice ruolo che ha assunto specialmente negli ultimi tempi, costituendosi anche come parte civile nei processi penali. Se all’associazione sta a cuore la sicurezza dei cittadini, perché non si parla più spesso di quanto poco faccia lo Stato per la prevenzione? Nel triennio 2004-2006 lo Stato non ha investito nel settore la miseria di 1 centesimo, zero assoluto. Nel triennio 2007-2009 invece ha stanziato novanta centesimi per cittadino, mentre negli altri Paesi europei si va dai 5, agli 11, ai 20 euro!

Invece per quanto riguarda i processi si sente, eccome, l’influenza degli avvocati dell’associazione, alcune frasi mi sembrano eloquenti: “Ogni vita persa sulla strada rappresenta una sconfitta, un danno. Si chiede una pena importante come deterrente. Se il colpevole non viene punito, difficilmente potrà essere rieducato”. Oppure “l’affidamento ai servizi sociali sarebbe consistito in una vera e propria presa in giro della giustizia”, riferendosi a un caso in cui un ragazzo veniva messo agli arresti domiciliari.

 

Il labile confine tra giustizia e vendetta

 

I familiari della vittima hanno tutte le ragioni per attutire il loro dolore chiedendo che quella persona non sia più messa in condizioni di nuocere ulteriormente, ma un’associazione che accumula continuamente la rabbia delle vittime non rischia qualche volta di trapassare quello che è il labile confine tra giustizia e vendetta? La prevenzione, infatti, dovrebbe riguardare anche la rieducazione dell’autore del reato, affinché capisca e si assuma la responsabilità del gesto, e di conseguenza diventi una sicurezza non solo per lui ma anche per gli altri. Se lo si mette in carcere si risolve ben poco dal punto di vista della sua riabilitazione, anzi è probabile che cominci addirittura a sentirsi una vittima.

Io sono convinto che sarebbe più educativo allargare il quadro delle misure alternative al carcere, riservando, proprio in questi casi, un percorso che passi per un servizio di assistenza nei centri di riabilitazione per traumatizzati, magari con la sospensione della patente per il periodo di “riabilitazione”. Nel ragazzo si creerebbe così una forte presa di coscienza, un’assunzione di responsabilità che in carcere non ci può certo essere, se si è lasciati tutto il giorno su una branda a poltrire, in una pena senza senso e senza utilità. Non a caso, la recidiva passa proprio per la mancanza di questo percorso rieducativo, che non c’è sia se la pena è troppo blanda, sia se si mette la persona in galera inutilmente.

Una misura come la “messa alla prova” sembra però non far breccia nell’opinione pubblica, a causa di una informazione che ha solo l’interesse a esaltare il caso eclatante, senza proporre mai una critica costruttiva. Tra l’altro i titoli sono sempre simili: “ubriachi al volante… avevano assunto cocaina… trovato con un tasso alcolico elevato e con presenza di sostanze…”. E su questi casi si sono inasprite le pene considerando “colpa grave” la guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. È già stata considerata come “dolo volontario” in alcuni casi. Sembrerebbe invece una “colpa normale” il fatto di guidare a velocità folli, o la distrazione a causa del cellulare o della sigaretta, come se in questi casi si trattasse di un omicidio non voluto, a differenza del mettersi alla guida ubriaco. A mio avviso sono tutte quante eventualmente delle aggravanti, ma il nocciolo della questione sta nel fatto che l’unico rimedio per impedire questi atteggiamenti, pericolosi per se stessi e per gli altri, consiste in una vera prevenzione che nasce da una educazione civica e morale impartita già a partire dalle scuole e dalle famiglie, portando a conoscenza anche da vicino quelle esperienze strazianti che i famigliari delle vittime della strada hanno purtroppo già alle spalle. Il ragazzo dovrebbe imparare che non ci si mette alla guida ubriachi o rispettando i limiti solo perché si rischiano i 10 anni di galera, ma perché in quel modo si mette a repentaglio la propria vita e quella degli altri, con il rischio di causare un dolore a quel punto irreparabile.

 

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