Piccoli omicidi

 

Piccoli omicidi, al di là della cronaca

 

di Graziano Scialpi

 

I meccanismi che possono portare un "bravo ragazzo" a compiere delitti orrendi

È un libro strano Piccoli omicidi di Massimo Picozzi, psichiatra, criminologo e, tra le altre cose, consulente dell’Unità per l’analisi del crimine violento della Direzione centrale della polizia criminale. Nella sua carriera è stato chiamato, di volta in volta dal tribunale per i minori o dalla procura, ad accertare la capacità di intendere e di volere e la pericolosità sociale dei giovani autori dei crimini più efferati e clamorosi degli ultimi anni. Eppure chi si aspetta rivelazioni clamorose sulla vicenda di Erika e Omar, sull’assassinio di Chiavenna o sulla storia di Roberto, il sedicenne che uccise con una coltellata la fidanzatina Monica a Sesto San Giovanni, rimarrà deluso.

Poche e misurate prese di posizione, nessuna indiscrezione. Non è questo lo scopo del libro. In un momento in cui sembra essere scoppiata la moda della trasformazione della realtà in fiction, della banalizzazione di studi scientifici, in una situazione in cui le leggi sulla tutela dei minori, con i volti dei giovani assassini seminascosti dai pixel,

che paradossalmente circondano di un alone di mistero i protagonisti della cronaca, trasformandoli in eroi negativi, Picozzi vuole spingere a chiedersi il perché. L’esame dei cinque delitti narrati nel libro, nelle intenzioni dell’autore, dovrebbe suscitare stimoli, suggestioni e interrogativi profondi in quanti, di fronte a questi drammi, si dividono in colpevolisti e innocentisti, in forcaioli e perdonisti come se si trattasse di un evento sportivo.

In un solo caso Picozzi prende una posizione e rivela un particolare sfuggito alla grancassa mediatica: quello di Erika De Nardo. La ragazza, secondo l’autore del libro, soffre di un grave disturbo della personalità e la condanna a sedici anni di reclusione non è professionalmente condivisa. Secondo Picozzi la giovane avrebbe dovuto essere affidata a una struttura riabilitativa, non al carcere. Perché, ferma restando la necessità di una punizione, questa deve essere compresa per avere un significato. L’unica certezza è che un giorno Erika tornerà libera, quanto sarà consapevole dei suoi atti perché è stata curata è tutto da dimostrare. A sostegno della sua tesi, l’autore rivela che, mentre le televisioni erano impegnate a sbandierare la presunta storia d’amore tra Erika e un ragazzotto veneto, le affermazioni di odio nei confronti di Omar erano fasulle. Ancora a mesi dalla condanna, Erika credeva di poter ricostruire la coppia e che l’amore con Omar non era finito: uno dei segni più evidenti della patologia della coppia.

Ogni caso viene raccontato asetticamente, usando fonti giornalistiche. Ma ogni caso viene utilizzato per fare luce sui meccanismi che possono portare un bravo ragazzo a compiere delitti orrendi. Illuminante è la spiegazione sulle dinamiche relazionali di gruppo che possono fungere da catalizzatore esplosivo per malattie mentali non invalidanti, soprattutto quando la personalità del giovane è fragile e il suo bagaglio emotivo povero. Un altro atteggiamento attaccato da Picozzi è quello che liquida la malattia mentale come un comodo alibi che consente di sfuggire alla giusta punizione. La malattia mentale è di per sé una punizione, una condanna. Ma, a differenza di quelle comminate dai tribunali, è una condanna che non ha un termine e dalla quale difficilmente si può guarire. Il malato mentale le sbarre le ha dentro e non può evadere. Altro punto interessante è la difficoltà che gli stessi specialisti incontrano nel distinguere tra i sintomi di un disturbo della personalità e le manifestazioni di una crisi adolescenziale. Per cui la risposta alle domande Era possibile accorgersene prima? Si poteva fare qualcosa? non può che essere negativa.

Il monito del libro è semplice: attenzione, il processo penale minorile italiano è modernissimo e, anche se presenta difetti ed è perfettibile, non deve essere cancellato sull’onda di un’opinione pubblica superficialmente informata. La strada maestra deve essere non quella della punizione, ma quella della comprensione del disagio e, per quanto possibile, della prevenzione delle sue conseguenze più tragiche.

 

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