La città dell’oblio

       

La città dell’oblio, una "storia di carcere"

 che è anche un viaggio inquietante nella mente umana

di Réné Frégni

Meridiano Zero € 11

 

Del romanzo La città dell’oblio pubblichiamo due recensioni, perché si tratta di un romanzo "di carcere" che mette in moto in chi lo legge, e conosce "da dentro" la realtà della detenzione, emozioni, e anche riflessioni sulle quali vale la pena soffermarsi più a lungo del solito.

 

La città dell’oblio è un viaggio dentro quello che della mente umana sfugge ad ogni spiegazione.

Il libro di Réné Frégni è uno dei più ben scritti che ho avuto modo di leggere, tra quelli che hanno come soggetto il carcere. Frégni conosce il carcere perché ci lavora, è un insegnante che approda a questo lavoro dopo una vita molto travagliata. Ed è soprattutto uno che ha imparato a decifrare l’animo, i sentimenti, le emozioni inespresse dei suoi "scolari" detenuti.

La prima parte del libro è autobiografica, riprende molto dell’esperienza di vita dello scrittore, trasformandola piano 

piano in uno strano miscuglio tra realtà e fantasia, in cui la forza narrativa non cala mai. La trama della storia è ben congegnata, con colpi di scena che mantengono il lettore in un clima di alta tensione sino all’ultima pagina. La storia di un detenuto, Gabriel Bove, cattura in particolare l’attenzione del protagonista, insegnante di scrittura in carcere come lo è stato l’autore, che entra in punta di piedi nel mondo popolato di ricordi ossessivi e di rimpianti del suo allievo, conosce una dimensione in cui il pensiero e la realtà spesso sono molto distanti tra loro, costruisce lui stesso un piano di evasione per Bove che diventa un reticolo inestricabile in cui resta impigliato, e chissà se non fosse proprio quello che cercava.

"Come raccontare i giorni, le notti, le stagioni dietro i muri di una prigione, a chi sicuramente non li valicherà mai, come descrivere gli uomini che fumano, mangiano, ridono, si insultano, si incrociano mettendosi la mano sul cuore in segno d’amicizia, aspettano, seduti su panchine di pietra, l’era del rancio, o la fine del tempo?": Frégny ci riesce, i suoi personaggi, a volte inquietanti carnefici, a loro volta prigionieri e vittime del loro passato e del loro stesso delitto, lo fanno per lui, trasmettendo l’ansia del carcerato.

 

Ma chi sono gli abitanti della città dell’oblio?

"Molti sono dei veri delinquenti ma non sta a me giudicarli, sono dei ragazzi pericolosi che hanno scelto il lusso, il rischio e la sofferenza. Dico ragazzi, perché sono loro a spingere il loro destino in terre d’avventura. Falsari, rapinatori di banche, furgoni e treni postali, contrabbandieri, corrono su ponti d’oro verso il proiettile di grosso calibro o la cella".

 

Ho sentito il bisogno di scrivere immediatamente, non appena terminata la lettura della bozza del libro. A descrivere le sensazioni che mi ha dato non faccio nessuna fatica, è stato in alcuni passi come guardarmi allo specchio. Leggere quelle sensazioni, così fedelmente descritte, con le quali convivo da ventidue anni, mi ha dato un brivido alla schiena.

Tutti inseguiamo un sogno, e spesso sono sogni non realizzabili. Il nostro dibatterci, la nostra ostinazione a reiterare azioni delittuose, nella stragrande maggioranza dei casi conducono in una cella di un penitenziario.

A volte sono delle autentiche fughe da realtà che non ci piacciono e che troviamo ingiuste, diventando per contrastarle noi stessi ingiusti, nei confronti degli altri, di chi ci vuole bene, di noi stessi, impedendoci con i nostri atti di vivere una vita normale.

Dopo aver letto questo libro mi sono chiesto: "Cos’è normale? Dove inizia l’irrazionale?".

Una possibile risposta si può forse trovare tra le righe di questo romanzo: "Non c’è nulla di più tragico ed emozionante che un piccolo sole invernale sulla facciata di una prigione, la domenica". Oggi cinque marzo 2000, c’è un flebile sole che penetra tra le sbarre, è delizioso... ed è domenica.

 

Nicola Sansonna

Ci sono detenuti, per i quali il carcere è il minore del mali, la pena più lieve

Sono i condannati per omicidio, come il protagonista del romanzo di Réné Frégni

 

C’è, al centro della narrazione del romanzo di Frégni, il complesso rapporto tra il protagonista (l’insegnante, alter ego dell’autore) ed uno studente dal comportamento inquietante (la cui figura è ispirata ad un internato del manicomio criminale, conosciuto dall’autore), che segue gli incontri in disparte, chiuso in un silenzio assoluto, e poi scrive testi allucinati, che sgomentano chi li ascolta.

L’insegnante è affascinato da quest’uomo e s’interessa a lui fino al punto da andarlo a trovare in cella, dove scopre il suo talento artistico di pittore ma anche tutta la gravità della sua follia: ossessionato dal ricordo della donna uccisa, crede che lei sia tornata, invisibile agli altri, per vivere con lui.

Da questo momento, la storia in un certo senso si stacca dalla realtà per seguire la strada del romanzo: l’insegnante organizza l’evasione del suo amico ed il piano si realizza senza intoppi, ma i guai arrivano in seguito…

 

Non sono, certamente, un esperto di psicologia criminale, però il fatto di aver vissuto (e di vivere) in prima persona condizioni simili a quelle che descrivo, mi rendono in grado di capire sfumature difficili da cogliere dall’esterno. In questo romanzo, ho trovato un’intuizione davvero importante, che difficilmente è alla portata delle persone che non conoscono il carcere veramente da vicino: l’idea che per alcuni carcerati la detenzione sia il minore del mali, la pena più lieve.

Questi sono i condannati per omicidio, in particolare se hanno commesso il delitto in ambiti "privati": tra coniugi, amanti, familiari e amici. In generale, tutte le persone colpevoli di omicidio sono maggiormente consapevoli della propria colpa e, quindi, di dover subire una punizione, rispetto ai condannati per reati di minore gravità: il fatto è che persone che, come me, escono da una esperienza del genere, la detenzione non la vivono come un’ingiustizia e riescono a sopportarla meglio, anche se non certamente ad accettarla con rassegnazione.

Ovviamente, non per tutti questo corrisponde alla realtà, ma il fatto stesso che, proprio tra coloro che hanno le pene più elevate, si registri il minor numero di autolesionismi, suicidi e, perfino, evasioni dai permessi, dovrebbe suggerire che è "più" di un’ipotesi: vent’anni di pena, per un omicida, sono meno gravosi che cinque per un piccolo spacciatore.

Chi ha commesso reati di minore gravità, spesso, non riesce a vedere se stesso come un "criminale", meritevole di essere sottoposto ad una pena, quindi percepisce il carcere come una imposizione indebita e soffre la detenzione in maniera spropositata.

La differenza sta, appunto, nella consapevolezza di aver fatto del male a persone reali, vicine, di aver visto in volto la propria vittima (o le proprie vittime) e, comprensibilmente, il senso di colpa è maggiore se questa persona era conosciuta, o addirittura legata da una passione amorosa, come accade nel romanzo di Frégni.

Un meccanismo che non scatta, invece, quando le vittime sono lontane, tanto da apparire entità astratte e non persone reali: il trafficante di droga, ad esempio, non vede il "tossico" che muore di overdose, non vede le madri picchiate dai figli, in cerca di soldi per la "dose", o le persone scippate e trascinate sull’asfalto.

Lui, in questo modo, può sentirsi un "commerciante", non un criminale: se le persone muoiono di overdose, è perché lo hanno voluto loro, nessuno le ha costrette a drogarsi…

Ancora più complessa è la condizione (ed il rapporto con la pena) delle persone che commettono reati connessi a situazioni di particolare disagio psicologico o sociale: dalla tossicodipendenza, alla povertà estrema, alla vita in contesti di "rifiuto culturale" delle regole stabilite dallo stato.

In questi casi, spesso, il condannato sprofonda nel vittimismo e, per certi aspetti, ha ragione, perché l’emarginazione è senz’altro favorita, se non sempre prodotta, dalle ingiustizie sociali.

Ma il punto è un altro: se il carcere è sopportato meglio da chi ha colpe più gravi (anche senza cercare i casi psichiatrici), vuol dire che la coscienza trova, proprio in questo luogo, la maniera di emergere, di farsi ascoltare.

Il rischio è, semmai, che il senso di colpa diventi un’ossessione e la persona condannata cominci ad essere perseguitata dai propri "fantasmi", come accade al personaggio del libro: situazioni che portano davvero alla pazzia, anche nella realtà, non solo nella finzione letteraria.

 

Francesco Morelli

 

 

 

 

 

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