Gli sbagli su cui imparare

 

Gli sbagli su cui imparare

di Francesca Carcassi

 

Terzo classificato nel Concorso letterario "Parole oltre il muro", riservato ai detenuti del carcere "Le Novate" di Piacenza

 

Mi chiamo F. ho ventisette anni e sono detenuta nel c.c. di P. per spaccio; non ho mai conosciuto una vita diversa, poi che mia madre era tossicodipendente e mi ha iniziato alle droghe. In casa nostra c’era sempre un alternarsi di persone diverse: prostitute - spacciatori - tossici e io sono cresciuta così. Quando avevo undici anni sono andata in comunità con mia madre, a "Le Patriarche", in Francia, di conseguenza non ho potuto neanche finire le scuole dell’obbligo.

Eravamo all’estero, ogni tanto mia madre scappava e mi lasciava lì. Ho conosciuto molta gente di varia nazionalità, ma lì ho solo imparato come si usavano le varie droghe, come si tagliavano, le sensazioni che davano, etc., etc.

Quando ho compiuto i quattordici anni i miei nonni materni mi hanno preso in affidamento, io ho cominciato a lavorare, ma continuavo ad usare droghe. Di quel periodo ricordo che andavo agli after hour e ai rave party e passavo più di dodici ore sempre sotto l’effetto delle droghe.

Quando avevo diciannove anni mia madre è morta per overdose di eroina e lì è scoppiato qualcosa dentro di me, non capivo perché lei avesse scelto l’eroina invece di sua figlia, allora ho cominciato a iniettarmi in vena eroina e cocaina, spesso le mescolavo facendo degli speed - ball, usavo popper, mdma, acidi, ecstasy, ketamina, oppio, marijuana, haschish. Tutto quello che mi potesse far evadere da una realtà in cui non vivevo bene.

A ventuno anni mi sono sposata, anche lui era tossico, spacciavamo e andavamo agli after ed ai rave. È andata avanti così per tre anni, poi lui è morto in un incidente stradale mentre tornava da Milano, dove era andato a caricare eroina e cocaina. Dopo la sua morte sono come impazzita dal dolore, non mi interessava più niente della mia vita, ero diventata come un automa, ciò che mi faceva sopravvivere era l’eroina e tutte le altre droghe.

Dopo quindici giorni dalla morte di mio marito sono andata a vivere dai miei nonni, ai quali ho dovuto dire che mi drogavo: vedevo la disperazione nei loro occhi, ma non potevo farne a meno, era l’unica cosa che mi rimuoveva il dolore. Quando andavo in camera, loro sapevano che andavo a drogarmi, mi imploravano di smetterla ma non ci riuscivo, non uscivano neanche più di casa per paura che mi succedesse qualcosa.

Ricordo che un giorno sono entrati in camera mentre mi drogavo, mio nonno piangendo mi ha detto che non voleva perdere anche me, di provare ad andare al Ser.T., che loro erano con me che mi sarebbero stati vicini. Ho alzato lo sguardo e nei loro occhi ho visto un dolore e una sofferenza così grandi che ho deciso di provarci.

Subito è stata dura, ero convinta che se non mi drogavo ogni sei ore stavo male poi sono passata a dodici ore, ventiquattro ore, un mese e così via così ho ritrovato la voglia di vivere, però continuavo a spacciare. Ho fatto diversi viaggi: Tunisia, Cuba, Olanda, Costarica, e andavo spesso a Riccione, successivamente ho conosciuto un ragazzo cocainomane e lì si sono riaperte le porte dell’inferno, ho ricominciato con la cocaina e l’haschish, ero sempre fatta, mi sentivo la più forte, la più furba.

L’ottobre scorso sono andata in Messico: lì la cocaina, la marijuana e i funghi allucinogeni, o i pelote, li trovavi ovunque, entravi in un negozio e trovavi di tutto, però non ho visitato il Messico, così ho provato le droghe del Messico; il giorno del ritorno mi ero presa su un po’ di cocaina e di marijuana, ero fuori di testa; quando sono passata sotto il metal-detector mi sono ritrovata cinque agenti addosso mi hanno portata in una stanza e mi hanno trovato la "maria", ero talmente fatta che la cocaina ero andata a farmela in bagno con la porta aperta e non mi sono accorta dell’agente che mi seguiva; trovata anche quella io tra di me pensavo: "Sono italiana, non possono farmi niente", non immaginavo ancora quanto mi sbagliavo.

Mi hanno portato alla polizia investigativa, dove dovevo stare per due giorni e poi rientrare in Italia, il secondo giorno mi è stato detto di prepararmi che si andava a fare dei documenti per il mio rimpatrio. Mi hanno portata in un posto che sembrava una centrale di polizia. Gli agenti mi hanno detto che andavano a mangiare e poi sarebbero tornati a prendermi, nel frattempo però è arrivata un’agente donna che mi ha portata in una stanza dove mi hanno fatto le foto e preso le impronte digitali, la descrizione dei tatuaggi e i piercing, alla fine mi hanno fatto uscire all’aperto. Ero nel carcere di stato di Cancun! Ero sconvolta! Quando mi hanno portato nella cella ho visto che si dormiva sul cemento, non esistevano lenzuola, cuscini, materassi.

Il carcere non ti passava niente, nemmeno il sapone e la carta igienica. In una cella per tre ci si abitava in otto, con me c’erano tre ragazze ungheresi accusate di terrorismo, perché avevano cenato con tre messicani di cui uno aveva una pistola; una signora di ottanta anni arrestata perché nelle camere del suo appartamento affittato a dei ragazzi era stata trovata della marijuana.

In Messico le leggi sono molto rigide, se sei ubriaco ti arrestano per tre giorni e ti mettono ai lavori forzati e ti fanno dormire in un campo all’aperto; stessa cosa per le prostitute. Nel carcere le celle sono aperte dalle 6.00 alle 21.00, tutti insieme. Basta pagare le guardie e hai droga, alcool, sesso. La domenica può entrare chiunque, senza alcuna perquisizione.

Per i tossici non esiste il Ser.T. o il metadone, io che ero in astinenza, ma avevo i soldi, potevo comperarmi tutto quello che mi serviva, sì perché i soldi li tiene il detenuto, non ci sono controlli, c’è la corruzione più assoluta: il baratto tra i pesos e i dollari è molto ambito. Durante la giornata puoi telefonare a chiunque, anche dieci volte al giorno, basta pagare. Il mangiare te lo danno nei secchi con cui si lava a terra, l’acqua è razionata, non esiste il pane. Le celle sono infestate di scarafaggi e formiche. Inoltre ci sono tanti bambini nati e cresciuti in carcere che non conoscono vite diverse.

Le donne hanno le docce in cella, invece, i borracho = ubriachi e le pute = prostitute si lavano con l’acqua contenuta in arrugginiti fusti dell’olio. Io pensavo fossero tutti pazzi, ti arrestano anche se hai un solo spinello, presto mi sono resa conto che ero l’unica italiana. Dopo tre giorni mi hanno condotto in un posto dove ho incontrato il console italiano, che mi ha detto i miei capi di imputazione: attentato contro la salute e tentato traffico di droga. Mi ha consigliato di non parlare al telefono di quello che vedevo e succedeva all’interno del carcere e di non pagare la cauzione, perché non sarei stata rilasciata e in più denunciata di corruzione. Quando mi hanno riportata in carcere c’erano i fotografi e sono finita sul giornale.

Per l’astinenza non mi davano niente, per fortuna avevo i soldi e potevo comperarmi di tutto. I giorni erano lunghi e il caldo soffocante, c’era solo la droga per evadere da quell’inferno, chiamavo a casa sette, otto volte al giorno, nei rari momenti di lucidità mi guardavo intorno e piangevo. Il settimo giorno sono stata chiamata per il taglio dei capelli, mi hanno rifatto le foto, le impronte, la conta dei tatuaggi e poi mi hanno condotta in un’altra stanza, dove c’era l’avvocato. Quando ho visto che aveva in mano il mio passaporto mi è sembrato di impazzire, e mentre mi comunicava che venivo estradata in Italia ho cominciato a ridere e a piangere, ho baciato le guardie e il fotografo. Sono uscita nel campo dove c’erano tutti gli uomini e ho urlato "Me voy vuelvo a my casa". Sono andata a salutare le ragazze e ho pianto per loro, che era più di due mesi che erano lì, ed erano innocenti.

Successivamente sono stata portata da dieci agenti armati di mitra all’ufficio immigrazione, dove ho parlato con il console, che mi ha detto che mi avevano trovato un aereo; quattro ore dopo mi hanno fatto fare una doccia e mi hanno portato a mangiare, dopo mi hanno portata all’aeroporto e mi hanno lasciata in custodia alle guardie.

Sono stata imbarcata per prima e presa in consegna dal comandante, avevo dodici posti per me e una tenda che mi separava dai passeggeri. Con me c’era sempre un’hostess o uno steward o il comandante, non mi sembrava vero dormire sul morbido dopo otto giorni a dormire sul cemento. Quando siamo arrivati a Milano sono scesa per ultima e stata presa in consegna dalla polizia, mi hanno portata nei loro uffici dell’aeroporto, lì ho parlato con un ispettore che mi ha detto che sono stata molto fortunata, che loro hanno visto situazioni allucinanti, mi ha consegnato il passaporto, ero libera, poi sono arrivati i miei zii e mio nonno.

Li ho abbracciati e piangevo. Il viaggio verso casa sembrava interminabile, quando siamo arrivati ho salito le scale di corsa, per abbracciare mia nonna, poi sono andata a fare un bagno con l’acqua bollente. In otto giorni ero dimagrita tredici chili, non riuscivo a mangiare, mi dava il voltastomaco, ma ancora una volta pensavo di essere io la più furba.

La mia testa era già a Milano, con il pensiero della droga. Ma ero appena arrivata e mi imponevo di stare in casa, il mattino dopo mi sono presentata al Ser.T. per assumere il metadone, loro mi parlavano e io non li ascoltavo, ma il giorno dopo avevo già il rimpianto di non averli ascoltati. La sera di quello stesso giorno, infatti, andai a Milano per prendere cento grammi di eroina e venti di cocaina; ho impegnato tutto il mio oro, ma allora pensavo che avrei tirato su una bella somma.

In realtà, tornata a casa mi sono fatta quasi tutta la coca e il giorno dopo ho incominciato a spacciare: era il 7 novembre. Sono stata in giro tutto il giorno, alla sera rientrata a casa, ho suonato il campanello, salite le scale e bussato alla porta, mi ha aperto la narcotici. Avevano già trovato tutto, non scorderò mai quei momenti, soprattutto mia nonna che piangeva e mio nonno con il capo chino. Mi hanno portata in sala, il mio cervello lavorava ad una velocità pazzesca, ma cosa potevo dire? Mia nonna mi aveva già preparato la valigia, non era neanche due giorni che ero uscita di prigione e già ci rientravo, mi hanno abbracciato piangevano e mio nonno mi ha chiesto: "dove abbiamo sbagliato? Non erano loro che avevano sbagliato, ero io che avevo scelto una strada che mi avrebbe inevitabilmente portata alla morte!

La narcotici mi ha portato in Questura, sulla macchina pensavo "adesso apro la portiera e mi butto giù", ma non trovavo il coraggio, arrivati in Questura mi hanno interrogata! Gli stessi che anni prima arrestavano mia madre, ora arrestavano me; poi mi hanno portata a fare le foto e le impronte al piano di sopra, ancora una volta ho pensato: "mi butto giù" ma poi più forte è stato il pensiero "la mia vita non è finita, ho ventisette anni, posso ancora cambiarla".

Mi hanno portata in carcere, neanche due giorni che ero uscita dal carcere messicano e già entravo in quello italiano. Ora sono qui e ho in progetto la comunità, so che sarà difficile, ma non voglio essere la terza vittima della mia famiglia per colpa della droga, ho un numero nei morti per droga, sarà un percorso lungo, ma i miei nonni e i miei zii mi sono vicini, non sono sola.

 

 

 

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