Il tempo dei ricordi

 

Il tempo dei ricordi

di Mamo Ervin

 

Secondo classificato nel Concorso letterario "Parole oltre il muro", riservato ai detenuti del carcere "Le Novate" di Piacenza

 

Finita l’ora del corso di giornalismo, rientrai in cella ripensando al tema a cui siamo stati indirizzati quest’anno per scrivere il nostro racconto da presentare al concorso. "Il tempo dei ricordi" disse la nostra insegnante.

"Ricordi", questa parola ha aperto una tenda nella mia mente, una sorta di sipario a mostrarmi l’immagine, ormai indelebile nella mia memoria, di un caro amico. È il suo ricordo che rende così particolare questo periodo della mia vita, caratterizzato ancor più dal luogo di prigionia in cui sono rinchiuso da qualche anno.

Ero stato da poco arrestato e rinchiuso nel carcere di… insolitamente occupavo una cella da solo, non mi dispiaceva, ma ero ben consapevole che presto qualcuno sarebbe arrivato a dividerla con me. Purtroppo questo genere di albergo non rimane mai, tanto a lungo, con posti letto liberi. Infatti, poco tempo dopo, mi arrivò un coinquilino.

Ricordo il suo ingresso in cella, reggeva il suo cuscino, la coperta, le lenzuola, gavetta etc. Non appoggiò tutto subito sul letto, ma si fermò sulla porta, fece il giro della cella con gli occhi, poi li fermò su di me e disse "Ciao, io sono Leo", allungandomi la mano, "Io …." risposi, stringendola. Era un mio compaesano, scappato, come me, dall’Albania in cerca di una vita migliore.

Diventammo amici subito, era molto simpatico, mi faceva ridere. Nonostante il luogo in cui ci trovavamo, era come avvolto da un alone di euforia che lo rendeva sempre allegro. Gli piaceva parlare, lo faceva in continuazione. In poco tempo seppi tutto di lui, della sua famiglia, del suo passato, dei suoi progetti, ma soprattutto della ragazza di cui era innamorato e che aveva sposato. Amava sua moglie più di ogni altra cosa al mondo. Forse era l’immagine di lei, perennemente presente nei suoi pensieri, a dargli quel senso di felicità che lo accompagnava per tutto il giorno. Era davvero piacevole stare con Leo, quando eravamo insieme il tempo sembrava scorrere più velocemente; si inventava sempre qualcosa da fare, con lui non ci si annoiava mai. Sapeva anche ascoltare quando, a mia volta, raccontavo di me. Lo conoscevo da poco, ma mi bastava per considerarlo ormai il mio migliore amico.

Un giorno, inaspettatamente, mi dissero che dovevo essere trasferito in un altro istituto. Ho sempre pensato che essere in una prigione o in un’altra non cambia nulla, però quella volta ci rimasi davvero male. Staccarmi da Leo era un po’ come se m’infliggessero un’ulteriore pena da scontare. Leo mi aiutò a preparare la mia roba, cercava di fare delle battutine, di essere spiritoso, ma si vedeva chiaramente che stava male almeno quanto me. Un ultimo abbraccio e mi portarono via, Arrivai all’istituto di detenzione di …, la prima cosa che feci fu di scrivergli; e quella fu la prima di una lunga e fitta serie di corrispondenze, e come sempre ci si raccontava tutto.

Col passare del tempo, però, mi accorsi che il tono delle sue lettere stava cambiando; era sempre più serio, meno allegro, in alcune di esse, addirittura triste e angoscioso. Invano cercavo di sapere cos’era successo.

Continuavo a leggere tra le righe che qualcosa era cambiato, anche se faceva di tutto per non farmelo capire. Forse fu proprio la mia insistenza nel voler sapere che gli fece decidere di non rispondere più alle mie lettere. Io continuai ugualmente a scrivergli, lo feci ancora per qualche mese; poi, non ottenendo mai una sola e singola risposta, smisi di farlo.

Prima però scrissi un’ultima lettera ad un nostro amico che era nella stessa nostra sezione, per chiedere notizie di Leo, se stava bene e se fosse ancora lì; alla fine un P.S. "eventualmente chiedi se ha ricevuto le mie lettere".

Mi rispose che Leo c’era ancora, ma che se ne stava chiuso in cella e non parlava con nessuno, che aveva ricevuto la mia corrispondenza, ma che tante lettere non le aveva neppure lette. Leo non stava bene, era successo qualcosa, qualcosa che lo aveva trasformato in un essere pieno di paura, di amarezza. Passò ancora qualche mese, riprovai a scrivergli, ma di Leo non seppi più nulla.

Finché non venni a sapere che c’era un Leo arrivato da ... in isolamento. Ebbi la certezza che si trattava proprio di lui quando un ragazzo, che lavorava in cucina e gli portava da mangiare, mi riferì che aveva chiesto di me. Così ai timori che già avevo per lui si aggiunsero anche tante altre domande, perché era stato trasferito e lo tenevano in isolamento? Gli feci avere una lettera e mi rispose con un biglietto: "Sto bene, non preoccuparti!". Logico che mentiva. Tuttavia era qui a …, nello stesso istituto che ospitava me, per cui quando sarebbe stato collocato in una sezione, anche se non veniva nella mia, avrei avuto mille occasioni di vederlo.

In seguito, tornando dall’aria, me lo ritrovai in sezione, gli era stata assegnata una cella vicino alla mia. Era appena arrivato, aveva un sacco, di quelli usati per le immondizie, con dentro la sua poca roba. Ricordo che feci fatica a riconoscerlo subito.

Aveva i capelli molto più lunghi, la barba non fatta da parecchi giorni, ed era notevolmente dimagrito. Fu lui a salutarmi per primo, facendomi notare quanto anche la sua voce fosse cambiata. "Ciao" disse, con voce spenta e accennando un sorriso. Ci abbracciammo, raccolsi il suo sacco e insieme seguimmo l’agente che ci precedeva ad aprirci le celle. In pochi istanti lo bombardai letteralmente di domande. Leo mi teneva il braccio intorno al collo, evitava di rispondere. Non voleva parlare di sé, non voleva parlare di nulla. Il Leo che avevo conosciuto era rimasto a … questo ragazzo ne aveva conservato la somiglianza, ma era l’ombra senza di se stesso.

Mi rendevo conto che non era il momento di chiedere, che avrei dovuto aspettare che fosse lui ad aprirsi, ad esternare cosa lo tormentava. L’unica cosa che mi disse è che era stato trasferito per aver litigato con un detenuto. Riuscimmo a metterci insieme nella stessa cella.

Leo si era chiuso in un mondo tutto suo e non permetteva a nessuno di entrarci. Cercavo di scuoterlo, di coinvolgerlo in tutto; aveva veramente bisogno di distrarre la sua mente da quel maledetto tarlo che gli rodeva l’anima. Nonostante la sua reticenza ad essere aiutato, il suo silenzio, riuscii ugualmente ad intuire che cosa rappresentava quel tarlo.

Ricordavo che a … riceveva lettere dalla moglie quasi tutti i giorni; e come non notare la sua gioia ogni volta che tornava dai colloqui avuti con lei. Ricordo i suoi progetti: voleva un figlio e vivere felice con la sua donna. Ora da quando stavamo insieme, non aveva mai ricevuto posta, tantomeno fatto colloqui.

Volevo davvero affrontare l’argomento, ma temevo la sua reazione. Era nervoso, stanco del mondo, teso, moralmente e fisicamente esaurito. Non mangiava quasi nulla, non dormiva mai, neanche quando se ne stava sdraiato sul letto ad occhi chiusi. Passava le sue notti a fumare un pacchetto di sigarette dietro l’altro. Mi sentivo impotente, non sapevo cosa fare per aprire una crepa in quel muro dietro cui si era barricato.

Riuscii anche ad iscriverlo a scuola, benché l’anno scolastico fosse già avanti di diversi mesi, ma non volle mai sapere di scendere, cercai anche di convincerlo a frequentare il campo, a disputare qualche partita di calcio, non voleva neppure parlarne pur amando quello sport. Coinvolsi altri nostri compaesani affinché mi aiutassero a riportarlo tra "noi". Gli consigliai anche di rivolgersi alla psicologa del carcere, ma non voleva neanche affrontare l’argomento, e quando aggiunsi che lo avrei fatto di mia iniziativa, mi rispose di farmi gli affari miei e dopo qualche secondo disse: "Scusami, ma nessuno può aiutarmi!".

L’ultima volta che vidi Leo fu un mattino presto. Svegliandomi lo vidi davanti alla finestra, stava fumando. Preparai il caffè, gli allungai il suo e mi sedetti vicino. Scoppiò improvvisamente in lacrime, come se avesse cercato di trattenerle il più a lungo possibile. Mi abbracciò, pensai che forse era la volta buona, forse avrebbe cominciato a vomitare tutto quel veleno che lo stava intossicando da tempo. Invece non disse nulla, si sdraiò sul letto, girandomi le spalle, e continuò a singhiozzare.

Arrivò l’ora di andare a scuola, pensavo di rimanere per restare con lui. Era la prima volta, nonostante tutto, che lo vedevo piangere; però, convinto che si fosse addormentato, lo lasciai riposare e uscii.

Al mio ritorno in cella Leo non c’era. Chiesi all’agente dov’era, mi rispose che era uscito all’aria e aveva pesantemente litigato con un detenuto, per cui era stato portato in isolamento. Cercai di mettermi in contatto con lui tramite lettera e bigliettini, ma, come pensavo, non ebbi nessuna risposta. Dopo qualche giorno mi chiesero di raccogliere tutte le cose di Leo in un sacco e di consegnarlo all’agente di sezione. Avevano deciso di trasferirlo, era logico. La stessa sera chiesi ad un agente di mettermi in udienza dall’ispettore per il giorno dopo. Volevo parlare con qualcuno, avvertire che Leo aveva dei grossi problemi, che avevo seri motivi di temere per la sua incolumità. Il giorno dopo Leo partì. Fu trasferito al carcere di … aspettavo con ansia di essere chiamato da un ispettore, come avevo chiesto.

Ero ancora a scuola quando sentii una voce serpeggiare per le aule: "Un nostro detenuto era appena stato trasferito. Arrivato a destinazione fu lasciato in una sala in attesa di essere collocato in una sezione. Rimase solo circa mezz’ora, e quando andarono a chiamarlo lo trovarono appeso alle sbarre della finestra. Aveva usato la propria cintura per suicidarsi". Poi la conferma… era Leo!

Non poteva essere vero, non volevo crederci. Avevo l’impressione di vivere uno di quei momenti in cui i sogni si confondono con la realtà. Mi appoggiai al muro stringendo con rabbia i miei libri. Lo avevo immaginato, solo il giorno prima avevo temuto che facesse una pazzia, e ora…

Un agente mi si avvicinò per dirmi che dovevo presentarmi all’ufficio sorveglianza: "udienza dall’ispettore" disse. "Fa lo stesso", risposi, "ormai non ha più importanza!". Tornai in cella, mi stesi sul letto che era stato suo fino a qualche giorno prima.

Un ragazzo si avvicinò al cancello: "Ho una lettera per te!" mi disse. Aprii la busta, era di Leo.

"Caro …, se avessi avuto un fratello avrei voluto che fossi tu. Quando saprai ciò che ho fatto sicuramente ti dispiacerà, e forse ci starai anche molto male; ma l’immenso dolore che sto provando in questi ultimi tempi mi rende indifferente a quello che posso procurare agli altri, me ne dispiace. Credimi se ti dico che ti ho incluso tra le persone che mi sono più care e per cui provo un profondo rammarico nel doverle abbandonare per sempre. Con affetto… Leo!".

 

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