Filosofia in carcere

 

Quando la filosofia entra in carcere

di Luigi Iandoli, Docente di Filosofia e Storia

 

Il giorno 18 novembre u.s., presso la Casa circondariale di Bellizzi Irpino, si è svolta la Giornata mondiale per la filosofia promossa dall’Unesco - organizzata dalla sezione di Avellino della Società Filosofica Italiana e dal Coordinamento Enti ed Associazioni di volontariato penitenziario Seac Campania - con la fattiva collaborazione della direttrice dott.ssa Cristina Mallardo e di quanti operano nella struttura carceraria.

L’istituzione circondariale di Avellino non è nuova a simili iniziative. Già in passato, infatti, alcuni docenti delle Università napoletane si sono incontrati con i detenuti per riflettere e dialogare su temi di vita quotidiana di rilevanza filosofica. Tali incontri sono stati inseriti nell’ambito del laboratorio Filosofia e quotidianità, che da alcuni anni si svolge in carcere con l’obiettivo di coniugare la quotidianità frustrante, ossessiva, disumanizzante - che caratterizza la vita dei detenuti - con la filosofia, che consente di "sospendere", almeno momentaneamente, quel frenetico, ripetitivo e insopportabile affaccendarsi quotidiano, per chiedersi il senso delle cose, per cercare risposte a domande inquietanti ritenute fino a quel momento irrilevanti o improponibili.

Infatti, nel momento in cui la filosofia viene riportata all’ordinarietà del quotidiano, non solo essa ritorna alle sue origini più autentiche, ma soprattutto rivela tutta la sua valenza pedagogica e formativa, manifestando il vero significato dell’assunto di prenderla con filosofia, proposto provocatoriamente ai detenuti all’inizio del laboratorio.

Il prof. Giuseppe Ferraro, docente di Filosofia morale presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, da tempo sostenitore di una filosofia fuori le mura, incontrandosi per l’occasione con i detenuti ha sottolineato l’opportunità di portare la filosofia nei luoghi estremi per sentire cosa ha da dire sulle domande radicali dell’esistenza. Tutte cose di cui si può sapere solo nei luoghi dove la libertà manca o la vita è offesa. Solo in tal modo è dato capire come si possa restituire all’altro ciò che si è preso ed appreso, passando dall’alterità all’altruità: passaggio questo che costituisce precisamente l’obiettivo fondamentale dell’attività laboratoriale svolta da alcuni anni nella casa circondariale di Avellino. Nel corso dell’incontro, significativi contributi al dibattito sono pervenuti dagli interventi di alcuni ristretti che, sollecitati dalla discussione relativa al tempo, ai sentimenti, alla dimensione puramente temporale dell’uomo, hanno saputo individuare i termini dell’annosa e dibattuta questione, avvalendosi del loro vissuto esperienziale e delle loro fini capacità di analisi e di giudizio. Nel carcere - essi sostenevano - proprio la sospensione del tempo, non più vissuto come distensio animi (una distensione dell’animo che lega e cuce continuamente passato, presente e futuro) priva l’individuo di ogni fondamento, di ogni slancio e di ogni ragion d’essere. Il tempo, invece, deve continuare, per costituire la trama su cui ciascuno deve poter tessere la propria identità, riconoscere il proprio sé per trovare la giusta collocazione nel tessuto sociale. E cosa dire, inoltre, del "silenzio assordante" a cui ha fatto cenno un altro detenuto, denunciando la particolarità della condizione di detenzione che mina in profondità l’integrità psico-fisica di ciascuno? Riflessioni certamente inquietanti, che dovrebbero indurci a ripensare e rifondare tutta la ratio della politica carceraria, al fine di rivelare la retorica di cui sono intrise espressioni quali rieducazione, socializzazione, integrazione.

In attesa di una ridefinizione del pianeta carcere, di cui "conosciamo tutti gli inconvenienti e come sia pericoloso, quando non è inutile", come efficacemente scriveva M. Foucault in Sorvegliare e punire, è opportuno intensificare gli sforzi perché ai ristretti vengano offerti spazi ed occasioni di pensiero libero, dialogo ed ascolto per non renderli cinici ed insensibili. Considerazioni queste che dovrebbero convincerci che la reclusione costituisce l’ostacolo principale ad ogni forma di reinserimento sociale e di rieducazione, dal momento che la cultura della prigione riproduce soltanto se stessa, rendendo alla fine i detenuti incapaci di rapportarsi al mondo esterno e di condividerne le regole e i ritmi.

 

 

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