Sofri e l'indultino

 

Due ritratti per capire meglio

di Adriano Sofri

 

Fuoriluogo, settembre 2003

 

Non farò discorsi generali: ne ho già fatti mille, tutti uguali. Farò due ritratti di detenuti. Disegno male, ma li ho proprio davanti agli occhi, per tanto tempo e così docili che riuscirò a darvene un’idea. Uno non ha trent’anni, l’altro ne ha ottanta. Quello di neanche trenta sta fermo, per lo più, quello di ottanta si muove.

Sbrighiamo il primo. È di origine napoletana, è nato in Piemonte e o abita. Ricevette un foglio di via, contravvenne all’obbligo di notificarlo al suo Comune – ci andò con un paio di giorni di ritardo - fu denunciato per questo e, a distanza di un congruo numero di anni, condannato alla pena di 45 giorni di arresto, pena sospesa per un paio d’anni, poi fu sospesa la sospensione e così è venuto in galera. Non c’era mai venuto prima. Terza branda, una cella da due, 45 giorni, poi libererà il posto. Il ragazzo è spaesato. È venuto un po’ di fresco, c’è stato bisogno di procurargli un vestito di cambio. Mi sono chiesto che cosa avrei fatto se mi avessero incarcerato per 45 giorni - di arresto, neanche di reclusione. Neanche il tempo di chiedere l’indultino e aspettare la risposta. Il ragazzo aspetta che passino i giorni, stando fermo, per lo più. Ecco un caso del famoso sovraffollamento, della famosa certezza della pena, e del resto.

Quello di ottant’anni si chiama Bernardino, è sardo, fece il postino, è stato condannato per un terribile delitto di famiglia. I delitti di famiglia sono al tempo stesso i più orrendi e i più ovvi. Fu condannato a venti anni, ne ha scontati più di dieci. Era in galera ad Orvieto, era seguito con cura e simpatia per la sua gentile discrezione, andava in permesso, aveva una pratica che lo mandasse alla detenzione a domicilio. Ebbe un infarto, che lo paralizzò per metà. Fu trasferito a Pisa, per essere curato in questo prestigioso e sovraccarico Centro clinico. Fu curato, s’impegnò a riconquistare il movimento, migliorò molto. Siccome il Centro clinico è a sua volta strapieno, venne spostato nella normale sezione penale. Si dice: "appoggiato", per il caso di una nuova emergenza. Bernardino non trae più alcun beneficio dal soggiorno pisano: al contrario. Cure non ne riceve più. Ha perso i rapporti con le persone che si occupavano di lui ad Orvieto, i permessi, la pratica per il ritorno a casa. Due mesi fa è morta sua moglie, l’ha saputo con un telegramma. Lui cammina per tutte le ore d’aria, anche dall’una alle tre del famoso agosto torrido. Cammina piano piano, trascinando un po’ un lato. Sta solo, in genere, perché è riservato e sardo, benché detenuti e agenti siano benevoli e premurosi verso di lui. Si ferma spesso, si appoggia a una rete di ferro, passa le mani lungo la rete lentamente, chissà perché, come un suonatore d’arpa che si prepari. Tutti i suoi movimenti sono rallentati. La sua mente è lucida e cortese.

Dopo che aveva chiesto di tornare a Orvieto, il Ministero rispose (anche le risposte dei Ministeri sono lente e quasi emiplegiche) che doveva restare qui per ragioni sanitarie. Rifece la richiesta, accompagnata dalla certificazione sanitaria che lo dichiarava dimesso e in grado di tornare al carcere di provenienza. Sono passati molti mesi. Lui cammina. Nel tempo in cui va da un muro all’altro del cortiletto, io sono andato avanti e indietro dieci volte. D’improvviso me ne accorgo, e allora mi vergogno e rallento il passo. Lui del resto è assorto nei suoi pensieri, e nella fatica di camminare.

Non è mai adirato, al contrario: racconta ad ognuno che si mostri disposto ad ascoltare la sua situazione, come se chiunque fosse in grado di risolverla, o come se nessuno lo fosse. Età e malattia a parte, il suo delitto è di quelli per definizione non ripetibili. È piccolo, un ometto di un metro e mezzo e di ottant’anni. Ecco un altro caso del famoso sovraffollamento, della famosa certezza della pena.

Ho scelto due ritratti di casi estremi, un ragazzo di 45 giorni (quando queste righe usciranno sarà fuori comunque), un vecchio di ottant’anni di vita e altri dieci di pena (quando queste righe usciranno sarà ancora vivo, spero, ancora qui, temo). Ma non fanno così eccezione. Dei 57 mila detenuti che si ammucchiano nelle galere italiane - e l’indultino non avrà compensato nemmeno l’incremento "naturale" - un numero enorme è composto di persone della cui reclusione non si troverebbe alcuna necessità, alcuna utilità e alcuna sensatezza, se non nel gusto per la galera altrui e, ancora di più, nell’inerzia che domina il mondo, e quello carcerario specialmente.

 

 

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