Commento Marcheselli

 

Indultino, commento articolo per articolo

di Alberto Marcheselli (Magistrato di Sorveglianza di Alessandria)

 

Legge 1 agosto 2003 n° 207


Articolo 1
(Sospensione condizionata dell’esecuzione della parte finale della pena detentiva)

  1. Nei confronti del condannato che ha scontato almeno la metà della pena detentiva è sospesa per la parte residua la pena nel limite di due anni, salvo quanto previsto dai commi 2 e 3.

  2. La sospensione dell’esecuzione della pena può essere disposta una sola volta, tenendo conto della pena determinata ai sensi dell’articolo 663 del codice di procedura penale, decurtata della parte di pena per la quale è stato concesso il beneficio della liberazione anticipata ai sensi dell’articolo 54 della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni.

  3. La sospensione non si applica:

  1. quando la pena è conseguente alla condanna per i reati indicati dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, e dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del Codice penale nonché dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni;

  2. nei confronti di chi sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ai sensi degli articoli 102, 105 e 108 del codice penale;

  3. nei confronti di chi sia stato sottoposto al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 26 luglio 1975, n° 354, salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge;

  4. quando la persona condannata è stata ammessa alle misure alternative alla detenzione;

  5. quando vi sia stata rinuncia dell’interessato.

 

Commento

 

Già dal tenore testuale del primo comma dell’art. 1, emerge con chiarezza la prima caratteristica fondante il nuovo istituto, consistente nel suo carattere di sostanziale automatismo. Alla presenza delle condizioni prescritte, condizioni formali e obiettive, insuscettibili di apprezzamento discrezionale, la pena deve essere indefettibilmente sospesa, salvo quanto si dirà oltre.

Tali condizioni sono, in positivo:

una pena definitiva

pena residua non superiore a 2 anni

avvenuta espiazione di almeno metà della pena.

Le condizioni previste in negativo (cause ostative) sono:

precedente concessione di sospensione ai sensi della stessa legge

esecuzione di una pena per reati c.d. ostativi

intervenuta dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza

sottoposizione al regime di sorveglianza particolare

ammissione a misure alternative

rinuncia dell’interessato

Ulteriore causa ostativa è prevista, poi, dal successivo art. 3 della legge, in relazione alla condizione di straniero e sarà pertanto esaminata nel commento a quell’articolo

 

Esaminando in dettaglio le condizioni appena elencate, può dirsi quanto segue. Per quanto attiene la nozione di pena detentiva, va osservato che, certamente rientrante in tale dizione (e, pertanto, sospendibile) è, ovviamente, la pena dell’arresto o della reclusione in espiazione penitenziaria. Non vi è dubbio, del resto, che ad essa pensasse principalmente il legislatore. Sicuramente escluso l’ergastolo, non per il suo carattere, che è certamente detentivo, ma per la impossibilità di calcolare la quota di metà pena e il residuo biennale. Non sembrano esservi dubbi, invece, circa il fatto che ricorra il presupposto di legge, circa la semidetenzione. Essa ha, infatti, natura detentiva. Per contro, essa non è certamente, in senso tecnico una misura alternativa alla detenzione, per cui non ricorre la ipotesi ostativa di cui alla lettera d) della disposizione.

La sanzione della permanenza domiciliare, che può essere inflitta dal giudice di pace, non rientra nell’ambito di applicazione della disposizione. Al di là di ogni considerazione sul carattere o meno detentivo, pare ostarvi la disposizione del comma 2 dell’art. 53 d. l.vo 28 agosto 2000, n. 274, che specifica che il condannato a tale pena non è considerato in stato di detenzione. Sicuramente detentiva è, invece, la pena che il condannato sta espiando in detenzione domiciliare, arresti domiciliari c.d. esecutivi (art. 656 comma 10 c.p.p.) o semilibertà. Per queste ipotesi dovrà, semmai, valutarsi, a tempo debito (infra, § 7), se alla applicazione della sospensione osti il carattere di misura alternativa dei regimi appena citati.

 

Esaurito il profilo qualitativo (quale pena può essere sospesa), si tratta di esaminare quello quantitativo. La legge richiede il doppio requisito della espiazione di metà della pena e del residuo non superiore a 2 anni. In primo luogo, deve sottolinearsi che, coerentemente con quanto ritenuto in modo inequivoco a proposito di misure alternative, tali condizioni devono esistere al momento della decisione del Magistrato di Sorveglianza (e non al momento, antecedente, della istanza del condannato). La legge prevede espressamente che si tenga conto della pena determinata ai sensi dell’art. 663 c.p.p. Ciò vale quanto dire che, in presenza di più condanne, la base di calcolo sarà la pena cumulata: in buona sostanza di dovrà procedere alla somma delle pene inflitte e su questa base calcolare la metà da espiare. Simmetricamente, i periodi di presofferto andranno sommati tra loro e imputati tutti alla pena cumulata da espiare (e non il singolo presofferto alla singola pena, richiedendo la quota della metà per ciascuna).

Problema pratico di notevole entità è quid juris nel caso, non infrequente, di esecuzione concorrente di più pene, ma senza che il PM competente abbia emesso il provvedimento di cumulo. Una prima soluzione, formale, potrebbe ritenere che non sia consentito attuare il meccanismo appena descritto (e quindi, necessario che ci sia un separato presofferto di almeno metà su tutte le pene, separatamente considerate). Una seconda soluzione, meno attenta al dato formale, ritiene che, fermo restando il dovere del PM di procedere all’emissione del cumulo, il Magistrato di Sorveglianza potrebbe comunque procedere all’unificazione. La prima soluzione ha il pregio di essere maggiormente in linea con il disposto dell’art. 76 c.p., la seconda, quello di non far dipendere da un fatto estrinseco e formale (l’adozione del cumulo) il trattamento del condannato, generando conseguenze inique. La seconda, probabilmente, tenderà a prevalere nella pratica attuazione, così come già avviene, ai fini della determinazione dei semestri validi per la liberazione anticipata, nel caso di pene in successione materiale, pur in assenza di formale cumulo.

L’art. in commento fa, poi, cenno alla necessità di decurtare, nella effettuazione del computo, la parte di pena per cui concessa la liberazione anticipata. Tale inciso è formulato in modo alquanto impreciso. Alla lettera, non è chiaro cosa debba decurtarsi e da cosa debba decurtarsi. In effetti, essa si presta anche ad essere intesa nel senso che i semestri per cui sia stata concessa la liberazione anticipata (e non l’ammontare della liberazione concessa) non dovrebbero computarsi. Non è poi chiarito se non dovrebbero computarsi ai fini del calcolo della pena inflitta e/o della pena espiata, e/o della pena residua. Posto che la lettera della legge non aiuta in alcun modo, la soluzione nettamente preferibile è che essa vada intesa nello stesso senso in cui si intende l’effetto della liberazione anticipata rispetto ai benefici penitenziari.

Ciò comporta:

a) che ciò che si detrae è lo sconto di pena;

b) che esso diminuisce la pena residua;

c) che esso non diminuisce la pena inflitta, ma si considera, cioè, pena espiata.

Tale ultimo assunto, per quanto non univocamente scaturente dalla interpretazione testuale, è decisamente più convincente di quello opposto, perché fa sì che la disciplina della sospensione sia simmetrica a quella di cui all’ultimo comma dell’art. 54 Ordinamento Penitenzario (L. 354/1975, d’ora innanzi, O.P.). e giustifica anche il perché della esplicita previsione (l’art. 54 infatti non menziona l’istituto in esame, di tal che era necessaria una norma ad hoc). Tale soluzione è anche in armonia con il fatto che il beneficio è ancorato all’entità della pena residua (e non della pena inflitta), di tal che è più ragionevole che ad esso si faccia riferimento, quando si prescrive la decurtazione della liberazione anticipata.

 

Venendo alle cause ostative, deve sottolinearsi, in primo luogo, che si tratta di sospensione che può concedersi una sola volta. La portata di questa preclusione va, però, approfondita. Infatti, il comma 8 dell’art. 2 prevede che alla sospensione si applichi, tra gli altri, l’art. 51 bis O.P. Esso stabilisce che, nel caso di sopravvenienza di una nuova pena nel corso di una misura alternativa, ove permangano i limiti di ammissibilità della misura, essa viene a dover essere estesa alla pena sopravvenuta. Ne consegue che la sospensione non può essere concessa una seconda volta, ma può essere estesa a pene sopravvenute.

A tale regime si associano alcuni problemi pratici. I primi che vengono alla mente sono relativi alla valutazione della ammissibilità della estensione. In primo luogo, entro quando deve intervenire l’ordine di esecuzione della nuova pena, perché possa procedersi a estensione? La risposta più corretta, siccome simmetrica alla soluzione adottata per le misure alternative è: nel corso della durata della pena residua precedente e già in esecuzione (cioè nel periodo in cui il soggetto è sottoposto alle prescrizioni, non nel termine quinquennale nel quale la sospensione può essere revocata in caso di recidiva).

Evidentemente, poi, non basta che la pena sopravvenuta, sommata al residuo di quella già sospesa, porti a un totale non superiore a due anni, ma è necessario che sia rispettata anche la condizione della espiazione di metà della pena. Si vede in questa ipotesi quanto rilevi il problema, già sopra affrontato, del calcolo della metà della pena nel caso di concorso di pene. Si ripropone qui l’alternativa tra il ritenere necessario il formale cumulo del PM, per poter sommare anche i periodi di presofferto, ovvero il ritenere che tali operazioni di computo possano essere effettuate dal solo Magistrato di Sorveglianza. Dall’una o l’altra soluzione dipendono evidenti e rilevantissime conseguenze pratiche. A sostegno dell’una o dell’altra militano gli stessi argomenti di cui sopra.

Su un piano più generale, può osservarsi come questo limite al numero di sospensioni generi una certa distorsione. Si ipotizzino due pene di due anni, entrambe con presofferto di un anno, inflitte a Tizio e due pene di dieci giorni, entrambe con presofferto di 5 giorni inflitte a Caio. Se la seconda pena sopravviene a Tizio nel corso della esecuzione, egli godrà della misura per due anni. Se la seconda esecuzione sopravviene a Caio dopo l’esecuzione, egli usufruirà della misura per solo 5 giorni. Detto in altri termini, l’ammissione al beneficio dipende da un fattore del tutto estrinseco e casuale (il momento della successiva messa in esecuzione). Inoltre, con questo meccanismo, è ben possibile, purché continuino a permanere le condizioni (il che accade quando, dopo l’espiazione della maggior parte di una lunga pena, sopravvengano molte sanzioni di breve durata), che la sospensione della pena duri ben più di due anni, senza che ciò dipenda, rispetto al caso di sopravvenienza oltre la scadenza, da alcun merito del condannato. Per tale parte il regime si appalesa probabilmente viziato per contrasto con il canone dell’art. 3 Cost. isolatamente considerato, o in associazione con l’art. 27 Cost., dipendendo il regime applicabile da fattori che nulla hanno a che vedere con gli aspetti rieducativi.

 

È poi circostanza ostativa il fatto che la pena sia stata inflitta in relazione a una serie di reati. Essi sono:

delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza,

delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I c.p. (articoli da 600 a 604 c.p.), e dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p.;

delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale,

delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste,

articolo 630 c.p.

articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43,

articolo 74 decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.

articolo 575 c.p.

articolo 628, terzo comma c.p.

articolo 629, secondo comma, c.p.

articolo 291-ter del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43

articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2

articolo 416 c.p., realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del medesimo codice, dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale e dall’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

La elencazione che precede non comporta problemi peculiari o aggiuntivi rispetto a quelli che comporta l’applicazione del regime restrittivo di cui all’art. 4 bis O.P., se non la necessità di osservare che sono comprese anche ulteriori ipotesi non previste in quello (essenzialmente: delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I c.p., e dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p.). Qualche considerazione, tuttavia, si impone.

Innanzitutto, sembrano integralmente esportabili tutte le considerazioni e le conclusioni cui dottrina e giurisprudenza sono pervenute per quanto riguarda il caso di concorso di pene per reati ostativi e non. Sembra da confermarsi, in particolare, che, nella successione tra pene per reati ostativi e non, debba ritenersi espiata prima, in assenza di altre indicazioni, la pena per il delitto ostativo.

 

La sospensione non può essere concessa a coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai sensi degli articoli 102, 105 o 108 c.p. Deve rilevarsi subito che il legislatore non menziona tra le cause ostative la abitualità nelle contravvenzioni (art. 104 c.p.) e la abitualità nel delitto ritenuta dal giudice (art. 103). Se la prima omissione è agevolmente giustificabile, lo è, tutto sommato, meno la seconda. Ancor più stupefacente è che si sia menzionata espressamente la tendenza a delinquere (inserita addirittura con apposito emendamento al testo originario), in considerazione della sostanziale desuetudine di tale istituto.

Interrogativo interessante è quello relativo al momento in cui rilevi la dichiarazione di delinquenza qualificata. Al momento della entrata in vigore della legge o della decisione del Magistrato di Sorveglianza? La seconda ipotesi sembra più corretta, essendo quello il momento in cui valutare l’ammissibilità dell’istanza. Altra questione è se rilevi solo il fatto storico della pregressa dichiarazione, ovvero essa debba essere attuale (non revocata). Per quanto la lettera della disposizione sia più in linea con la prima opzione, è la seconda a presentare intrinseca razionalità. Sul piano criminologico, la valutazione di pericolosità sociale attuale consegue solo alla permanenza dello status contemplato dalla norma.

Osta poi alla sospensione, il fatto che il condannato sia soggetto al regime di sorveglianza particolare in carcere. Valgono le stesse considerazioni appena svolte circa il momento di rilevanza. In questo caso, però, è espressamente previsto che il venir meno di tale regime elimina l’effetto ostativo.

 

Non possono poi fruire della sospensione coloro che siano stati ammessi a misure alternative. Si tratta di norma cardine del nuovo istituto. La portata di tale preclusione, tuttavia, è correlata a gravi problemi interpretativi.

Il primo problema è l’individuazione dell’area delle misure alternative. Considerata la ratio dell’istituto, collegata al miglioramento delle condizioni di vita in carcere, è da ritenere che si debbano considerare tali le misure alternative alla detenzione in carcere. Certamente è tale, ad esempio, la detenzione domiciliare. Essa è misura detentiva, ma alternativa al carcere. Qualche dubbio in più si potrebbe nutrire circa i c.d. arresti domiciliari esecutivi (il regime di cui all’art. 656 comma 10 c.p.p.). Il carattere di alternatività con il carcere che li contraddistingue, il carattere provvisorio ma corrispondente alla detenzione domiciliare e la stretta connessione anche procedimentale con la concessione, in via definitiva, di misure alternative (art. 656 comma 10 c.p.p.), induce a ritenere che anche questa condizione sia ostativa alla sospensione. A uguale risultato porterebbe ritenere che le pene da sospendere siano quelle attualmente implicanti la detenzione in carcere.

Problematico è il caso della semilibertà. Essa è misura detentiva e carceraria (sia pure parzialmente). Per contro, la relativa disciplina si trova nel Titolo I, Capo VI dell’O.P. che è intitolato misure alternative alla detenzione. I primi elementi ne farebbero escludere l’efficacia ostativa, il secondo lo farebbe affermare. Riteniamo che la soluzione più corretta sia la prima. La collocazione sistematica della norma non rileva, posto che nel medesimo capo è inserita anche la liberazione anticipata, certamente priva del carattere di misura alternativa. L’interrogativo, tuttavia, di più difficile soluzione concerne il quando il soggetto deve essere ammesso alla misura alternativa, perché ciò osti alla sospensione della pena detentiva.

Vale la pena di sottolineare subito che, ai sensi dell’art. 7 della legge in rassegna, la sospensione non potrebbe comunque applicarsi a chi si trovasse soggetto a misura alternativa al momento della entrata in vigore della legge (si veda infra sub art. 7).

Ciò posto, si tratta di stabilire se l’unico altro momento rilevante sia quello della decisione del Magistrato di Sorveglianza, o siano rilevanti anche altri momenti intermedi. La prima ipotesi che viene da fare è che, come per le altre cause ostative, il momento di rilevanza sia quello della decisione del Magistrato di Sorveglianza. Tale soluzione è, del resto, coerente con la prima ratio della legge in rassegna (sfoltire la popolazione penitenziaria) e perfettamente compatibile con la lettera della disposizione. Il problema è che la disposizione, così formulata e intesa attribuisce al sistema legislativo una connotazione estremamente criticabile sotto il profilo della razionalità e costituzionalità.

In primo luogo, perché esclude dalla applicazione i soggetti a misura alternativa (che, in quanto tali, sono stati valutati maggiormente meritevoli), mentre consente la applicazione ai soggetti che sono rimasti in detenzione (la più gran parte dei quali ha già richiesto, ma non ottenuto, per effetto della sua immeritevolezza e pericolosità sociale, tali misure). Non solo, ma determina la applicazione ai soggetti meno meritevoli della misura della sospensione ed essa ha, come si vedrà, caratteristiche equivalenti alla meno restrittiva delle misure alternative, l’affidamento in prova al servizio sociale (con discriminazione rispetto ai soggetti ammessi a misure più restrittive). Il dubbio di compatibilità con l’art. 3 Cost. appare, pertanto, non manifestamente infondato.

In secondo luogo, se rileva solo la attuale sottoposizione a misura alternativa, non è ostativo il fatto che il soggetto, prima della decisione del Magistrato di Sorveglianza (magari sulla medesima pena, e dopo l’entrata in vigore della legge) sia stato ammesso a misura alternativa, ma se la sia vista revocare per gli abusi commessi. Il fatto di consentire la sospensione automatica della pena per tali soggetti, regime eventualmente addirittura più favorevole di quello che si è appena dimostrato inidoneo, costituisce una soluzione in contrasto sia con il principio di rieducazione isolatamente considerato, sia in rapporto con l’art. 3 Cost., sia esso inteso come canone di ragionevolezza, sia esso valorizzato nel confronto con i soggetti che non abbiano commesso violazioni.

Il primo profilo problematico sopra citato appare insuperabile in via di interpretazione. A evitare il secondo potrebbe servire una interpretazione "ortopedica" della legge, tale da intendere "sono stati ammessi a misure alternative" come riferimento al fatto storico di essere stati ammessi, anche solo precedentemente alla decisione. Ciò, però, precluderebbe la sospensione anche a chi abbia cessato medio tempore la misura per motivi incolpevoli. La disposizione resta, allora, stretta tra due interpretazioni ugualmente poco soddisfacenti. La prima (osta solo la attuale misura alternativa) è indubbiamente la più immediata e agevole.

 

Impedisce la sospensione, poi, la rinuncia dell’interessato. Norma che risulta poco rilevante, atteso che, nella versione definitiva, la sospensione è attivabile solo a richiesta dell’interessato. Che tale richiesta sia revocabile era probabilmente già nel sistema, senza bisogno di previsione espressa.

Tra le diverse ipotesi ostative manca, invece, il richiamo alla disposizione dell’art. 58 quater O.P. Esso avrebbe evitato le perplessità di cui al punto che precede e armonizzato la disciplina con il sistema delle misure alternative.

Articolo 2
(Applicazione e revoca della sospensione condizionata dell’esecuzione della pena)

  1. Il magistrato di sorveglianza provvede con ordinanza, su istanza dell’interessato o del suo difensore, sulla sospensione di cui all’articolo 177-bis.

  2. Si applicano le disposizioni dell’articolo 69-bis, commi 1, 3 e 4, della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni.

  3. Il magistrato di sorveglianza può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno.

  4. Dell’applicazione della misura di cui all’articolo 1 è data immediata comunicazione all’autorità di polizia competente, che vigila sull’osservanza delle prescrizioni di cui all’articolo 4 e fa rapporto al pubblico ministero di ogni infrazione.

  5. La sospensione dell’esecuzione della pena può essere revocata se chi ne ha usufruito non ottempera, senza giustificato motivo, alle prescrizioni di cui all’articolo 4 o commette, entro cinque anni dalla sua applicazione, un delitto non colposo per il quale riporti una condanna a pena detentiva non inferiore a sei mesi.

  6. Il tribunale di sorveglianza provvede sulla revoca della misura di cui all’articolo 1 ai sensi dell’articolo 678 del codice di procedura penale.

  7. In caso di revoca il tribunale di sorveglianza determina la residua pena detentiva da eseguire, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il periodo di sospensione dell’esecuzione della pena.

  8. Si osservano in quanto applicabili le disposizioni degli articoli 51-bis e 51-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni.

  9. Trascorso il termine di cui al comma 5 la pena è estinta.

 

Commento

 

La sospensione della pena può essere attivata solo ad istanza dell’interessato o del suo difensore. Risulterebbe, vista la norma speciale, alterato sia il meccanismo di cui all’art. 678 c.p.p. (ed esclusa la procedibilità di ufficio o a richiesta del PM), sia dell’art. 57 O.P. (ed esclusa la proposta del Consiglio di Disciplina o la richiesta dei prossimi congiunti). Tale limitazione, inequivoca, non pare tuttavia giustificata. Per quanto attiene la legittimazione del difensore, appaiono applicabili le disposizioni generali valide nel procedimento di sorveglianza. Ne consegue che sarà necessaria o una nomina ad hoc, ovvero una nomina non limitata alla fase di cognizione o esecuzione, ma espressamente riferita ai procedimenti di competenza della magistratura di sorveglianza.

 

Il Magistrato di Sorveglianza competente è quello preposto all’istituto penitenziario di espiazione o, per i soggetti in attesa di esecuzione, in assenza di norme ad hoc, quello competente sul luogo di residenza o domicilio dell’interessato (desumibili dagli atti di esecuzione) (art. 677 c.p.p.).

Il provvedimento viene adottato con ordinanza, in camera di consiglio senza presenza delle parti. Differenza rispetto al rito della liberazione anticipata è che non viene udito il parere del PM. La decisione, assunta senza contraddittorio dell’organo pubblico, è immediatamente esecutiva. Dubbia la compatibilità di tale soluzione con l’art. 111 Cost. che tutela, evidentemente, anche la parte pubblica. L’impugnazione è concessa a PM, interessato o difensore (se l’interessato ne era privo ne deve essere nominato uno di ufficio) entro 10 giorni da comunicazione o notificazione. Competente è il Tribunale di Sorveglianza nel cui distretto si trova il Magistrato di Sorveglianza che ha adottato il provvedimento. Il rito applicabile è il procedimento di sorveglianza, disciplinato dall’art. 678 c.p.p. Del collegio non può far parte il Magistrato di Sorveglianza che ha esteso il provvedimento impugnato.

Ai fini della decisione, il Magistrato di Sorveglianza può acquisire documenti e informazioni di cui abbia bisogno. Si tratta di previsione generica, in linea con quella analoga dell’art. 666 c.p.p., evidentemente finalizzata all’accertamento dei presupposti espressamente previsti dalla legge. Per come è fraseggiato art. 1 della legge essi concernono, allora, la quantità e qualità della pena (residua e espiata), il titolo di reato la cui pena è in espiazione (dati desumibili dalla c.d. posizione giuridica a disposizione dell’istituto penitenziario o, in caso di dubbio, dal c.d. stato di esecuzione o dalla copia della sentenza di condanna). Altre fonti eventuali di conoscenza possono essere: il certificato penale (per eventuali dubbi in materia di dichiarazione di delinquenza qualificata, di norma risultanti dalla posizione giuridica, vista la conseguente applicazione di misure di sicurezza), informazioni della amministrazione penitenziaria (per eventuali dubbi circa la sorveglianza particolare, che peraltro dovrebbe anche essa risultare da posizione giuridica); informazioni e copie di atti di uffici sorveglianza (per vicende relative a misure alternative).

Infine, visto l’art. 3 della legge, sono certamente potenzialmente utili informazioni su permesso soggiorno da parte delle Questure (se tali atti non risultano dalla documentazione penitenziaria). Ne consegue che "l’istruttoria" dovrebbe essere sostanzialmente assai semplificata. Fonte principale di conoscenza del Magistrato di Sorveglianza dovrà essere la c.d. posizione giuridica a disposizione dell’Istituto penitenziario, la cui completezza e precisione assume importanza fondamentale per una buona resa della legge.

Residua, tuttavia, un problema di notevolissimo spessore. Esso concerne la dimora del condannato. Il dubbio è se essa debba preventivamente verificarsi o meno nella sua effettività. Esso sarà opportunamente trattato sub art. 4, in tema di prescrizioni della misura.

 

La disciplina prevede, poi, che le forze di polizia riferiscano al PM (evidentemente, quello del luogo di svolgimento della misura) circa eventuali infrazioni. Non si comprende il perché del riferimento al PM - al di fuori della ipotesi di reato - posto che tale organo non ha competenze dirette per la gestione della misura, ma può solo trasmettere gli atti al Magistrato di Sorveglianza. Ciò comporta una evidente e non opportuna dilatazione dei tempi.

La misura viene revocata se è accertata una violazione non giustificata commessa durante l’assoggettamento alle prescrizioni, oppure se sopravviene condanna (definitiva) per un delitto non colposo commesso entro 5 anni da applicazione della misura. Il dies a quo di tale termine appare la data della sospensione. Rispetto a tale ultima ipotesi, è evidente che sarà necessaria la attivazione del PM, con una segnalazione al Tribunale di Sorveglianza. Tale ultimo organo non ha, infatti, alcuna possibilità di conoscere autonomamente delle condanne che sopravvengano a carico dei soggetti cui negli anni pregressi fosse stata concessa la sospensione.

Il Tribunale di Sorveglianza decide in tema di revoca applicando il procedimento di sorveglianza e determinando quanta parte della misura possa valere come pena effettivamente espiata, tenuto conto di gravità delle violazioni e della durata delle limitazioni patite durante la misura. Si tratta di disciplina ricalcata sulla revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale e in linea con la giurisprudenza costituzionale in materia. Non appare, tuttavia, del tutto corretto il riferimento alla "durata" delle limitazioni patite. Ciò che rileva, propriamente, a tali fini, è "l’intensità" delle limitazioni. Indipendentemente dalla durata, infatti, è quanto fosse restrittivo il regime patito che determina se la espiazione in forma carceraria, dopo la revoca, costituisca una ingiusta ripetizione della sanzione già patita.

Espressamente prevista è la possibilità di disporre la prosecuzione della sospensione, ai sensi dell’art. 51 bis O.P. Richiamato quanto già detto sopra, sub art. 1, § 4, va solo soggiunto che, attesa la competenza sulla sospensione da parte del Magistrato di Sorveglianza, questo deciderà direttamente sulla estensione o meno, senza distinzione tra una fase cautelare urgente e successiva trasmissione al Tribunale di Sorveglianza.

Tale duplicità di fasi rimane invece per quanto attiene la applicazione dell’art. 51 ter O.P. Ne risulta che il Magistrato di Sorveglianza, ricevuta (dalla Polizia o dal PM) la segnalazione di una violazione, nel corso della misura, potrà disporre l’immediato arresto con trasmissione degli atti al Tribunale di Sorveglianza. La detenzione cautelare, come nell’affidamento in prova al servizio sociale, stando alla costante giurisprudenza, potrà allora durare fino al limite massimo di trenta giorni a decorrere dalla ricezione degli atti concernenti l’arresto da parte del Tribunale di Sorveglianza. È da ritenere che il potere di sospensione si possa esplicare solo per le segnalazioni di violazioni che pervengano al Magistrato di Sorveglianza durante il periodo di assoggettamento alle prescrizioni (e non nel diverso termine quinquennale rilevante per la revoca per commissione di delitti).

Trascorso il termine di 5 anni dalla sospensione, la pena è estinta. Non è prevista, a differenza che nel regime dell’affidamento in prova al servizio sociale, l’adozione di un provvedimento espresso a contenuto valutativo (che, tra l’altro, non si vede quando potrebbe ragionevolmente adottarsi, visto che la condanna per il delitto commesso nei cinque anni potrebbe sopravvenire anche in momenti di molto successivi). Pertanto, o la sospensione viene revocata per violazioni commesse nel corso della misura, o, successivamente, per il sopravvenire della condanna. Nessun altro provvedimento conclusivo è ipotizzabile.

Articolo 3
(Stranieri)

  1. Le disposizioni della presente legge non si applicano nei confronti dello straniero che si trova in talune delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n° 286.

 

Commento

 

La sospensione della parte finale della pena non si applica agli stranieri non in regola con le norme sul soggiorno nello Stato.

Più in particolare, essa non può concedersi a chi:

è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto ai sensi dell’articolo 10 TU immigrazione;

si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato, ovvero è scaduto da più di sessanta giorni e non è stato chiesto il rinnovo;

appartiene a taluna delle categorie indicate nell’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituto dall’articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell’articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall’articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646.

Tale area di esclusione coincide con le ipotesi in cui il soggetto, ricorrendone i presupposti, dovrebbe essere espulso ai sensi dell’art. 16, comma 5 TU immigrazione, come modificato dalla legge 189/2002.

Il sistema, per i soggetti non in regola con il permesso di soggiorno è, allora a grandi linee, il seguente. O si procede all’espulsione, se ci sono i presupposti, ovvero è escluso il c.d. indultino.

Ne risulta fortemente compressa la possibilità, per gli stranieri, di accedere alle misure alternative. A ben vedere, esse possono essere concesse solo ai soggetti per cui non è ipotizzabile l’espulsione, cioè agli autori dei reati più gravi. Tale soluzione è coerente con il fondamento ravvisato alla base della normativa sulla espulsione (la non necessità di rieducazione), ma confina la possibile concessione di misure alternative alle situazioni maggiormente rischiose.

Articolo 4
(Prescrizioni)

  1. Con il provvedimento che dispone la sospensione dell’esecuzione della pena sono congiuntamente applicate, per il periodo corrispondente alla pena di cui è stata sospesa l’esecuzione, le seguenti prescrizioni:
    a) il condannato deve presentarsi all’ufficio di polizia giudiziaria indicato dal magistrato di sorveglianza, il quale fissa i giorni e l’orario di presentazione tenendo conto delle condizioni di salute, dell’attività lavorativa e del luogo di dimora del condannato;
    b) al condannato è imposto l’obbligo di non allontanarsi dal territorio del comune di dimora abituale o dove svolge la propria attività lavorativa. Se per la personalità del soggetto, o per le condizioni ambientali, la permanenza in tali luoghi non garantisce adeguatamente le esigenze di controllo o di sicurezza, l’obbligo di dimora può essere disposto nel territorio di un altro comune o frazione di esso, preferibilmente nella provincia e comunque nell’ambito della regione dove è ubicato il comune di abituale dimora. Si applicano, in quanto compatibili, i commi 1 e 2 dell’articolo 282-bis e i commi 3, 4, 5 e 6 dell’articolo 283 del codice di procedura penale.

  2. Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dei commi 5, 6, 7, 8, 9 e 10 dell’articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n° 354.

  3. Con il provvedimento che dispone la sospensione dell’esecuzione della pena, salvo specifica autorizzazione del magistrato di sorveglianza in relazione ad esigenze familiari o lavorative, è disposto, per il periodo corrispondente alla pena la cui esecuzione è stata sospesa, nei confronti del condannato il divieto di espatrio, con tutte le misure necessarie per impedire l’utilizzazione del passaporto e degli altri documenti validi per l’espatrio".

 

Commento

 

Non ostante la misura delineata dalla legge in commento sia denominata "sospensione", essa corrisponde all’assoggettamento a prescrizioni decisamente penetranti e complesse. Non si tratta, pertanto, di una sospensione, ma di un’esecuzione in forma alternativa. Tale regime è destinato, infatti, a durare quanto la pena "sospesa".

La legge prevede, innanzitutto, le seguenti prescrizioni, come congiunte e obbligatorie. In primo luogo, l’obbligo di firma presso una stazione delle Forze dell’Ordine. La dizione testuale lascia incerto se al Magistrato di Sorveglianza sia attribuito, oltre al compito di indicare quale forza dell’ordine sia competente, i giorni e orari di presentazione. La soluzione più corretta appare esportabile dalla disciplina della libertà controllata (giorni stabiliti dal Magistrato di Sorveglianza e orari concordati tra Forza di Polizia e interessato).

In secondo luogo, il divieto di allontanarsi dal comune di dimora abituale o di lavoro. Se in tale località non sono adeguatamente garantiti controllo e pubblica sicurezza, deve essere individuato un luogo alternativo, il più possibile prossimo al luogo di dimora abituale. Tale disposizione appare idonea a generare gravissimi problemi applicativi, se non interpretata con attenzione alla ragionevolezza complessiva e costituisce comunque il punto di crisi dell’automatismo della sospensione. Va subito rilevato che, con una evidente imperizia tecnica, non è previsto che la effettività della dimora sia un presupposto per la sospensione. È previsto, invece, e irragionevolmente, che, se la dimora non garantisce controlli e sicurezza, debba essere concessa la sospensione in altra collocazione, il più possibile vicina alla dimora abituale.

A ciò conseguono almeno due aspetti critici assai rilevanti. Il primo concerne il fatto che, come è noto a qualunque operatore del settore, a rigore, pressoché nessuna sistemazione garantisce alle forze di polizia possibilità di adeguato controllo. Detto in altri termini, se dovesse accertarsi tale circostanza in senso proprio e stretto, pressoché nessuna sospensione potrebbe mai concedersi, vanificandosi pressoché completamente le finalità della legge. Ne risulta che l’unica soluzione ragionevole che ne consenta la attuazione è intendere che tale inidoneità non sia quella, generica, propria di qualsiasi sistemazione domiciliare, ma una inidoneità derivante da circostanze specifiche e particolari, nettamente superiori alla media. E non vi è dubbio che tale inidoneità debba valutarsi rispetto al titolo di reato. Vengono alla mente ipotesi quali la casa familiare per reati commessi in famiglia, o la concessione in zone ad altra criminalità, specie se organizzata.

Il secondo è che, assunta la inidoneità, sia pure specifica e particolare, del luogo indicato, la legge non prevede, alla lettera, il rigetto dell’istanza, ma solo la concessione in altra località, possibilmente vicina alla dimora. Tale opzione normativa rischia di creare un impasse assolutamente inestricabile, non vedendosi come il Magistrato di Sorveglianza possa assolvere all’onere di tale probatio diabolica, senza la collaborazione dell’interessato. La soluzione più ragionevole, in un equo contemperamento degli interessi e adeguata ripartizione degli oneri, è quella che assegna all’interessato l’onere di indicare una dimora idonea. Tale onere, di mera indicazione, non è assolutamente vessatorio, essendo il soggetto l’unico in grado di conoscere le proprie possibilità abitative e comporta che, nel caso la dimora non sia verificata idonea, il Magistrato di Sorveglianza possa procedere al rigetto allo stato della istanza. Tale rigetto non pregiudica gli interessi del condannato, costituendo una mera provocatio ad avanzare una nuova istanza con indicazione di altra sistemazione abitativa.

Sono poi richiamate, in quanto compatibili, le disposizioni dei commi 1 e 2 dell’art. 282 bis c.p.p. e dei commi 3, 4, 5 e 6 dell’art. 283 c.p.p.

La prima norma comporta la possibilità, per ridurre il pericolo di recidiva, di adottare cautele che allontanino il condannato dall’ambiente familiare ove sia il rischio di nuovi atti di violenza. Con la seconda, si prevede la possibilità di limitare l’uscita dall’abitazione in alcune ore del giorno, si menzionano restrizioni territoriali (che sono però già in parte disciplinate dalle norme esplicite appena citate) e si stabilisce che esse debbono coordinarsi con le esigenze, di alloggio, lavoro e assistenza, del condannato. Ne pare conseguire che i limiti sopra descritti per la libertà di movimento (con riferimento, in particolare, al comune di dimora) non hanno carattere assoluto e rigido. Si prevede, inoltre, la possibilità di stabilire controlli sul rispetto del programma per la tossicodipendenza.

 

Si tratta di previsioni frutto di scrupolo certamente lodevole, ma viziate di una certa astrattezza. Non si vede, infatti, come possano convivere un beneficio da applicarsi in via automatica e con dichiarati caratteri di urgenza (come confermato anche dai tempi di approvazione e pubblicazione), da un lato, e l’approfondimento istruttorio che sarebbe sotteso a prescrizioni di tale complessità. Detto in altri termini, una siffatta convivenza potrebbe attuarsi in modo ottimale solo a condizione che:

  1. la sospensione potesse negarsi in mancanza della possibilità di concreta attuazione di tali prescrizioni;

  2. fosse prevista una adeguata istruttoria;

  3. fossero potenziati organi e strutture preposte a tale istruttoria. Nessuna di tali condizioni è stata realizzata.

In particolare, per quanto attiene la fase istruttoria, deve osservarsi, al di là del deficit di organico degli organi preposti, che:

  1. essa è incompatibile con i tempi di una misura urgente;

  2. non è assolutamente prevista una fase procedimentale apposita, e non è in alcun modo previsto o prevedibile un contraddittorio nel corso di tale attività. A diversamente opinare, si avrebbe la costruzione di un procedimento, articolato e complesso, destinato ad incidere profondamente sugli interessi in gioco, e svolgentesi in una zona completamente "oscura" rispetto alla luce degli articoli 111 e 24 Cost. e ciò fino a dopo l’emissione del provvedimento del Magistrato di Sorveglianza.

 

Tali considerazioni non possono che estendersi anche al richiamo dei commi 5, 6, 7, 8, 9 e 10 dell’articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354. Tale richiamo è effettuato con la clausola della "applicabilità", che non pare costituire un ostacolo alla generale rilevanza di tali norme.

Il comma 5 della norma citata da ultimo stabilisce che si rediga verbale con prescrizioni relative a rapporti con il Centro Servizio Sociale per Adulti, dimora, libertà di locomozione, frequentazioni di locali e lavoro. Importantissimo (e portatore di contenuto particolarmente innovativo rispetto alle altre disposizioni già citate) è il riferimento al CSSA, che implica che la misura si svolga sotto la direzione e il controllo di questo.

Poiché è prevista la redazione del verbale, è ragionevole ipotizzare, per quanto non previsto, che esso debba anche essere sottoscritto dall’interessato, e si tratta di adempimento certamente utile e opportuno. Dove dovrà avvenire tale sottoscrizione? L’ipotesi più ragionevole è che si applichi la disposizione, regolamentare, di cui all’art. 97 comma 3 d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 e che il verbale vada sottoscritto davanti al Direttore dell’Istituto Penitenziario. È da ritenere, inoltre, che a tale articolo debba farsi riferimento per la disciplina (se non per la disciplina diretta, per la disciplina regolamentare analogica) degli adempimenti antecedenti e conseguenti. In particolare, è da ritenere che l’ordinanza che dispone la sospensione e il verbale di sottoposizione vadano comunicati a:

all’ufficio competente per la misura, se diverso da quello che la dispone (il verbale sempre anche all’ufficio che ha disposto la sospensione);

al CSSA competente in relazione al luogo di dimora;

al PM che ha emesso l’ordine di esecuzione;

alle Forze di Polizia preposte ai controlli (previsione esplicita dell’art. 283 c.p.p.).

Il comma 6 dell’art. 47 O.P., oltre a ribadire il possibile divieto di soggiorno o obblighi (che già sono disciplinati direttamente dalla legge istitutiva della sospensione), è di notevole rilievo laddove stabilisce dice che si possono vietare attività o rapporti personali controindicati.

Il comma 7 prevede la doverosa attivazione per la soddisfazione delle ragioni della vittima del reato e l’assolvimento degli obblighi assistenza familiare.

Il comma 8 prevede modifiche delle prescrizioni a cura del Magistrato di Sorveglianza competente (quello del luogo di svolgimento della misura).

Il comma 9 prevede l’assoggettamento al controllo del CSSA.

Il comma 10 prevede che si riferisca sull’andamento della misura al Magistrato di Sorveglianza competente in relazione al luogo di svolgimento della misura.

 

Da quanto precede, risulta che, in pratica, la sospensione della pena ha i contenuti dell’affidamento in prova al servizio sociale. Sembrerebbero, allora, esportabili in toto tutte le prescrizioni dell’affidamento in prova al servizio sociale e i relativi problemi applicativi.

Ciò è indubbiamente significativo. Si tratta, in buona sostanza, di un affidamento in prova al servizio sociale alla cui base manca il giudizio di prognosi e di idoneità rieducativa, nonché, correlativamente, tutta la fase istruttoria, in senso proprio, ma che ne può avere, anzi deve avere, il contenuto e ne ha lo stesso esito.

Ne consegue che, evidentemente, le prescrizioni e i vincoli non potranno che essere formulati in termini astratti. Ciò non ostante, essi dovrebbero garantire al condannato un supporto e alla collettività un controllo e tutela un poco maggiori che non una semplice sospensione della pena.

Articolo 5
(Applicazione dell’articolo 4 della legge n° 381 del 1991)

  1. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 4, comma 1, della legge 8 novembre 1991, n° 381, come modificato dall’articolo 1 della legge 22 giugno 2000, n° 193, la sospensione dell’esecuzione della pena, ai sensi della presente legge, si considera misura alternativa.

 

Commento

 

Ai fini delle norme sulle cooperative sociali (legge 8 novembre 1991, n. 381), si considerano persone svantaggiate quelle ammesse alle misure alternative e, sempre a tali fini, si considera misura alternativa anche la sospensione prevista dalla legge in esame. Si può notare come tale prescrizione non assuma carattere decisivo rispetto alla natura, di misura alternativa o meno, di tale regime. A ben vedere, il quesito circa tale natura può avere una risposta differenziata, rispetto alle ragioni per cui tale natura è chiamata a rilevare.

Ad esempio, può essere differenziata la risposta se si tratti di definire lo status soggettivo del condannato, ovvero si debba inquadrare l’istituto, tra gli strumenti giurisdizionali, come meglio si vedrà nelle considerazioni finali.

Articolo 6
(Relazione al Parlamento)

  1. Ogni anno il Ministro della giustizia riferisce al Parlamento sullo stato di attuazione della presente legge.

 

Articolo 7
(Applicazione della legge)

  1. Le disposizioni della presente legge si applicano nei confronti dei condannati in stato di detenzione ovvero in attesa di esecuzione della pena alla data di entrata in vigore della medesima.

 

 

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