Un nuovo Giubileo...

 

Un nuovo Giubileo per chi soffre in galera

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 15 novembre 2002

 

Caro Papa, ero uno di quelle decine di migliaia che hanno aspettato di ascoltare le sue parole, credenti e no, ebrei e musulmani e cristiani, buttati in celle di isolamento o ammucchiati in celle comuni: contraltare invisibile e commosso di quel gremito e commosso uditorio davanti al quale lei parlava. L’applauso vasto e forte con cui il Parlamento ha accolto le sue frasi sulle carceri l’avrà confortata nella sua scelta. Lei può solo immaginare l’applauso frantumato che si è levato dalle celle, sonante o muto, anche il mio. Non sarei stato deluso se lei avesse pronunciato solo una parola, una specie di eco ultima della chiamata giubilare, un richiamo, come si fa con certi vaccini di cui bisogna rinnovare il vigore. Lei invece ha voluto essere esplicito e circostanziato.

Mi vergognavo un po’ di star lì sul mio sgabello, ad ascoltare il suo discorso per una circostanza senza precedenti, con la sola impazienza di sapere se sarebbe arrivato a nominare la galera, e come. Intanto lei diceva molte cose diverse, di quelle che altrimenti mi interesserebbero molto.

Sull’Italia e la sua tradizione religiosa e artistica: sono sempre più tentato di pensare che il bivio fatale per le nostre culture fu l’ammirazione o il divieto per le immagini. Poi l’esortazione a confidare nel patrimonio degli avi. Ha detto così, "Gli avi", parola polacca, il titolo di Adam Mickiewicz.

E poi la parola più polacca e più universale, la parola cardinale del suo intero discorso: solidarietà - Solidarnosc. Altri accenti pregnanti ho riconosciuto, come quell’espressione sul "secolo Ventesimo, appena passato", nella quale sembra di sentirlo, quel secolo schiacciato fra due Sarajevo, che non se ne vuole andare, ci bracca ancora. Man mano che la parola solidarietà passava dai cerchi più larghi - la solidarietà e la coesione fra le varietà nazionali e le fazioni politiche e le parti sociali - a quelli più stretti e penosi - i deboli, i poveri, gli stranieri, coloro cui occorre andare incontro "di cuore" - si compiva ormai la discesa nel punto più oscuro e ferito del mondo debole. Attenzione alle carceri, segno di clemenza, riduzione della pena.

Ecco, è detto. Mesi di digiuni, ferri battuti, scioperi, silenzi, sono arrivati ai loro esaudimento: piuttosto, al loro riconoscimento. C’è una sofferenza, giacimenti interi di sofferenza, superflua e a fondo perduto: e una voce rispettata usa il rispetto di cui gode per riscattare quella dissipazione.

Vedremo che cosa succederà, nelle Commissioni, nelle aule, nei ministeri, luoghi nobili e rugginosi. Tuttavia, anche se niente succedesse, o peggio che niente - una buona volontà simulata e poi buttata via - questa volta, a differenza che nel tempo straordinario del Giubileo, la speranza giusta è stata riconosciuta, detta, e applaudita.

A me, dalla galera - punto di vista deforme - è sembrato bellissimo che dopo la delusione del Giubileo, caduta come una pietra sopra alla speranza dei detenuti, tempo d’eccezione volto in amarezza mortificata, dei detenuti si siano rimessi, pochi mesi fa, a testimoniare la propria dignità offesa.

Bellissimo che, come per caso, la sua accettazione dell’invito delle Camere abbia offerto a quella lotta degna, mite e però soffocata, il sostegno di un appuntamento insperato: l’occasione di acchiappare per la coda la pratica archiviata del Giubileo, e di assegnare una promessa a un duemilaedue ordinario, né il primo né l’ultimo di un millennio o di un secolo o di un decennio, un autunno qualunque di un anno qualunque. Un Giubileo alla rovescia, da recupero: l’offerta di una pausa, un ricominciamento, un cambiamento di vita, in un momento senza titoli, gratis, per il solo incontro di diverse e opposte buone volontà.

E bello, perché noi umani ci facciamo forza con gli anniversari, e i giorni di gala, e le mattine presto in cui cambiar vita: ma poi li perdiamo, i giorni rossi del calendario e le albe dei giuramenti, e tiriamo avanti nei giorni feriali senza far credito a noi stessi. Lei, caro Papa, ha adesso un legame speciale con questa possibilità di riserva, dopo averlo avuto con i luoghi e le date fatidiche: le due Sarajevo, appunto, o la sua Fatima, e la caduta del Muro, e, più suggestivo e temerario, l’appuntamento col Duemila.

Sembrava il suo traguardo, arduo, per giunta. E quando l’ha tagliato, un applauso universale e ammirato l’ha accompagnata, ma anche – involontaria e naturale - la sensazione che lì finisse. Non parlo dei coccodrilli che qualunque cassetto di giornale metodico deve aver pronti per lei e per tanti altri, del resto, anche sulla cresta dell’onda. Parlo piuttosto degli aggiornamenti di cui i necrologi hanno avuto bisogno, nonostante l’antica ferita, e la malattia, e la fatica, e le scommesse sulle dimissioni. Chissà se lei stesso, ma il suo pubblico, noi, guardiamo al suo viaggio che continua come a un tempo supplementare. Non so come la teologia conosca e tratti questa nozione, così nota alle nostre filosofie calcistiche. Un tempo in più - un tempo di grazia, per il condannato a morte. La condanna a morte è la brutale forzatura della condizione di tutti noi che viviamo. Non dirò la banalità deprimente per cui la vita è dall’inizio un tempo supplementare. Ci sono davvero i tempi supplementari. Per esempio, questa sua vecchiezza in una qualunque fine d’anno del XXI secolo, usata per delle prime volte: come la prima volta della visita di un Papa al Parlamento italiano.

E per qualche speranza di recupero: il rinnovo dell’appello giubilare inevaso. Questa idea sospinge, chi abbia cuore, all’impegno di un indulto. Il resto - sovraffollamento, finanziamenti, edilizia, carenze ed eccedenze di personale - è contorno, cumulo di aggravanti. Chi risponde in loro nome non sta al punto. Il punto è quella idea, che si possa cambiar vita, e che si debba essere aiutati a farlo. Capirlo, vuol dire accorgersi, credo, che riguardi specialmente i carcerati, ma anche i carcerieri.

Vedremo che cosa succederà dell’applauso che le hanno tributato. Per ora prendiamolo sul serio. Le avevo scritto, un mese fa, per raccontarle l’aspettativa delle carceri. In carcere si sta, senza niente da aspettare: salvo che arrivi il ronzio di una buona notizia. Le avevo anche detto come fosse sconcertante quella specie di divisione dei ruoli per cui alla gente di chiesa, la nostra brava suora e il nostro bravo cappellano, fino ai vescovi e al Sommo Pontefice, viene naturale di visitare i carcerati e chiamarli - e farsene chiamare sorelle e fratelli; e invece le autorità dello Stato sembrano per lo più tenersi al viso dell’arme nei confronti dei detenuti (eppure ogni tanto tocca a loro, e ci rimangono male) e quasi vergognarsi di mostrar loro una simpatia umana.

Voglio ora dire - senza restare in soggezione delle mie personali vicende - che in questo mese è successo che il Presidente Ciampi sia andato a far visita al carcere per adulti di Spoleto: anche questa una prima volta, (sorprendente, se si pensa almeno a Sandro Pertini, che non smise mai di ricordarsi d’esser stato un prigioniero, forse con un involontario pregiudizio sulla nobiltà politica e sui "comuni").

A Spoleto Ciampi ribadì idee importanti sulla finalità costituzionale della pena. Non fu tanto il suo discorso a piacermi: me lo aspettavo. Mi piacque la confidenza affabile e - quasi affettuosa dei gesti scambiati con i detenuti, gente da "alta sicurezza", gente da cui stare ufficialmente in guardia: mani toccate, visi accarezzati. Gesti di famiglia, paterni, fraterni, nel luogo in cui i corpi delle persone e i loro bisogni sono per ufficio schiacciati e mutilati.

A guardare da qui, quella visita fece da premessa alla sua. Ora i parlamentari si chiederanno con più precisione che cosa voglia dire un segno di clemenza. Che persone, donne e uomini, i quali usciranno comunque di galera - fra uno, due, tre anni - ne escano un po’ prima, e insieme. Come in un giorno di festa. Come in un Giubileo. Qualcuno tradirà la fiducia. Qualcuno non ce la farà. Qualcuno sì.

 

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