Indulto: discussione alla Camera

 

XV Legislatura - Camera dei Deputati

Seduta n. 30 del 24/7/2006

Discussione sulle linee generali - A.C. 525-bis ed abbinate

 

Discussione della proposta di legge: Buemi ed altri: Concessione di indulto (Testo risultante dallo stralcio degli articoli 1 e 3 della proposta di legge n. 525, deliberato dall’Assemblea il 18 luglio 2006) (A.C. 525-bis ); e delle abbinate proposte di legge: Jannone; Boato; Boato; Forlani ed altri; Giordano ed altri; Capotosti ed altri; Crapolicchio ed altri; Balducci e Zanella (A.C.372-662-bis-663-bis-665-bis-1122-bis-1266-bis-1323-bis-1333-bis) (ore 9,37).

 

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge Buemi ed altri: Concessione di indulto; e delle abbinate proposte di legge: Jannone; Boato; Boato; Forlani ed altri; Giordano ed altri; Capotosti ed altri; Crapolicchio ed altri; Balducci e Zanella.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell’Assemblea (vedi calendario).

 

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari di Alleanza Nazionale e di Forza Italia ne hanno chiesto l’ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell’articolo 83, comma 2, del regolamento.

Avverto, altresì, che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Il relatore, onorevole Buemi, ha facoltà di svolgere la relazione.

 

ENRICO BUEMI, Relatore. Signor Presidente, signor sottosegretario, colleghi, dopo circa sei mesi l’Assemblea - sia pure in diversa composizione a causa dell’avvicendamento di legislatura - torna nuovamente ad occuparsi di un provvedimento di clemenza.

Una maggiore consapevolezza della necessità di ricondurre alla normalità la situazione esistente nelle carceri, dove lo Stato è inadempiente nell’attuare i principi costituzionali che attengono all’esecuzione della pena, e il mutato contesto politico nel quale oggi discutiamo, al contrario di allora - ovvero non ci troviamo in mezzo alla campagna elettorale - sono elementi che consentono di ritenere che finalmente si possano realizzare le condizioni politiche necessarie per il raggiungimento del quorum qualificato richiesto dalla Costituzione per approvare una legge di concessione dell’indulto.

Un’ulteriore differenza rispetto alle esperienze della scorsa legislatura è data dal contenuto più limitato del provvedimento all’esame dell’Assemblea, che si limita al solo indulto. L’esigenza di porre rimedio, senza indugio, alla insostenibile e sempre più crescente invivibilità delle carceri ha reso necessario sfasare l’esame e l’approvazione dei provvedimenti di amnistia e di indulto. La maggiore complessità nella quale ci si imbatte quando si affronta il tema dell’amnistia avrebbe finito per rallentare anche la concessione dell’indulto, la quale, invece, non è differibile.

La scelta di dare priorità all’indulto non significa voler abbandonare l’ipotesi di amnistia. Proprio perché vi è la consapevolezza che la concessione dell’indulto, senza varare una amnistia, costituirebbe un intervento irrazionale, la Commissione ha chiesto all’Assemblea, che ha deliberato in tal senso, lo stralcio dai provvedimenti in esame delle disposizioni in materia di amnistia. Ciò consentirà alla Commissione di iniziare molto presto, probabilmente la prossima settimana, l’esame delle proposte di legge in materia di amnistia risultanti dallo stralcio.

Vi è l’esigenza di applicare entrambi gli istituti, anche se, per lo stato di necessità che mi appresto a giustificare, si impone, al momento, la separazione delle due misure di clemenza.

Un provvedimento di indulto è necessario, urgente, indispensabile e non più procrastinabile per ripristinare una situazione di legalità nelle carceri e di efficienza nel campo della giustizia penale. Le carceri italiane ospitano circa ventimila detenuti in più rispetto ai posti disponibili, i quali - è bene ricordarlo - sono stati calcolati sulla base di parametri di vivibilità estremamente rigorosi.

Il sovraffollamento quale uno dei principali fattori che rendono invivibili le carceri, oltre a costituire una pena illegale aggiuntiva a quella legale, finisce per rendere quasi inesistente la possibilità di percorsi individuali di reinserimento nella società.

Questo è un aspetto fondamentale. Quando si affronta il tema dell’indulto, si deve sempre tenere conto che un carcere vivibile è una garanzia, in primo luogo, per la società civile. È impensabile, infatti, che il carcere dove la dignità dell’uomo è mortificata sia in grado di restituire alla società persone rieducate. È innegabile, infatti, che dalle condizioni ambientali nelle quali è fatta vivere una persona condannata dipende se, al termine della pena, questa persona sarà migliore o peggiore.

Il livello di guardia raggiunto dal sovraffollamento non solo costituisce un rischio di continua violazione del principio costituzionale secondo cui sono vietati i trattamenti contrari al senso di umanità, ma ha anche ridotto ai minimi termini le risorse umane e finanziarie destinate ad una efficace politica per il reinserimento dei detenuti. L’indulto rappresenta, quindi, una vera e propria urgenza sociale, che sarebbe non solo riduttivo, ma anche errato, considerare esclusivamente come un mero sconto di pena in favore dei soggetti condannati per ripagarli delle insostenibili condizioni delle carceri.

L’indulto, infatti, non è solo questo. Per essere valutato correttamente, l’indulto deve essere riportato nell’ottica del ripristino della legalità e del buon governo dell’amministrazione della giustizia e della pena. Un sistema carcerario in cui la legalità è negata, è un sistema carcerario che non garantisce la sicurezza dei cittadini, bensì crea nuovi recidivi, come, infatti, avviene nella realtà quotidiana.

Altro profilo rilevante dell’indulto è che esso consente di salvaguardare anche i diritti di coloro che lavorano nelle carceri. Mi riferisco al personale amministrativo e a quello di polizia penitenziaria, nonché a tutti coloro che si occupano direttamente della delicatissima fase del recupero sociale dei detenuti. Il sovraffollamento determina per questi soggetti una vera e propria mortificazione delle condizioni di lavoro.

Una volta collocato l’indulto in un’ottica anche rieducativa, occorre precisare, comunque, che esso non rappresenta la soluzione unica dei problemi penitenziari. Per risolvere tali problemi, occorrono anche altre misure, tra le quali mi limito a ricordare: la riforma del sistema delle pene alternative; la rivisitazione della normativa sulla recidiva, recentemente modificata; l’istituzione del garante o difensore dei diritti dei detenuti; la previsione dell’affettività in carcere; il diritto di voto dei detenuti; la giurisdizionalizzazione dei reclami dei detenuti; l’ordinamento penitenziario minorile; l’ampliamento dei soggetti istituzionali con diritto di visita nelle istituzioni penitenziarie da parte dei sindaci; la previsione del reato di tortura.

Inoltre, occorre rammodernare le strutture penitenziarie.

Tutte queste misure hanno un senso, se sono precedute dalla concessione dell’indulto. Non posso fare a meno di ricordare la circostanza che, da ben 15 anni, in Italia, non è stato emanato alcun provvedimento di amnistia e di indulto. Da quando nel 1992 è stato introdotto il quorum qualificato della maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, il Parlamento non è più stato in grado di approvare un atto di amnistia o di indulto. Da allora, sono state presentate senza successo decine di proposte di legge in tema di amnistia e di indulto.

Lo stesso Pontefice, Giovanni Paolo II, in occasione della visita al Parlamento, nel novembre 2002, ebbe a dire che un segno di clemenza verso i carcerati, mediante una riduzione della pena, costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolare l’impegno di personale recupero in vista di un positivo reinserimento nella società.

Come ho già avuto modo di sottolineare, l’indulto rappresenta un’urgenza sociale. È bene tenere conto che un indulto di tre anni non sarebbe, comunque, in grado di riportare a normalità le carceri. A maggio di quest’anno, i detenuti erano 61.353, a fronte di una ricettività regolamentare di 45.490 posti. Secondo le stime del Ministero della giustizia, un indulto di 2 anni porterebbe alla scarcerazione di 10.481 unità, mentre uno di tre anni riguarderebbe 12.756 unità. L’effetto dell’amnistia, oltre all’ovvia riduzione di procedimenti, è stato a sua volta stimato in un ulteriore 20 per cento. Ne consegue che il solo indulto, anche nell’ipotesi di tre anni, non consentirebbe di ridurre la popolazione carceraria entro i limiti di capienza.

Per quanto riguarda, più in dettaglio, la proposta di legge della Commissione giustizia presentata all’Assemblea, essa è volta a concedere, per i reati commessi fino al 2 maggio 2006, un indulto revocabile per le pene detentive fino a tre anni, per quelle pecuniarie sino a diecimila euro e per le pene accessorie temporanee. Dall’indulto sono esclusi i reati che sono stati considerati di particolare allarme sociale.

Il lavoro della Commissione si è concentrato sui seguenti punti: individuazione delle date di applicazione dell’indulto, della misura dell’indulto, delle esclusioni oggettive, del periodo di osservazione del soggetto che ha beneficiato dell’indulto, al fine di un’eventuale revoca della misura. La data del 2 maggio 2006 è stata individuata sulla base del parametro costituzionale del terzo comma dell’articolo 79 della Costituzione, secondo cui l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge. Considerato che la Commissione ha esaminato una serie di proposte di legge abbinate, è stata considerata come data di presentazione, ai fini del citato articolo 79, quella della proposta di legge abbinata presentata per prima, la proposta A.C. 372, presentata il 3 maggio 2006 dall’onorevole Jannone. Naturalmente, si tratta di un termine ultimo che non può essere superato, mentre nulla osta a prevedere un termine più risalente nel tempo.

In ordine all’individuazione in tre anni della misura dell’indulto, si è ritenuto che una misura più ridotta non avrebbe consentito al provvedimento di conseguire risultati apprezzabili in termini deflattivi.

Di particolare delicatezza è stata l’individuazione dei reati considerati di particolare allarme sociale, come tali non meritevoli dell’indulto. Si tratta di un’operazione estremamente delicata, in quanto potrebbe rischiare la violazione del principio costituzionale di parità di trattamento, se non operata con cautela. Questa operazione si sovrappone a quella che il legislatore effettua nell’individuazione, in astratto, di un limite massimo di pena per ciascun reato.

Il parametro utilizzato dal legislatore è proprio quello della gravità del fatto e, quindi, anche dell’allarme sociale, il quale costituisce un elemento di gravità. È evidente che occorrono motivazioni oggettive per escludere dall’indulto reati puniti con pene uguali o inferiori a quelle previste per i reati ai quali l’indulto viene applicato. Dall’indulto, quindi, possono essere esclusi unicamente quei reati che destano nella collettività un particolare allarme sociale.

La Commissione ha individuato questi reati nei delitti di terrorismo, mafia, pedofilia, violenza sociale e traffico di droga.

Altro aspetto di particolare importanza è quello della revocabilità dell’indulto. In Commissione, da parte di tutte le forze politiche, si è convenuto sull’opportunità di prevedere la revocabilità dell’indulto nel caso in cui il soggetto beneficiario ritorni a delinquere. La revocabilità, infatti, rappresenta uno strumento preventivo necessario per un corretto funzionamento dell’istituto.

Il testo, riprendendo quanto previsto dall’indulto nel 1990, prevede espressamente che l’indulto sia revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del provvedimento in discussione, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni.

In Commissione si è a lungo discusso sull’opportunità di estendere a sette o a dieci anni il periodo di revocabilità (sembrando un termine maggiore di quello di cinque anni più adeguato per il conseguimento della finalità preventiva della revocabilità) e sulla previsione di una condizione di revocabilità più rigorosa della pena detentiva non inferiore a due anni. Comunque, come si può constatare dal testo presentato all’Assemblea, si è confermata la previsione dei cinque anni.

 

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

 

LUIGI LI GOTTI, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

 

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Balducci. Ne ha facoltà.

 

PAOLA BALDUCCI. Signor Presidente, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, da troppi anni, da parte di esponenti del mondo politico, della magistratura e dell’avvocatura, si susseguono prese di posizione sull’opportunità e l’urgenza di adottare provvedimenti di amnistia o di indulto, senza però che a tali prese di posizione abbiano fatto seguito decisioni concrete. Ciò ha contribuito a determinare e deludere aspettative all’interno del mondo carcerario e, più in generale, a creare un clima di incertezza tra gli operatori della giustizia.

Il programma dell’Unione, sottoscritto da tutte le componenti politiche del centrosinistra, aveva correttamente posto come centrale l’adozione di provvedimenti di clemenza che accompagnassero un processo più organico di riforma del sistema della giustizia penale.

Con coerenza, oggi, il Parlamento, con il decisivo contributo delle forze di maggioranza e del Governo, è chiamato a dare risposta alle domande che da anni provengono dal mondo carcerario, dagli operatori della giustizia e dagli operatori del volontariato.

La convergenza che si è determinata su tale provvedimento in Commissione tra componenti della maggioranza e dell’opposizione rappresenta il migliore viatico per l’avvio di una stagione di riforme improntata al dialogo non solo tra le parti politiche, ma anche e soprattutto tra e con i protagonisti sul campo del sistema giustizia e, in ultima analisi, nell’interesse della comunità dei cittadini.

Non appaia, quindi, fuor d’opera il ringraziamento che rivolgo al Presidente della Camera, al Governo e, in specie, al ministro della giustizia e a tutti i componenti della Commissione giustizia di tutte le parti politiche, che hanno consentito, ciascuno nell’ambito delle proprie prerogative istituzionali, di approdare ad un risultato importante, che va al di là del provvedimento in questione e si configura come positiva premessa per il lavoro che ci attende.

Da troppi anni il tema della giustizia divide e anima conflitti spesso strumentali. Abbiamo oggi l’occasione storica di annodare le fila di un dialogo che, partendo da visioni culturali e ideali differenti, si ponga l’obiettivo comune di una modernizzazione del sistema giustizia ispirata alla tutela dei diritti del cittadino, all’efficienza e alla mitezza.

La giustizia penale italiana versa in condizioni critiche e necessita di riforme strutturali finalizzate a coniugare maggiore celerità dei tempi processuali e maggiori garanzie per i cittadini anche in termini di sicurezza e certezza della pena, assumendo con coraggio l’iniziativa per affrontare l’inaccettabile e incivile situazione delle strutture detentive.

L’indulto - strumento eccezionale - costituisce una causa estintiva della pena, come prevede espressamente l’articolo 174 del codice penale, e la sua applicazione condona in tutto o in parte la pena. Se, però, non sarà accompagnato, appunto, da riforme strutturali, costruzione di nuovi edifici penitenziari, incremento dell’organico dell’amministrazione penitenziaria, potenziamento del servizio sociale per consentire un reale inserimento, ripensamento del ruolo della magistratura di sorveglianza nell’applicazione delle misure alternative alla pena, tale provvedimento può rivelarsi inutile.

La proposta all’esame dell’Assemblea risponde a problemi che sono da anni sotto gli occhi di tutti, denunciati in ogni sede ed oggetto di richiamo da parte di autorità morali e religiose. L’abbiamo detto più volte, e lo ripeto anch’io: non dimentico le parole pronunciate in quest’aula dal Pontefice né dimentico, a maggior ragione, gli applausi di adesione che - maggioritariamente - si levarono da tutti gli scranni.

Non ritengo di sottoporre, in questa sede, l’elencazione fredda di numeri che testimoniano dell’inaccettabilità della situazione carceraria, della sua inumanità e della sua inefficienza. Tali numeri sono noti ad ognuno di noi; e sappiamo tutti che, dietro di essi, vi sono casi umani troppo spesso dimenticati. I Verdi, da sempre, hanno fatto dell’umanità della condizione carceraria e della mitezza del sistema penale una bandiera, l’elemento che misura il grado di civiltà di un paese. A ciò si aggiunga l’aberrazione di un sistema sanzionatorio tutto imperniato sulla misura detentiva, la più afflittiva. Noi crediamo, invece, che vada riformato profondamente il sistema sanzionatorio, prevedendo misure alternative proporzionate al disvalore della condotta. Insieme a tale riforma, che riteniamo importante ed in linea con i più civili sistemi europei, va affrontato il tema della depenalizzazione di condotte che, per la loro natura, vanno inquadrate nell’ambito degli illeciti amministrativi.

Non si è riusciti a fare nulla per migliorare la situazione esistente, già molto deficitaria anche in virtù di una mentalità deteriore che considera i detenuti carcerati espressione di una società reietta dalla quale prendere soltanto le distanze, così tradendo lo spirito della norma costituzionale, che assegna al fine rieducativo un ruolo centrale, ed anzi discriminante, nella legittimità della misura detentiva.

La mia esperienza di avvocato penalista e di studiosa del processo penale, che ha avuto e continua ad avere come maestri Giovanni Conso e Giuliano Vassalli, mi induce a ricordare a me stessa ed a tutta l’Assemblea che il grado di civiltà di un paese è dato dell’efficienza del suo sistema penale, dove l’efficienza va intesa non solo nel senso di certezza della pena, ma anche nel senso di proporzionalità ed umanità, attraverso un processo penale giusto che garantisca i diritti di difesa. Per queste ragioni, onorevoli colleghi, mi sento di dire oggi che esistono le condizioni perché possa essere adottato un provvedimento di clemenza, soprattutto se finalizzato a garantire il funzionamento della giustizia nel quadro di un processo riformatore che deve vedere tutto il Parlamento impegnato.

Il testo al nostro esame è il risultato della discussione svoltasi nell’ambito della Commissione giustizia ed ha ricevuto parere favorevole anche da parte di alcune rilevanti componenti dell’opposizione. La Commissione è stata il luogo del dialogo: spero che anche in Assemblea avvenga lo stesso. Si è deciso di redigere un unico testo, frutto dell’unificazione delle varie proposte originarie. Quale firmataria di una delle proposte confluite nel testo oggi all’esame dell’Assemblea, intendo ribadire la posizione del gruppo che rappresento, orientata a collegare il provvedimento ad uno concernente l’amnistia (da calendarizzare subito dopo la pausa estiva) e, più complessivamente, ad una riscrittura sistematica della normativa penale processuale attenta a coniugare diritto alla sicurezza, certezza della pena e garanzie del cittadino, nel quadro di una missione civile e moderna del sistema penale.

Una particolare sollecitazione desidero rivolgere a quegli amici della maggioranza che esprimono perplessità sul provvedimento in esame. A questi amici voglio ricordare che la difesa della legalità, da non confondere mai con il giustizialismo, di facile presa populistica, si alimenta proprio della capacità delle istituzioni di fornire risposte forti, attente all’interesse generale, scevre da visioni ideologico-fideistiche e da intenti personalistici. Sono integralmente d’accordo con quanto ha dichiarato in un’intervista, qualche giorno fa, Anna Finocchiaro, la quale, rispondendo ad una domanda sugli effetti del provvedimento rispetto a determinate situazioni personali, ha affermato: «Se davvero vogliamo fare le leggi pensando a qualcuno in particolare, allora io in testa ho le donne che allevano i bambini in carcere. Sono una cinquantina. È una vergogna: basterebbe mettere a disposizione qualche alloggio!».

E io aggiungo che bisogna tenere conto dei tanti tossicodipendenti ed extracomunitari, ormai la maggioranza della popolazione carceraria, che si trovano a scontare una pena detentiva in condizioni spesso disumane e, per molti versi, criminogene, lontane da quel fine rieducativo finalizzato al reinserimento nella società che rende un sistema sanzionatorio costituzionalmente accettabile. Un pensiero solidale va sicuramente anche al personale carcerario, che vive spesso in situazioni disumane.

Nel merito, sempre a questi amici, ricordo che il vero discrimine punitivo per i reati di tipo finanziario o contro la pubblica amministrazione è costituito dalle pene accessorie che dovranno essere sicuramente modificate in un nuovo sistema più moderno. Sono convinta, onorevoli colleghi, che stiamo scrivendo una pagina parlamentare importante, che richiama tutti ad un senso di responsabilità ed alla consapevolezza di rappresentare l’intera comunità nazionale. Stiamo dando risposta ad un tema che sollecita le coscienze, il senso di umanità, i principi di civiltà di un paese. Spero che sarà questo l’obiettivo che insieme intenderemo perseguire, nel rispetto delle diversità ideali e politiche, ma nell’interesse del paese (Applausi).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mario Pepe. Ne ha facoltà.

 

MARIO PEPE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor sottosegretario, ho ragione di credere, o speranza di credere, che domani questo provvedimento troverà i numeri in quest’aula per la sua approvazione. I numeri che la Costituzione ci impone li abbiamo cercati per molte legislature e, nonostante autorevoli ed appassionati appelli, non li abbiamo trovati.

Voglio anche sperare che il Senato non modifichi il testo, perché il provvedimento possa essere approvato per quei detenuti che aspettano la libertà prima della pausa estiva. Altrimenti, questo gesto di clemenza, questo atto di misericordia, diventa un atto di misericordia crudele o, peggio, una beffa.

L’emergenza umanitaria nelle carceri è nei numeri: 60 mila detenuti in un sistema che ne può contenere 40 mila. Ho ancora davanti ai miei occhi la cella che ho visitato pochi giorni fa: i detenuti con gli asciugamani bagnati sulla fronte per difendersi dal caldo e sui loro volti, illuminati da una lama di luce che filtrava attraverso le sbarre, sofferenza e speranza. Ecco, il Parlamento deve fare i conti e confrontarsi con la sofferenza e la speranza dei detenuti.

Signor Presidente, nelle carceri italiane non ci sono solo pericolosi criminali: i detenuti per reati gravi di sangue o di criminalità organizzata sono solo il 12 per cento. Prevalgono i poveri cristi, i cosiddetti cani senza collare cresciuti sui marciapiedi delle nostre città. Nelle carceri italiane si sono date appuntamento le persone più deboli della nostra società: i tossicodipendenti, gli extracomunitari, gli emarginati mentali, i disturbati mentali. Ebbene, queste persone, come disse il cardinal Martini alla vigilia del Giubileo, non hanno bisogno di pene alternative, ma di alternative alla pena. Non c’è futuro per i tossicodipendenti dietro le sbarre e neanche a dire che il carcere rappresenta una specie di barriera all’uso della droga: nulla di più falso! La droga entra nelle nostre carceri nei modi più disparati: attraverso i cannelloni ripieni, attraverso i tacchi delle scarpe, nel bacio della fidanzata, sotto i francobolli. Il carcere non può essere la risposta alla tossicodipendenza.

Si parlava prima del sovraffollamento, ma il sovraffollamento è solo l’ultima delle sofferenze dei detenuti. Esistono sofferenze peggiori: le sofferenze dei diritti negati. Più volte mi sono chiesto: le leggi che questo Parlamento ha approvato sono valide anche per i detenuti? Se è così, perché vengono disattese?

I detenuti non portano più il pigiama ed il berretto cifrato, ma rappresentano un numero, un fascicolo che il tribunale di sorveglianza ha aperto poche volte per concedere quei benefici divenuti diritti.

E che dire del diritto alla salute in carcere? Nelle carceri ci sono patologie emergenti, che fanno del carcere un concentrato spaventoso di malati e di malattie: la tubercolosi, portata nelle nostre carceri dagli immigrati, i 10 mila malati di epatite C, frutto della promiscuità del sovraffollamento (l’epatite C uccide più dell’AIDS); e poi i disturbi mentali, i suicidi, che sono particolarmente frequenti fra i detenuti ancora ufficialmente innocenti, ossia quelli in attesa di giudizio.

Signor Presidente, che dire della grave situazione della medicina penitenziaria, smantellata dai decreti Bindi? I miei colleghi medici vivono un doppio disagio in carcere: sono costretti a curare le malattie che il carcere crea e vivono anche il disagio dell’incertezza del loro futuro. Mi auguro che la Commissione giustizia possa riprendere la discussione della mia proposta di legge sul riordino della medicina penitenziaria.

L’indulto, dunque, diventa ineludibile. L’onorevole Pecorella, in un pregevole articolo comparso su Il foglio, parla di moralità dell’indulto, perché l’indulto ripaga i detenuti di quella sofferenza rispetto alle pene aggiuntive che il carcere infligge. Consentitemi di leggervi un passo di quell’articolo: «La pena dovrebbe consistere soltanto nella perdita della libertà che sta fuori dal carcere, mentre in carcere si dovrebbe garantire che un uomo possa restare tale, svolgendo ogni forma di attività che gli consenta di rieducarsi e di essere pronto a rientrare nella società».

Signor Presidente, a questo punto vorrei rivolgermi al mio collega Consolo e a tutti coloro che voteranno contro questo provvedimento, perché preoccupati della sicurezza dei cittadini e dei loro beni. La sicurezza dei cittadini passa anche attraverso carceri più umane. Incrudelire le pene dei detenuti significa creare nemici dello Stato che, una volta fuori, si macchieranno di delitti ben più gravi di quelli per i quali erano stati incarcerati.

L’indulto non è un atto di capitolazione È un patto fra lo Stato e i detenuti, clemenza in cambio di buona condotta per cinque anni. Quindi, l’indulto coniuga sicurezza e clemenza. Ma l’indulto deve essere l’inizio di un cammino di riforme, deve seguire l’amnistia obbligatoriamente per diminuire la sofferenza dei processi pendenti, per evitare, come diceva l’onorevole Pecorella, di celebrare molti processi inutili per effetto dell’indulto. L’indulto deve essere l’inizio di un cammino di riforme del nostro sistema penale.

Mi avvio alla conclusione, ricordando che, in questi anni appassionati di esperienza nella Commissione giustizia e nel comitato carceri, ho avuto modo di girare l’Italia in un pellegrinaggio laico delle carceri italiane e di approfondire i problemi dei detenuti. Mi hanno colpito molto le parole che un detenuto disse al proprio medico, professor Cerando, sono la spia della situazione, lo specchio fedele della condizione del detenuto prigioniero: vivere in cella è come vivere in un corridoio; se uno cammina, l’altro sta disteso sulla branda. Si mangia gomito a gomito, si dorme come in un’astronave; devi contenderti i centimetri, gli spicchi di luce e di sole e, attraverso di essi, la vita.

Mi auguro, signor Presidente, anche grazie alle riforme che faremo, di non sentire più queste parole (Applausi).

 

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Suppa. Ne ha facoltà.

 

ROSA SUPPA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, prendere la parola in quest’aula per la prima volta per anticipare il mio voto favorevole sulla proposta di legge oggi in discussione mi emoziona, ma mi gratifica e non mi impedisce, tuttavia, di avvertire la responsabilità del momento che investe me come ciascuno dei presenti in quest’aula.

Un provvedimento clemenziale non era ulteriormente rinviabile. Sono ormai trascorsi, nonostante le aspettative più volte createsi in questi anni, più di 15 anni dall’ultima legge di indulto ed il Parlamento non può più sottrarsi alle sollecitazioni che sono venute non solo dall’ambiente giudiziario e carcerario, ma anche dal Santo Padre e dal Presidente della Repubblica. Sarebbe stato troppo facile rifiutare di affrontare un argomento per molti versi scomodo - un argomento che, certamente, non riceve riscontri in termini elettorali, anzi può comportare il rischio di far perdere il consenso già acquisito -, ma vi sono scelte a cui siamo chiamati dalla nostra coscienza e che dobbiamo compiere con responsabilità. Scelte che devono essere informate al senso dello Stato, rifuggendo dai luoghi comuni e delle facili argomentazioni, facendosi carico, nel rispetto anche delle paure diffuse nel nostro paese - e solo questi sono i motivi delle esclusioni oggettive -, di spiegare a fondo le ragioni e le finalità vere di un provvedimento di clemenza.

Sono profondamente convinta che la privazione della libertà sia la punizione più grande che uno Stato democratico possa infliggere ad un individuo; altro non è consentito in una società civile. Tutto quanto eccede la privazione della libertà diventa arbitraria ed illegittima violenza, è un’afflizione ulteriore che si aggiunge alla pena comminata. Per questo, uno sconto di pena non rappresenta la resa dello Stato, come hanno detto i colleghi che mi hanno preceduto, ma la scelta di uno Stato civile e democratico di riequilibrare pene accessorie perché queste vengono scontate in modo inumano.

Vi è, quindi, la necessità etica e giuridica di restituire alla pena la funzione che le è propria, secondo il dettato costituzionale e la filosofia del nostro ordinamento penitenziario, che è la filosofia di ogni società civile. La pena come rieducazione, fuori da intenti retributivi, perché solo un’esecuzione della pena volta al recupero sociale vale a rendere legittimo, anche sul piano morale, il potere di punire delle democrazie contemporanee. Il nostro sistema carcerario sembra fondato su un paradosso giuridico: «l’illegalità legale».

Una detenzione scontata in condizione civili - e, quindi, con modalità legali - è, invece, il presupposto affinché lo Stato pretenda il rispetto delle sue regole da chi queste stesse regole ha violato. È in questa ottica che possono condividersi anche le ragioni pratiche che spingono verso l’emanazione di un provvedimento di indulto, indulto come mezzo deflattivo contro il grave problema del sovraffollamento delle carceri, che non è sicuramente l’unico problema, ma è, comunque, alla base di tutte le questioni.

I numeri sono ormai noti, li ha esposti bene il relatore: oltre 61 mila persone detenute rispetto ad una ricettività di 43 mila, aumento delle patologie del sistema nervoso, purtroppo stabile il numero dei suicidi (57 nel solo 2005), comunque un aumento dei tentati suicidi (circa 900) e, addirittura, circa 6 mila atti di autolesionismo. Il sovraffollamento raggiunge in Campania, la mia regione, ed in particolare in alcune strutture carcerarie, cifre così elevate che è veramente difficile garantire le condizioni materiali minime di civiltà. Nel carcere di Poggioreale, a Napoli, il rapporto tra il numero di educatori e di detenuti è di 1 a 400. Un dato che si commenta da solo ai fini della risocializzazione del condannato, nonostante lo straordinario lavoro - lo voglio rimarcare - che viene svolto da tutti gli operatori. Mi limito ai dati perché è ancora vivo il monito che ho ricevuto da un detenuto del carcere di Poggioreale, che mi diceva: «Non si può raccontare quello che non si è vissuto e descrivere il carcere non vivendolo: è impossibile, non fatelo».

Il nostro carcere non solo è inumano, tanto da far ricevere all’Italia le denunce da tutte le associazioni umanitarie e anche dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, ma, soprattutto, non riesce a dare, nell’interesse primario della nostra collettività, uno scopo alla carcerazione, che - non mi stancherò mai di ripeterlo - deve tendere alla rieducazione e, talvolta, addirittura alla iniziale educazione del detenuto. Anzi, il carcere è esso stesso scuola di delinquenza, con grandissimo rischio per la sicurezza pubblica. Va quindi respinta con decisione la presunta correlazione carcerazione-sicurezza pubblica e, anzi, deve essere affermato con chiarezza che la vera prevenzione e la tanto invocata sicurezza dei nostri territori parte e deve partire, come diceva prima l’onorevole Pepe, dalle carceri.

Il provvedimento di clemenza, che mi auguro approveremo, deve essere accompagnato da assunzioni di responsabilità e da un impegno serio del Governo, per restituire immediatamente vivibilità al mondo carcerario secondo i parametri della legalità costituzionale. Occorre investire in nuove strutture e in risorse umane, nonché predisporre adeguate misure di accoglienza e di sostegno, attivando l’associazionismo e gli enti locali, per sostenere chi esce dal carcere. In questo modo si combatte la recidiva. Bisogna soprattutto evitare il ricorso a nuove misure deflattive e, quindi, optare, con modifiche del codice penale, per la previsione di pene diverse dalla detenzione. Io penso - e credo che di ciò siamo tutti convinti in questa Assemblea - che possano essere coniugate sicurezza e clemenza.

Perdonatemi la citazione, è tratta dal De clementia di Seneca: «La clemenza è la moderazione dell’animo nell’uso del suo potere di punire (...); solo gli ignoranti reputano contraria alla clemenza la severità, ma nessuna virtù è contraria ad un’altra virtù». Sembra retorica di altri tempi ed invece è verità drammaticamente attuale, perché nessuna autorità statuale può essere severa e rigorosa con i propri sudditi se non lo è prima con se stessa, attraverso l’esatta e rigorosa applicazione delle sue stesse leggi. Il sovraffollamento, con le sue ricadute nelle condizioni di vita della popolazione detenuta, rappresenta oggi, onorevoli colleghi, la prima e più vistosa tra le violazioni sistematiche della legge sull’ordinamento penitenziario (Applausi dei deputati dei gruppi de L’Ulivo, de La Rosa nel Pugno e dei Verdi).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Consolo. Ne ha facoltà.

 

GIUSEPPE CONSOLO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, onorevoli colleghe, sono state dette e scritte molte cose riguardo alla posizione di Alleanza Nazionale sul provvedimento di amnistia e di indulto. Molte cose errate su cui è bene cominciare a fare chiarezza.

Richiamo, non a caso, anche il provvedimento di amnistia oltre a quello di indulto, ben sapendo che oggi si parla esclusivamente di indulto, perché, al momento di votare lo stralcio delle disposizioni finalizzate ad estinguere la pena da quelle volte ad estinguere il reato, Alleanza Nazionale ha espresso un voto di astensione che è stato male interpretato. Alleanza Nazionale non si è astenuta sul merito del provvedimento: si è astenuta, per motivi tecnici, sullo stralcio del provvedimento di amnistia da quello di indulto, il che non significa che Alleanza Nazionale - mi riferisco al partito in generale, nel quale, è noto, vi sono anche posizioni diverse da quella ufficiale - discutesse e si astenesse circa l’opportunità o meno di stralciare il provvedimento di amnistia dal provvedimento di indulto. Alleanza Nazionale non può essere favorevole all’approvazione di entrambi questi provvedimenti, qualora non siano preceduti da un piano di riordino della giustizia e da specifici e precisi impegni che il ministro guardasigilli ancora non ha assunto.

Qualora non vi fosse questa posizione del Governo e della maggioranza parlamentare che lo rappresenta, Alleanza Nazionale non potrebbe che essere contraria. Mi chiedo, e vi chiedo, avendo ascoltato le appassionate argomentazioni che sono state addotte, che fanno sicuramente presa sull’osservatore meno attento: per quale motivo lo Stato dovrebbe rinunciare ad esercitare la propria potestà punitiva nei confronti di quanti hanno violato la legge e stanno, quindi, espiando la pena, al caldo, con asciugamani bagnati per il caldo eccessivo? Ma quanti italiani soffrono il caldo, senza aver violato il precetto penale? Il che non significa, sia chiaro, che le condizioni di vita nelle nostre carceri siano accettabili; è esattamente il contrario. La risposta più affrettata che è stata data a questo mio interrogativo - anche se, lo ripeto, l’argomentazione contraria presenta alcuni aspetti di validità - è che nelle nostre carceri (è stato ricordato da tutti i colleghi mi hanno preceduto) vi sono 61 mila ed oltre detenuti a fronte di una capienza di 40 mila. Ma se i detenuti sono troppi in relazione al numero dei possibili ospiti nelle nostre carceri, cosa si deve fare? Si devono ampliare le carceri esistenti e si devono costruirne di nuove.

Si può rinunciare, al buio, ad esercitare la propria capacità punitiva? Mi viene obiettato: l’articolo 27 della Costituzione prevede la pena con funzione rieducativa. Alleanza Nazionale lo sa bene. Conosciamo bene tale principio e con sofferenza assistiamo a questo sistema di pena afflittiva, contraria al nostro ordinamento. A differenza della cultura anglosassone, nel nostro ordinamento giuridico e nella nostra Carta fondamentale - lo ricordo a me stesso, - la pena deve tendere a rieducare il condannato. Mi viene risposto: come può rieducarsi un condannato se, oltre alla privazione della libertà, vi è anche questa sorta di tortura, nei fatti, rappresentata dal sovraffollamento delle carceri? Siamo d’accordo. Siamo assolutamente d’accordo. Il precetto costituzionale viene tradito: le carceri, così sovraffollate, non possono andare avanti. Siamo d’accordo, ma se vi sono troppi detenuti ciò riguarda non solo una parte dei detenuti, ma tutti; è il sistema che è sbagliato. Se vi è un’epidemia si aumenta il numero degli ospedali, non il numero dei cimiteri.

Signor Presidente, ciò che mi dà, anche a livello personale, una certa sofferenza ed un certo disagio, è sentir dire che Alleanza Nazionale «mostra i muscoli», che Alleanza Nazionale ce l’ha con i detenuti. Non è così. Non è così, perché il partito al quale mi onoro di appartenere - ed io personalmente: i colleghi della Commissione giustizia me ne daranno atto - ha cercato di chiedere, con umiltà, ma con fermezza, che fossero osservate determinate condizioni per poter, anche noi, votare a favore di questo provvedimento.

Sembra, infatti, assolutamente lapalissiano: le carceri sono piene, si costruiscano più carceri. Poiché qualcuno potrebbe obiettare che ci vorrebbe la bacchetta magica per costruire più carceri, considerato il tempo ed i mezzi necessari, allora, nel frattempo con decreto-legge, invece di prendersela con altre categorie verso le quali è stata emanata la decretazione d’urgenza, considerata la particolare necessità ed urgenza proprio della situazione carceraria, avrebbero potuto essere perseguiti provvedimenti di reciprocità con paesi stranieri per far scontare la pena in tali paesi, facendo immediatamente ridurre il numero dei carcerati in Italia.

Dopodiché quel decreto avrebbe avuto certamente l’approvazione della stragrande maggioranza, forse addirittura maggiore dei due terzi di questa Assemblea. Invece ci si limita, al buio, a svuotare le carceri, ben sapendo - di questo, colleghi, me ne dovete dare atto - che questo provvedimento non è altro che un palliativo, che non risolve il problema principale. L’ultimo provvedimento di clemenza - assunto nel lontano 1990, quando c’era il Guardasigilli Vassalli - ha portato un beneficio di pochi mesi. Anche se all’epoca non ero parlamentare, ricordo le discussioni in Parlamento, quando si affermò che l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale - prevista per la data fatidica del 24 ottobre 1989 - ed il provvedimento di clemenza avrebbero restituito maggiore efficienza all’ordinamento giudiziario, cosicchè non sarebbero stati necessari ulteriori provvedimenti di clemenza.

Niente di più errato. Se non ci sono stati altri provvedimenti di clemenza, è solo perché nel 1992 il quorum previsto da una legge costituzionale per l’approvazione di questo tipo di provvedimenti è stato portato a due terzi: un altro errore, al quale ho cercato nel mio piccolo di oppormi con i fatti, presentando una proposta di legge, pur essendo contrario al provvedimento di clemenza, perché trovo ridicolo che in uno Stato di diritto si possa, in base all’articolo 138 della nostra Costituzione, varare a maggioranza la Costituzione, mentre per varare un provvedimento di clemenza non è sufficiente la maggioranza, bensì occorrono i due terzi dei voti dei componenti del Parlamento. Quella proposta di legge, che avrebbe attribuito ad una maggioranza parlamentare una responsabilità maggiore rispetto a quella odierna, è rimasta lettera morta. Quel provvedimento è stato poi ripresentato nella XIV legislatura e così anche in questa XV legislatura, ma è rimasto lettera morta.

Ecco perché, colleghi, personalmente e con la stragrande maggioranza del mio partito avevamo chiesto al Guardasigilli risposte politiche ai nostri interrogativi, che non possono che essere definiti legittimi. Avevamo chiesto al Guardasigilli di integrare il disegno riformatore della legge n. 206 del 2004 - che aveva introdotto una disciplina organica in favore di chi avesse subito dei danni, per sé o per i propri familiari, a causa del terrorismo (così come avviene peraltro per le vittime della criminalità organizzata) - con una norma che prevedesse aiuti analoghi per tutti coloro che nell’adempimento del dovere, per quelle Forze dell’ordine che mi sono particolarmente care, avessero subito danni, anche in assenza di una motivazione terroristica o mafiosa alla base dell’offesa.

Nessuna risposta. Un’altra richiesta, che a me sembrava ovvia e scontata, era quella di non applicare il provvedimento di clemenza nei confronti dei plurirecidivi. Siamo andati soltanto nel tecnicismo, ai recidivi specifici.

Avevamo posto un’altra richiesta, cioè quella di imporre l’obbligo del risarcimento del danno per usufruire dell’indulto, così come quello di aver scontato almeno un terzo della pena. Di fronte alle nostre richieste la risposta è stata, signor Presidente, il silenzio e la denegazione.

Il risultato è quello di affermare che Alleanza Nazionale è contraria alla richiesta dell’indulto. Non è così, e lo sto spiegando. Noi non abbiamo visto degli impegni formali precisi da parte del Guardasigilli davanti alle nostre richieste, così come non abbiamo visto un atteggiamento costruttivo da parte della Commissione giustizia, nella quale in un primo tempo, come ben sa il relatore Buemi - che peraltro non vedo in questo momento in aula e mi dispiace - vi era stata un’apertura da parte di Alleanza Nazionale. Ecco che torna ai banchi il relatore: è bene che senta e che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Quando avevamo chiesto di escludere i plurirecidivi dal beneficio dell’indulto, il relatore Buemi aveva detto che vi era però la norma - ben diversa - in base alla quale chi avesse commesso dei reati in un determinato periodo di tempo, che poi restrittivamente è stato portato a cinque anni, avrebbe perso ex post i benefici dell’indulto.

Abbiamo assistito - mi dispiace dirlo perché questa Commissione giustizia sta lavorando molto bene e ne devo dare atto anche al presidente - ad un balletto di numeri: i cinque anni erano stati portati a dieci, poi era stata raggiunta un’intesa di fatto con i colleghi della maggioranza per cui i dieci anni passavano a sette. Al momento di votare, i cinque anni sono rimasti un punto non valicabile: mi riferisco al periodo di tempo nel quale non dovrebbero essere commessi ulteriori reati. Non è stato preso alcun impegno normativo a favore delle vittime del dovere; non è stato preso alcun impegno a favore del risarcimento del danno; non è stata prevista alcuna norma per i plurirecidivi (quanto previsto per i plurirecidivi specifici è un’altra cosa, lo sappiamo bene).

Io mi auguro di sentire alla fine della discussione generale delle risposte concrete, ma non per me, Giuseppe Consolo, bensì per un popolo italiano che è sensibile anche nei confronti delle vittime del dovere e nei confronti delle vittime del reato, le quali rappresentano i protagonisti emarginati, in questo caso. Infatti, sfavorire e penalizzare le vittime del reato con un provvedimento a favore soltanto di chi ha commesso il reato medesimo non riequilibra in alcun modo, come dovrebbe, quel sinallagma tra chi ha commesso il reato e chi, invece, ha patito le conseguenze dello stesso.

Vi è, quindi, una palese sproporzione, nel testo della Commissione portato all’esame dell’Assemblea (mi avvio a concludere, signor Presidente; peraltro, come lei ci insegna, posso avvalermi anche del tempo assegnato ai colleghi di gruppo). Il testo, signor Presidente, signor rappresentante del Governo, favorisce infatti palesemente «Caino», favorisce palesemente chi ha commesso il reato rispetto a chi ne ha subito le conseguenze negative: quell’«Abele», quella parte più debole che ha patito, e ancora oggi patisce, il danno conseguente.

Non vorrei che, con l’approvazione di questo provvedimento, «Abele» - vale a dire, le vittime del reato - subisse anche la beffa di vedere perdonati, senza condizioni di sorta, quanti erano, sono e rimangono i suoi carnefici.

Se deve fare una scelta, peraltro dolorosa, tra «Caino» ed «Abele», il mio partito, per la maggior parte delle sue componenti, sta dalla parte di «Abele» (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Brigandì. Ne ha facoltà.

 

MATTEO BRIGANDÌ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei anzitutto osservare che, forse, sarebbe stato meglio se questo provvedimento fosse stato condiviso da tutte le forze politiche o se, quanto meno, si fosse compiuto un tentativo in tal senso. La Lega, infatti, non è stata interpellata nel corso dell’esame del provvedimento.

Ciò detto, a mio avviso, il provvedimento dell’indulto, considerato sic et simpliciter, deve essere calato all’interno della logica, giudiziaria e storica, di questo paese. Mi spiego: parecchi anni fa, vale a dire prima di Tangentopoli, i provvedimenti di amnistia e di indulto intervenivano, di regola, ogni tre o quattro anni. Poi, ad un certo punto, a seguito della vicenda di Tangentopoli e di quell’innalzamento del quorum di cui riferiva il collega dianzi intervenuto, non si sono più varate misure di amnistia e di indulto. Molto probabilmente, proprio per via delle vicende di Tangentopoli, non si voleva generare nell’opinione pubblica il sospetto che i parlamentari, deputati e senatori, potessero favorire sé stessi.

Ma oggi una tale situazione può dirsi ormai superata; la vicenda di Tangentopoli si è conclusa e questa Camera ed il Senato devono riacquistare la loro dignità. A mio avviso, se un provvedimento di indulto deve essere varato, esso deve intendersi come atto di clemenza e, quindi, senza alcuna preclusione rispetto ad eventuali fatti commessi, in ipotesi, da parlamentari. Per esemplificare, non ha senso varare l’indulto per tutto il mondo tranne che per Previti, un cittadino che era parlamentare e che, avendo sbagliato, è in carcere. Se la Camera ritiene di approvare un provvedimento di clemenza, il cittadino Previti ha diritto di godere di tale misura esattamente come tutti gli altri. Infatti, come è vero che i parlamentari non devono essere considerati con maggiore favore rispetto agli altri cittadini, così è altrettanto vero che essi hanno almeno pari dignità rispetto a tutti gli altri.

Seconda questione, a me più cara: bisogna tenere presente il motivo ispiratore del provvedimento. Mi piacerebbe che il relatore spiegasse la ragione per la quale si intende oggi varare tale atto di clemenza. Tra le finalità che ho sentito addurre a giustificazione dell’adozione del provvedimento di clemenza, vi sarebbe la necessità di ridurre il sovraffollamento delle carceri. A tale riguardo, mi sono stati forniti studi di settore dal mio partito, con statistiche relative al numero dei detenuti e di quanti fruirebbero dell’atto di clemenza, ipotesi di esclusione in base alle condizioni soggettive, e via dicendo. Bisogna dirlo in maniera chiara: in questo momento - è un’idea alla quale io sono affezionato - stiamo pagando lo scotto per aver subito il fascismo nel secolo scorso. Non è fantasia; il problema è costituito dal fatto che, nel secolo scorso, la magistratura era una istituzione intoccabile, al punto che il regime fascista ha dovuto istituire i tribunali speciali perché non riusciva ad ottenere le sentenze secondo la giustizia quale era intesa dal fascismo. Il prestigio che aveva un secolo fa, la magistratura se lo porta dietro ancora oggi. Perciò, qualsiasi iniziativa intrapresa da un parlamentare, anche la migliore del mondo, non va bene; invece, qualunque cosa un magistrato faccia, anche la peggiore del mondo, è considerata valida ed idonea.

Ricordo, a titolo di esempio, quell’orrendo delitto commesso a Biella nei confronti di una ragazza la quale è stata tormentata da un corteggiatore che è arrivato fino al punto di ucciderla. Intervistato, il magistrato alzò le spalle e affermò di non aver potuto fare alcunché - sull’omicida pendevano 200 denunce - perché la minaccia non prevede l’ordine di cattura. Non un solo rappresentante politico o un mezzo di comunicazione di massa, compresa la RAI, hanno fatto presente che, se è vero che la minaccia non prevede l’ordine di cattura, è altrettanto vero che prevede un processo. I magistrati devono celebrare i processi e, se avessero celebrato 200 processi con condanne di sei mesi l’uno, quel tale sarebbe stato in carcere e non avrebbe commesso l’omicidio.

Il problema è che il provvedimento di clemenza dell’indulto può essere condiviso soltanto se siamo d’accordo sul fatto che la magistratura lavora male. Dispongo di tutti i dati tranne di quelli relativi a coloro che sono in carcere in via provvisoria, senza che sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna. Tuttavia, se le carceri sono sovraffollate, a questi ultimi dati dobbiamo mettere mano e dobbiamo renderci conto che i processi devono essere celebrati e in carcere devono stare le persone che sono state condannate. Bisogna provvedere al reinserimento ed è necessario che ci siano i giudici incaricati di seguire il momento dell’esecuzione - altrimenti evitiamo la fase del giudice dell’esecuzione e sostituiamolo con l’assistente sociale! - e di sfoltire, quanto più possibile, le carceri. Altro che teoria della supplenza della magistratura rispetto al Parlamento che non fa le leggi! Bisogna che si affermi in modo chiaro che questa è una teoria della supplenza del Parlamento rispetto ai giudici che non giudicano, che non fanno il loro lavoro o lo fanno male! Sono persone che beneficiano di 45 giorni di ferie all’anno, che lavorano se vogliono lavorare, altrimenti non lavorano e non c’è nessuno che li controlli. Potrei occupare il tempo a mia disposizione e quello degli altri colleghi che interverranno successivamente per spiegare questi fatti.

L’impostazione che bisogna dare, secondo me, è la seguente: noi dobbiamo pervenire all’indulto per un motivo molto semplice, cioè perché abbiamo un problema da risolvere: il cattivo comportamento della magistratura. Questo problema, tuttavia, non possiamo risolverlo esclusivamente attraverso l’indulto. Mi piacerebbe confrontarmi con chi intende adottare questo genere di provvedimenti, perché io sono concettualmente più favorevole ad una ipotesi di amnistia che ad una ipotesi di indulto. Il motivo è estremamente semplice: nel caso di amnistia, il meccanismo - dati i presupposti che esporrò - interviene su ipotesi di reato; nel caso di indulto, invece, siamo di fronte a un provvedimento di clemenza che interviene su reati oggettivamente commessi. L’indulto, infatti, è concesso una volta che sia accertata l’esistenza del reato e sia definitiva la sentenza di condanna. Peraltro, se di opportunismo si può parlare, siamo di fronte ad un ulteriore carico di lavoro per i magistrati, i quali dovranno celebrare il processo, concluderlo e, una volta terminato, dovranno, di fatto, «pestare l’acqua nel mortaio» in quanto emetteranno una condanna che non sarà eseguita in virtù del provvedimento di indulto.

A questo proposito, vorrei segnalare due momenti - che ritengo significativi - vissuti nei giorni scorsi qui alla Camera. Mi riferisco all’appello rivolto dall’onorevole Casini e recepito dal Presidente in occasione di quello che è stato definito un attacco giudiziario nei confronti del collega Fitto. Come il Presidente stesso ha detto, bisognerà cercare delle soluzioni per riequilibrare il fronteggiarsi di quelli che a tutti gli effetti sono due poteri dello Stato. In realtà, anche se parlo di poteri dello Stato, sappiamo che la magistratura non è tale, posto che la Costituzione stessa la ritiene un ordine. La magistratura non può essere un potere dello Stato perché in base alla Rivoluzione francese il potere deriva dal popolo; quindi, se la magistratura è un potere, si faccia eleggere (siamo anche disponibili a questa ipotesi)!

Vorrei anche segnalare il caso di diniego all’arresto di due colleghi, la scorsa settimana, caso in cui si è visto come l’intera Camera abbia ritenuto il provvedimento dei giudici palesemente persecutorio nei confronti dei deputati interessati. Inoltre, osservo che il diniego del provvedimento restrittivo presuppone non l’accertamento della fondatezza o meno dell’ordine di cattura, bensì l’accertamento - cosa che abbiamo fatto all’unanimità - del fumus persecutionis. In sostanza, abbiamo riconosciuto che alcuni giudici stanno perseguitando alcuni politici.

Ricordo - non ero parlamentare ma ho seguito l’evento in televisione - la visita in quest’aula del Santo Padre, il quale ha invocato un provvedimento di clemenza davanti a tutta l’Assemblea. Tale provvedimento non è stato adottato. Ciò significa - è stata una responsabilità abbastanza seria che ci siamo assunti - che la Camera non ha ritenuto, allora, di poter procedere in termini di un provvedimento di clemenza secco, espressione di un potere «grazioso» dello Stato (in realtà, del Presidente della Repubblica, per il tramite delle Camere, che adottano tale provvedimento di clemenza). In quel caso si è detto «no».

Se dunque ciò è accaduto, significa che il provvedimento di clemenza deve essere adottato in presenza di forti ragioni politiche, più forti dell’invito che il Santo Padre ha lanciato in quest’aula. Io, però, simili forti ragioni politiche non le vedo, perché il sovraffollamento delle carceri non è certamente una forte ragione politica, bensì un problema al quale bisogna dare risposta, mettendo «al trotto» coloro che vi sono preposti, che fanno 45 giorni di ferie l’anno, guadagnando quanto un parlamentare, con la differenza che i parlamentari sono 900 e loro sono 9 mila e il 60 per cento del loro lavoro viene in pratica svolto da precari pagati 50 euro a sentenza: i giudici di pace. Questa è la verità! Quindi, un provvedimento per lo sfollamento delle carceri andrebbe sollecitato in questo senso.

Ma allora, quale altra ragione politica potrebbe esservi? Personalmente, ne vedo solo una. Il collega Castelli ha proposto una riforma dell’ordinamento giudiziario, per la verità in maniera molto blanda. È chiaro, infatti, che un conto è il pensiero, altro conto è ricercare le convergenze in aula. Tuttavia, ritengo che potremmo varare questo provvedimento se abbiamo in cantiere degli accordi, se esistono dei meccanismi attraverso i quali raggiungere un accordo su un punto fondamentale, quello, cioè, di dare un riassetto generale al sistema della magistratura.

Un appello più forte di quello lanciato dal Pontefice potrebbe essere dato solo da un riassetto costituzionale della magistratura; occorre cioé che quest’organo dello Stato si metta davanti allo specchio, la smetta di «mettere le zampe» anche in quest’aula, di essere parte di una corrente o di un partito (o peggio, la corrente principale di questo o quel partito posto che, ultimamente, mi chiedo chi comandi, se la corrente o il partito), e si dia un riassetto in maniera politica e democratica.

I giudici ci devono dire di voler fare i giudici, di voler essere sottoposti alla legge - quindi, sotto la legge -, senza che vi sia alcun tipo di intralcio di carattere politico.

Ricordo i congressi della magistratura quando la corrente della magistratura indipendente dichiarava la propria indipendenza anche dai politici. Avevano ragione: fuori i politici dalla magistratura e, soprattutto, fuori i magistrati dalla politica!

Non vorrei essere sgradevole nel fornire un elenco di nomi, ma vorrei sapere quali meriti politici hanno avuto illustri magistrati che, appena entrati in politica, sono stati incaricati di fare i ministri.

Noi della Lega, che vantiamo il merito di attaccare manifesti, scontrandoci con le segreterie politiche e provinciali, vediamo una serie di giudici per i quali il Parlamento è un cursus honorum per arrivare a determinate cariche. Dovete dirmi cosa ha fatto politicamente il ministro Di Pietro prima di diventare ministro! Quale merito aveva se non quello di aver attribuito riconoscimenti ad una determinata parte politica? Ricordo, anche in quest’aula, alcuni interventi, anche tragici, ove parti politiche hanno usato, purtroppo, la magistratura come una clava.

Se affermiamo che la magistratura è un potere, visto che il potere deriva dal popolo, occorre che i magistrati siano eletti. Almeno, vi sarà una giustizia di maggioranza contro una minoranza, che è certamente peggio di una giustizia di un magistrato sottoposto alla legge, ma che darebbe il primato di una giustizia giusta. Invece, sono nate queste correnti e le persone si sono inserite in questo meccanismo politico: vi è una magistratura che porta avanti una giustizia di minoranza contro la maggioranza.

Allora, se vi è questa idea e questa intenzione, ritengo che un riequilibrio dell’assetto costituzionale dello Stato possa rendere accettabile il diniego fatto al Pontefice. Ma, se tale meccanismo non sussiste, siamo nuovamente di fronte ad un criterio non giustificabile logicamente.

Se, allo stato attuale, i politici sono considerati la sentina della società, non si potrà andare molto in avanti. Occorre che la Camera ed il Senato riacquistino il proprio prestigio e la loro importanza in quanto, senza tali istituzioni, manca la democrazia!

 

PRESIDENTE. Sospendo la seduta per cinque minuti.

 

La seduta, sospesa alle 10,55, è ripresa alle 11.

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Leoluca Orlando. Ne ha facoltà.

 

LEOLUCA ORLANDO. Signora Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghi deputati, questo è il primo intervento in materia giudiziaria del nuovo Parlamento e di questa Camera dei deputati dopo le elezioni dell’aprile scorso. Questo mio intervento è il primo di quelli che i parlamentari dell’Italia dei Valori faranno per spiegare le ragioni di una posizione molto forte e chiara.

Noi siamo convinti che bisogna procedere in armonia con una riforma del sistema penale e, all’interno di questa, anche con l’adozione di atti di clemenza, peraltro previsti dalla nostra Costituzione.

Siamo di fronte, invece, soltanto ad un atto di clemenza, peraltro parziale, in quanto si prevede il solo indulto, e all’assenza di una ipotesi di riforma, anzi - cosa ancor più grave -, siamo in presenza di un atto di clemenza in contrasto con le ipotesi di riforma nelle quali noi dell’Italia dei Valori crediamo e nelle quali crede la coalizione dell’Unione.

Si adduce, come ragione di questa scelta, il sovraffollamento degli istituti carcerari. Si parla di un sistema carcerario che dovrebbe essere civile, della funzione rieducativa della pena e della sua umanizzazione. Si parla dell’esigenza di un trattamento diverso e migliore dei detenuti e anche di coloro che detenuti non sono, ma che, per ragioni di lavoro, operano all’interno degli istituti carcerari.

Si parla di tutto questo ma, in realtà, si propone soltanto un indulto, senza amnistia e senza riforma. Si afferma che devono essere esclusi da questa applicazione i reati commessi successivamente al 2 maggio 2006. Si sceglie questa data, piuttosto che, come si potrebbe fare, una data anteriore.

Si sceglie anche di escludere i reati che presentano particolare allarme sociale. Qui è evidente la contraddizione, perché, nell’individuazione dei reati che causano particolare allarme sociale, sostanzialmente assistiamo ad una elencazione che riguarda il terrorismo, la mafia e la pedofilia, ma non i reati che, a nostro avviso, destano particolare e gravissimo allarme sociale e che contrastano con l’esclusione annunciata in via di principio.

Voglio citare per tutti l’esempio dell’articolo 416-ter. Ritiene il Parlamento che non produca allarme sociale il voto di scambio mafioso? Questo indulto produrrebbe effetti, ove venisse approvato nel testo proposto dalla maggioranza della Commissione, nei confronti di condannati per reati di voto di scambio mafioso. La data del 2 maggio serve proprio a coprire le elezioni di questo Parlamento. Quindi, se durante le elezioni politiche nazionali qualcuno avesse commesso il reato di voto di scambio mafioso, starebbe tranquillo, perché l’indulto opererà a favore della sua non espiazione della pena.

Come se non bastasse, si ritiene che non destino allarme sociale i reati previsti dai capi primo e secondo del titolo I del libro secondo del codice penale? Il reato di peculato non determina allarme sociale? La malversazione in danno dello Stato non determina allarme sociale? La concussione non determina allarme sociale? La corruzione in atti giudiziari? Si è approvata una apposita norma, l’articolo 319-ter, proprio per il particolare allarme sociale causato dalla corruzione di magistrati, perché vogliamo essere liberi da un sistema nel quale esistono corruttori di magistrati e, soprattutto, magistrati corrotti. L’indulto si applica anche a loro.

L’indulto si applica anche all’articolo 372, in materia di falso in informazioni al pubblico ministero, all’articolo 459, sull’avvelenamento delle acque. Ma l’avvelenamento delle acque non è un reato che produce allarme sociale? L’indulto si applica ancora, all’articolo 440, sull’adulterazione alimentare, e non produce, questa, allarme sociale?

Si dice che vi sia sovraffollamento delle carceri, ma esso non dipende dai responsabili di questi reati perché, per fortuna, il voto di scambio mafioso non riguarda migliaia di persone. Invece, si utilizzano le vittime di una brutta legge, la cosiddetta Bossi-Fini, come «ostaggio», come un cavallo di Troia che serve ad inviare un messaggio, che è esattamente l’alternativa rispetto alla riforma della giustizia penale.

Per favore, per rispetto alla mia identità di laico e di credente, per rispetto al Santo Padre e al Parlamento, non ritengo opportuno continuare a citare l’intervento del Pontefice in Assemblea: è una mancanza di rispetto per il Santo Padre e per il Parlamento. È mancanza di rispetto pensare che Giovanni Paolo II avesse voluto far riferimento alle false comunicazioni sociali ed ai reati contro la pubblica amministrazione.

Dobbiamo farci carico di dire «no» al voto di scambio mafioso, dire «no» in maniera chiara «ai furbetti del quartiere» e ai vari personaggi coinvolti nello scandalo Parmalat e dintorni, ai corruttori di magistrati ed ai magistrati corrotti, se non vogliamo che il Parlamento inizi nel modo peggiore ad affrontare i temi della giustizia.

Chiediamo che si proceda a depenalizzare alcuni reati, si proceda a depenalizzare la cosiddetta Bossi-Fini, piuttosto che a ripenalizzare, come proponiamo, il falso in bilancio. Questo è il nostro appello, affinché il provvedimento di legge in esame non sia un cavallo di Troia.

È vero: è necessario un patto, in quanto occorre una maggioranza di due terzi, ma se il patto...

 

PRESIDENTE. Onorevole, dovrebbe concludere: il tempo a sua disposizione è terminato.

 

LEOLUCA ORLANDO. Grazie, signora Presidente, utilizzerò anche parte del tempo concesso ai colleghi del mio gruppo.

Ma se il patto dovesse, eventualmente, avere per oggetto, come accade, uno sciagurato provvedimento legislativo, possiamo chiamare questo patto «sciagurato», un patto che gli elettori non capirebbero.

Per questo rivolgiamo un forte appello a tutte le forze del Parlamento e, in particolare, ai partiti dell’Unione. Che cosa avrebbero fatto, che cosa avremmo fatto, se tale proposta fosse stata presentata dalla coalizione della Casa delle libertà? Avremmo parlato di «salva corrotti», di «salva corruttori», di «salva evasori», di legge ad personam, di «salva Previti» e di «salva Berlusconi».

Per favore, serve coerenza con quanto, anche in Parlamento, abbiamo detto nei giorni passati e su cui abbiamo ottenuto il consenso da parte degli elettori! Serve coerenza anche con l’ipotesi di riforma del sistema carcerario e del sistema giudiziario che questo «sciagurato» provvedimento smentisce clamorosamente.

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Naccarato. Ne ha facoltà.

 

ALESSANDRO NACCARATO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la proposta di legge in discussione nasce innanzitutto dall’esigenza di rispondere al sovraffollamento della popolazione carceraria, come ha bene illustrato il relatore questa mattina.

Si tratta di un problema antico e, infatti, anche nella passata legislatura si discusse a lungo e in più occasioni di indulto. Alla fine del 2005, si arrivò addirittura a porre in votazione, e a respingere nei fatti attraverso l’approvazione di alcuni emendamenti, un provvedimento per la concessione di amnistia e di indulto.

In passato, il Parlamento è ricorso più volte a provvedimenti di questo tipo. Dal 1946 ad oggi vi sono stati venti provvedimenti, per quanto riguarda solo l’indulto, che hanno rappresentato uno strumento efficace per ridurre il sovraffollamento negli istituti carcerari. I dati sono conosciuti (diversi interventi si sono soffermati su tali aspetti): abbiamo, oggi, circa 16.700 carcerati in più rispetto alla capienza possibile, quasi il 45 per cento in più di quelle 43 mila potenziali presenze che le nostre carceri potrebbero ospitare.

Ciò significa che le nostre carceri versano in condizioni difficili, spesso al limite della sopportabilità, e che i detenuti e gli altri soggetti che lavorano in questa struttura (penso in particolare agli agenti di polizia penitenziaria ed al personale amministrativo) subiscono condizioni peggiori di quanto il nostro ordinamento preveda.

Non dobbiamo scordare, infatti, che l’articolo 27 della Costituzione stabilisce che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato ed il carcere, perciò, è il luogo dove il condannato sconta una pena e viene privato della libertà.

Il carcere è anche il luogo dove lo stesso condannato dovrebbe essere recuperato per essere reinserito come cittadino nella nostra società. Oggi, molto spesso e soprattutto a causa delle condizioni delle carceri, accade esattamente il contrario. Il carcere è un luogo criminogeno dove i condannati, magari per reati minori, imparano a delinquere ed entrano in relazione con soggetti ed organizzazioni criminali che accolgono il detenuto al termine della pena. Il carcere è in molte occasioni una scuola di malavita, che non migliora le persone, ma al contrario le riempie di odio verso la società e le mette in condizione di delinquere di più e peggio nel momento in cui escono dalle strutture.

In questo modo, rischiamo di convivere con un atteggiamento di grande ipocrisia e di scarsissima efficacia nella lotta alla criminalità. Non si può continuare a fingere senza vedere che l’attuale situazione carceraria rende in realtà la nostra società meno sicura. Con queste motivazioni si è posta l’esigenza di un provvedimento di indulto. Infatti, se le carceri funzionano meglio, possono recuperare delle persone e contribuire a reinserirle nella vita comune.

Il sovraffollamento - ho ascoltato in proposito l’intervento dell’onorevole Brigandì - non è causato dai giudici che non lavorano. Credo dovremmo finirla di dare la colpa di tutto ciò che non funziona nel nostro paese ai magistrati, magari utilizzando espressioni più o meno offensive. Dovremmo dire la verità su un altro aspetto: casomai, il sovraffollamento è causato dagli scarsi investimenti dello Stato nelle strutture relative al funzionamento della giustizia, delle carceri. In particolare, nella scorsa legislatura vi sono state riduzioni particolarmente significative in questo campo. Forse, lì troviamo le cause del sovraffollamento carcerario, e non nel lavoro che molti carcerati - come noto - svolgono in maniera egregia nel rispetto delle nostre istituzioni e del nostro ordinamento.

Con queste finalità, il provvedimento in discussione contiene diversi aspetti positivi. In particolare, propone un indulto condizionato, una sorta di patto tra Stato e condannato. In cambio di uno sconto di pena, il beneficiario non deve commettere reati nei cinque anni successivi, pena l’annullamento dell’indulto. A me pare un modo concreto e semplice per offrire un’opportunità a chi è stato condannato, cercando in questo modo di limitare e contrastare i rischi, molto frequenti, che il detenuto, una volta fuori, ricominci a delinquere.

L’indulto, inoltre, estingue solo la pena e non il reato. Pertanto, presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato e il completamento dell’azione penale. Non vi è, dunque, alcun colpo di spugna. Anche su questo punto, credo sia opportuno che nel nostro dibattito vi sia la massima chiarezza: non vi è alcun colpo di spugna, ma semplicemente una riduzione, dopo l’accertamento della colpevolezza, della pena detentiva.

Per tali ragioni, appaiono strumentali le critiche di chi vorrebbe estendere i reati esclusi dall’indulto a delitti odiosi e gravi, ma che già oggi non comportano di fatto la detenzione in carcere.

Per i reati contro la pubblica amministrazione, della cui gravità siamo convintissimi (non servono il dibattito di questi giorni ed ulteriori elementi di convinzione in questo senso), è importante l’accertamento delle responsabilità, delle relazioni criminali, dei complici coinvolti. Per questo motivo, non vogliamo l’amnistia, che estinguerebbe il reato. Tuttavia, bisogna anche sapere, per essere efficaci e concreti nella lotta contro questi reati, che per punire i colpevoli di reati contro la pubblica amministrazione spesso, più che le pene detentive, sarebbero molto efficaci l’interdizione dai pubblici uffici o serie pene pecuniarie che, non a caso, sono escluse dal provvedimento di cui si sta ragionando. Infatti, a questo tipo di pene l’indulto non si applica, lasciando intatto il sistema sanzionatorio verso i colpevoli di simili reati. Su questo tema la Commissione ha discusso a lungo e credo si sia raggiunto un buon punto di intesa.

Ritengo che, senza cedere a spinte di natura demagogica o all’attenzione che l’opinione pubblica sta rivolgendo, in particolare, a questo aspetto del provvedimento, dobbiamo dire con chiarezza che con l’indulto - nel testo licenziato dalla Commissione che è oggi in discussione - tutti i processi si svolgeranno, i reati saranno perseguiti e i colpevoli saranno individuati e puniti, anche rispetto a quei reati di cui parlava il collega che mi ha preceduto. Mi riferisco ai reati finanziari, ai reati contro la pubblica amministrazione e al reato di cui all’articolo 416-ter del codice penale. Le responsabilità saranno accertate. Inoltre (anche su questo punto credo sarebbe giusto prestare un po’ di attenzione), sono stati esclusi alcuni reati oggettivamente pericolosi dal punto di vista dell’allarme sociale che destano. Non credo che questi ultimi possano essere paragonati ad altri reati che, invece, abbiamo compreso nel provvedimento. Parliamo dei reati contro le istituzioni democratiche (come i delitti di terrorismo interno e internazionale, la partecipazione a banda armata, i reati per mafia) e di reati gravissimi contro la persona come la violenza sessuale, il sequestro di persona, la pedofilia, nonché la produzione e il traffico di sostanze stupefacenti.

Questi sono i reati che sono stati esclusi dall’ambito di applicazione dell’indulto.

Infine - e concludo -, per rendere più credibile ed efficace il provvedimento, tutti dovremmo cominciare ad immaginare di accompagnare all’indulto misure che favoriscano e consentano il reinserimento dei detenuti, in applicazione dell’articolo 27 della Costituzione: credo che questo sarà il terreno dell’ulteriore lavoro della Commissione e del Parlamento (Applausi dei deputati del gruppo de L’Ulivo).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pecorella. Ne ha facoltà.

 

GAETANO PECORELLA. Signor Presidente, vorrei dire subito all’amico Consolo che non sto dalla parte di Caino (e credo che nessuno di noi stia dalla parte di Caino); ciò non significa, però, che non riconosca anche a Caino il diritto di essere trattato come un essere umano, il diritto a vedere rispettata la sua persona.

Credo che, nella discussione di un provvedimento difficile ma importante, dovremmo abbandonare, con lucidità e con senso di responsabilità, ogni divisione ideologica. Non vi sono, come si vorrebbe far credere, due visioni contrapposte del mondo: da una parte, coloro che si schierano con gli autori dei reati, dall’altra, quelli che si schierano con le vittime; da una parte, chi è tollerante, dall’altra, chi sceglie la strada del rigore; da una parte, chi vede la pena come rieducazione, dall’altra, chi la vede come vendetta. Viceversa, dovremmo ragionare in termini molto concreti, tenendo conto della situazione che dobbiamo affrontare: parliamo di indulto non per la scelta libera di affrontare il tema, ma perché uno stato di necessità ce lo impone.

Tutti i colleghi che sono intervenuti si sono trovati d’accordo su un dato. Oggi, la situazione carceraria non corrisponde in alcun modo a ciò che vorrebbe la Costituzione: la Costituzione vuole una pena che tenda alla rieducazione. Per questo ci vogliono spazi, ci vuole l’istruzione in carcere, ci vuole il lavoro, ci vuole lo sport: in sostanza, un sistema carcerario che restituisca alla società un uomo migliore rispetto a quello che vi era entrato. Credo che un senso di pudore ci impedisca di affermare che le carceri hanno oggi, in misura minima, un simile ruolo. Quindi, come politici e come uomini di legge, dobbiamo prendere atto che lo Stato italiano non ha rispettato e non sta rispettando la Costituzione oramai da molti anni.

La Costituzione contiene anche un limite all’accettabilità della pena. Il limite è che la pena non deve essere contraria al senso di umanità. Allora, dovremmo chiederci - e dovrebbero chiederselo coloro che sono contrari all’indulto - se la visione delle carceri di oggi offenda o meno il nostro senso di umanità.

Signor Presidente - mi rivolgo a chi si è dichiarato contrario -, io credo che il senso di umanità consista semplicemente nel non volere che un uomo soffra più di ciò che è giusto per quanto riguarda la pena che deve scontare; il senso di umanità consiste nell’avere la certezza che ogni uomo è comunque rispettato, anche nel momento in cui deve pagare per le sue colpe. Siete convinti, voi che vi opponete, che il vostro senso di umanità resti indifferente rispetto alla situazione attuale delle carceri?

Se questa è la situazione, se le cose stanno così - e stanno così -, il Parlamento ha l’obbligo di porre rimedio alla mancata attuazione, all’offesa di un principio costituzionale. Sembra quasi strano che non ci si renda conto che una norma di questo peso, come l’articolo 27 della Costituzione, sia violata e che qualcuno voglia continuare a violarla.

Se ciò è vero, bisogna trovare un rimedio: questo è il punto, non la vittima, l’autore o altro, ma il rimedio. Ci sono altri rimedi, oggi, diversi da un provvedimento di clemenza? Certo, c’è la possibilità di costruire nuove carceri. Oggi? Nell’arco di tempo necessario perché questa situazione diventi più tollerabile? C’è la possibilità di cambiare il codice penale, il codice di procedura penale. Oggi? Nei tempi necessari perché questa situazione diventi più tollerabile?

L’onorevole Consolo proponeva un decreto-legge per consentire agli stranieri di scontare la pena nel loro paese. Mi permetto di fargli osservare che non si può procedere in questo modo: bisogna fare i trattati internazionali, e per fare i trattati internazionali ci vuole tempo, come per costruire le carceri, come per consentire di avere un nuovo codice penale. Non possiamo nemmeno - lo dico con tutta franchezza - non tenere conto che siamo stati responsabili per cinque anni dell’amministrazione della giustizia, ed oggi non possiamo dire che se certe cose non sono state fatte non sia anche responsabilità di chi ha amministrato questo paese.

L’indulto non è un’invenzione di un gruppo di persone troppo buoniste; l’indulto è previsto dalla Costituzione. È uno strumento che la Costituzione ha considerato per un motivo molto chiaro: quello di consentire che la pena, che non deve essere contraria al senso di umanità, quando vi siano situazioni di emergenza, recuperi le sue caratteristiche costituzionali attraverso un provvedimento di clemenza. Perché mai la Costituzione si sarebbe dovuta preoccupare di regolamentare l’indulto se questo non fosse un istituto di bilanciamento, di contrappeso all’interno della Costituzione? Tale istituto è così rilevante che non si potrebbe cancellarlo dal nostro ordinamento, se non attraverso una legge costituzionale.

L’indulto non è soltanto uno strumento per sfollare le carceri: questa è una visione troppo semplicistica del problema. Calcoliamo la pena attraverso il tempo: il tempo di un giorno, di un anno, di dieci anni. Tuttavia, il tempo non è sempre uguale. Lo sappiamo bene, la nostra vita ha tempi diversi: un’ora di felicità può avere la durata di un secondo di sofferenza. Ebbene, il tempo delle carceri cambia a seconda del trattamento a cui una persona è sottoposta. Un anno di carcere dove sia rispettata la persona e le sia dato ciò di cui ha diritto è diverso rispetto ad un anno trascorso in un carcere dove viene negata anche l’umanità che a tutti compete, fuori o dentro dal carcere. Credo che, nel momento in cui pensiamo ad un provvedimento di indulto, abbiamo anche in mente che quando si sconta la detenzione in questo tipo di carceri i tempi sono molto più lunghi e molto più pesanti.

Certo, a noi sta a cuore anche la sicurezza, non c’è dubbio: è la base della vita sociale. Questo provvedimento ne tiene conto perché ha voluto escludere i reati di grave allarme sociale e ha voluto prevedere la revoca, una condizione per cui coloro che escono dal carcere, in quei tre anni che probabilmente li avrebbero resi peggiori per il trattamento subito, sappiano che torneranno in carcere se non rispetteranno le regole della società.

Qualcuno vorrebbe l’esclusione di alcuni reati non perché questo risponda ad un principio di giustizia, non perché risponda ad un principio di sicurezza, ma in odio a qualcuno. Ebbene, non credo si possano approvare provvedimenti in odio a persone particolari. La scelta della Commissione si è basata su alcuni criteri razionali: i precedenti, la natura violenta e l’eccezionale odiosità dei reati, i criteri di esclusione previsti nella legge del 2003, il cosiddetto indultino, il testo unitario che si è rifatto ai testi base. Dunque, si tratta di una soluzione condivisa, non perché vi sia una convergenza di interessi singolari, come qualcuno sostiene, ma perché è un punto di equilibrio e sappiamo bene che l’indulto e l’amnistia non si possono approvare, se non si raggiunge un punto di equilibrio tra le diverse forze politiche. A nostro avviso, il testo presentato all’Assemblea contiene le caratteristiche dell’equilibrio; quindi, crediamo vada sostanzialmente mantenuto.

Siamo egualmente sensibili alle vittime dei reati. Chi non lo è? Chi non è sensibile a chi ha subito una violenza, un torto? Ma questo non significa che si debba trasformare la pena in una vendetta, perché se concepiamo la pena come una vendetta, torniamo al principio del taglione.

Questo non significa che il rispetto delle vittime non comporti anche, in misura diversa e secondo criteri diversi, il dovere di rispettare anche l’autore del reato. Ad avviso dell’onorevole Consolo, avremmo dovuto prevedere il risarcimento come condizione. Ma perché non è così e perché non è possibile? In primo luogo, perché ciò avrebbe creato una disparità tra coloro che sono in grado di risarcire e coloro che non sono in grado di farlo. In secondo luogo, perché il risarcimento è già previsto nella sentenza di condanna, quindi, o la sentenza può avere esecuzione, perché vi sono i beni, o non può avere esecuzione. Non è che non abbiamo voluto prevedere il risarcimento, perché non abbiamo interesse alla tutela della vittima. E poi, d’altra parte, la vittima, che è presente e forte e che giustamente è la persona offesa nel nostro ordinamento, non esclude che l’ordinamento preveda una serie di istituti che tengano conto del passare del tempo nell’esecuzione della pena e sono istituti che non sono di oggi, ma che risalgono addirittura ai tempi di Stati autoritari: la sospensione condizionale della pena, la liberazione anticipata, la semilibertà, la liberazione condizionale, la conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, che tanto è servito anche a qualcuno che è un rappresentante importante della politica.

Bene, queste sono misure ordinarie. Riteniamo che oggi sia necessario un provvedimento eccezionale per la situazione eccezionale in cui ci troviamo. Non andiamo contro la logica del codice. Attuiamo una norma costituzionale, che è l’indulto, e ne rispettiamo un’altra, che è l’articolo 27.

Nel concludere il mio intervento, chiedo soltanto che si torni al rispetto della ragione e del buonsenso. Non è il momento di farsi propaganda politica sulla sofferenza di qualcuno. Credo che, se il Parlamento arrivasse ad un voto senza divisioni, darebbe un segno di saper guardare al di là degli interessi di parte, anche al di là dell’utilità che può arrivare da una scelta piuttosto che da un’altra. Il Parlamento sa guardare ai diritti fondamentali della persona, come uno dei suoi compiti e delle sue missioni fondamentali. Credo che, in tal modo, ci dimostreremmo giusti e responsabili, non scontrandoci per cercare di guadagnare un voto in più o in meno. Non è questa la nobiltà della politica (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, de L’Ulivo e dei Verdi - Congratulazioni).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Capotosti. Ne ha facoltà.

 

GINO CAPOTOSTI. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, molto è già stato detto in quest’aula stamattina in ordine al testo su cui discutiamo. Tuttavia, vorrei sottolineare ancora una volta le condizioni obiettive nelle quali ci muoviamo.

Parliamo dunque di un sistema giustizia che è assolutamente in crisi, che è in ritardo in ordine ai molti moniti provenienti dall’Unione europea e ai molti precetti contenuti nella nostra Costituzione: quindi, su tutti i fronti. Possiamo parlare del processo civile, del processo penale - per tacere delle altre giurisdizioni -, del sistema carcerario, come quest’oggi in qualche modo ci accingiamo a fare. Parlare del sistema carcerario vuol dire sottolineare la natura della pena e cercare di capire - nell’adempimento di una funzione che compete allo Stato sociale, cioè ad uno Stato avanzato che promuove la personalità dei singoli, che è funzione dei singoli che lo compongono e che, quindi, è semplicemente un ente esponenziale, non un ente che dall’alto procede autonomamente - e di rivedere il sistema delle pene.

Un sistema che dovrebbe essere improntato, come già è stato detto, ad una funzione di repressione, di prevenzione, ma, certamente - e questo è il dato carente -, di reinserimento sociale. Per noi cattolici pensare ad una pena che non tenda alla rieducazione e non consenta oggettivamente di reinserirsi nel tessuto sociale vuol dire commettere un abominio, vuol dire che lo Stato non assolve ai suoi doveri e non tende a quelle conquiste di civiltà e libertà che hanno fatto dell’Italia un grande paese nel mondo. Noi non vogliamo abdicare a questa funzione, non vogliamo pensare che lo Stato italiano sia così in difficoltà, che questa Camera sia così in difficoltà, da non partire dalle condizioni obiettive.

Allora, si parla dell’indulto, un istituto costituzionale, premiale, così viene definito nei codici. In buona sostanza, il testo odierno parla di una liberazione anticipata, che consente ad una serie di soggetti di uscire prima di essere messi in libertà, a condizione che non ricadano ancora in errore. Quindi, parliamo di una misura di clemenza estremamente limitata e condizionata, che non incide sull’accertamento del reato, cioè sulla violazione penale. La violazione penale è stata accertata, rimarrà iscritta, ma persone che hanno sbagliato avranno la possibilità di mettersi prima alla prova. Quindi, si tratta di un istituto che, da un lato, ha una funzione, più che sociale, squisitamente politica nel senso che prima ho enunciato, dall’altro, tiene anche conto delle nostre condizioni obiettive, nelle quali non è più possibile, addirittura in molti casi, arrivare all’esecuzione.

Nella mia proposta di legge avevo previsto un sistema di condizioni più pesanti per accedere all’indulto, quasi sulla scorta dell’affidamento in prova. Mi sono confrontato con diversi magistrati e mi hanno detto che si trattava di un’idea bellissima, ma mi confermavano che non c’erano assolutamente le strutture in grado di attuarla. Per cui, sulla carta avrei anche potuto insistere, ma, davanti alla natura obiettiva dei fatti, ho inteso fare una scelta di libertà e di responsabilità.

Per questo motivo credo che l’atto parlamentare che oggi andiamo a compiere - squisitamente parlamentare per la maggioranza particolare che esso deve raggiungere - non sia un pactum sceleris come alcuni hanno sostenuto, ma un momento di equilibrio che tiene conto delle condizioni obiettive nelle quali siamo costretti a lavorare. Tiene conto del fatto che è necessario riformare al più presto i processi, rivedere i sistemi delle pene, per arrivare al fine per cui tutti questi istituti sono stati concepiti: punire i colpevoli, aiutarli a capire che hanno sbagliato e a reinserirsi nella società, di modo che domani possano contribuire alla crescita.

Sarebbe troppo facile, nonché fortemente demagogico, dire: tutti in carcere (benissimo, però non ci sono le carceri e non c’è capienza); tutti a scontare le pene negli altri siti (benissimo, ma non è una misura fisicamente attuabile).

Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia e continuare a farci belli con affermazioni che non hanno alcuna concreta possibilità di diventare reali. Dobbiamo partire da ciò che esiste in un quadro di riforma di sistema che sia, però, costituzionale. Un quadro di sistema che - mi dispiace che non sia presente l’onorevole Brigandì che ho ascoltato prima - sia rispettoso della divisione dei poteri conquistata in tanti secoli di lotte, in cui i poteri siano liberi ed indipendenti, in cui vi sia un quadro di raccordo ed in cui il sistema giustizia assolva ad una funzione che dovrebbe essere sempre più residuale, soprattutto per quanto attiene al piano carcerario. Un sistema giustizia che, avanzando, trovi le soluzioni più attuali rispetto a quelle che erano tali sessanta anni fa, per consentire il progresso della società.

Diversamente, noi sprechiamo risorse immense su soggetti che condanniamo dall’inizio a tornare a delinquere, perché non diamo loro alcuna possibilità effettiva e concreta di reinserirsi nella società. Ovviamente, ciò va fatto nel quadro della sicurezza generale; per questo motivo tutta una serie di crimini non possono entrare in questo provvedimento; per tale motivo si può parlare obbiettivamente di reinserimento, perché non parliamo di situazioni di particolare allarme sociale; per tale motivo ancora non si può essere una volta di più ipocriti.

Parlare di reati finanziari sapendo che saranno risolti dalle norme in tema di prescrizione - ma, forse, ci si riferisce a quelle sedici o diciotto persone che sono in condizioni di detenzione, anche se ancora per poco - e concentrare su questo una forma di giudizio che, addirittura, diventa una crociata contro, mi spinge a rifiutare di pensare che il Parlamento possa essere vincolato da «leggi-contro».

Voglio credere e rimarcare ancora una volta una funzione di Stato sociale che promuova effettivamente le condizioni di libertà e la realizzazione della persona. Uno Stato che adempia ai precetti costituzionali in tal senso mai potrà essere rappresentato da un Parlamento che pensa «contro». A me hanno insegnato che la politica si fa «per», e non «contro», qualcosa. Noi siamo qui in rappresentanza di tutti, possibilmente al servizio di tutti.

Tenuto conto del sistema generale, ritengo che il provvedimento, che stiamo oggi discutendo, sia equilibrato e possa essere approvato. A noi cattolici piace sottolineare la possibilità di maggiore rispetto della persona umana. Girando la medaglia si potrà dire: è un atto dovuto perché non siamo più in condizione di mantenere la popolazione carceraria. Io preferisco concentrarmi sul primo aspetto. Preferisco pensare ad un quadro di riforme a cui si sta dando avvio, nel quale la pena sarà sempre più strutturata come una misura alternativa alla detenzione, tale da mettere oggettivamente i soggetti che ne hanno i requisiti in condizione di partecipare, perché così noi li recupereremo al bene. In questo modo noi li sottrarremo effettivamente ad un contesto di delinquenza, nel quale, diversamente, continueranno a rimanere.

Credo che gli uomini possano sbagliare, nessuno di noi è perfetto, nessuno di noi ha la verità in tasca. Ritengo, però, che vi sia un principio di buona fede da rispettare. Credo che l’atto, in quanto riferibile ad una maggioranza parlamentare particolare, sia frutto di diverse esperienze e di diversi contesti, che tengono conto di tutte le situazioni che ho esposto. Credo che il provvedimento sia in condizioni di fornire oggi una risposta, rappresentando un primo segnale importante per una revisione generale del sistema. Sicuramente sarà necessario procedere nella direzione delle riforme globali.

Credo, tuttavia, che se oggi ci sotraessimo a questo confronto, semplicemente nascondendoci dietro la politica del «contro» o dietro un ragionamento particolare, renderemmo un cattivo servizio alla nazione, ossia alla comunità dei cittadini sul territorio nazionale e, soprattutto, negheremmo il mandato parlamentare che oggi ci vincola (Applausi dei deputati del gruppo dei Popolari-Udeur).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pisicchio. Ne ha facoltà.

 

PINO PISICCHIO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, desidero anzitutto esprimere una considerazione di gratitudine ai colleghi della Commissione giustizia, che hanno affrontato, con animo sgombro da pregiudiziali ideologiche, un tema sensibile e carico di drammaticità, quale quello dei provvedimenti di clemenza. Voglio riferire a quest’Assemblea il senso profondo della responsabilità dell’essere legislatore che ognuno dei componenti la Commissione giustizia ha dimostrato in questa circostanza non facile, così drammaticamente in bilico tra impulsi e spinte contrapposti, tra ragioni di partito e ragioni di coscienza, tra ricerca del consenso e tensione verso il risultato possibile, riuscendo a non cadere mai nelle derive della propaganda, della facile retorica e della contrapposizione pregiudiziale.

Va dato merito ai deputati della II Commissione di aver concorso a costruire un clima - so che ciò è stato ricordato in precedenza dall’onorevole Consolo -, un metodo di lavoro, una possibilità fondata sul rispetto reciproco, sfidando e sconfiggendo l’endiadi letale amico-nemico che troppo spesso ha caratterizzato i dibattiti politici nelle ultime stagioni. L’esperienza di lavoro su questo provvedimento ci ha restituito il senso di una possibilità antica, epppure spesso caduta in desuetudine: un Parlamento quale luogo del confronto e non del conflitto, dell’iniziativa legislativa e non solo della ratifica, della rappresentanza delle culture e delle sensibilità plurali del paese e non del pensiero conforme. Ciò è una grande risorsa, all’altezza della migliore tradizione parlamentare dell’Italia democratica, che dobbiamo insieme valorizzare. Grazie, dunque, a tutti i deputati della Commissione, ai funzionari, al relatore, ai colleghi che hanno condiviso il testo proposto all’attenzione dell’Assemblea ed a quelli che, motivatamente, non l’hanno condiviso in toto o in alcune sue parti, quali i deputati del mio gruppo, L’Italia dei Valori, cui va la mia considerazione e la mia solidarietà per l’impegno coerente con i principi fondativi del movimento.

Credo sia un esercizio necessario in questo dibattito asciugare le nostre parole da ogni ridondanza retorica e puntare dritto al cuore delle questioni, facendoci guidare dai riferimenti costituzionali. È, infatti, l’articolo 79 della Costituzione, lo ricordava il collega Pecorella, a dichiarare subito la natura del provvedimento di clemenza, una natura squisitamente parlamentare, considerato l’altissimo quorum richiesto per l’approvazione, superiore addirittura a quello necessario per operare modifiche alla Costituzione. Perché il Parlamento, nel 1992, modificò la norma, enfatizzando in tal modo la natura consensuale dell’amnistia e dell’indulto? Perché, evidentemente, intendeva sottolineare l’eccezionalità dell’intervento clemenziale, immaginando non solo che non potesse essere brandito come strumento politico di parte, ma anche che il suo potenziale abuso non inficiasse il significato della pena, che ha un valore dissuasivo, perché serve per mostrare a tutti che il crimine non paga e, in ragione di ciò, anche a prevenire la commissione di nuovi reati. Ma la pena è chiamata anche ad un’altra funzione.

Il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione rammenta che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il costituente dunque privilegiò il profilo rieducativo, anche rispetto a quello afflittivo, pur confermando ovviamente il valore retributivo della pena. Attraverso quali modalità potrà attuarsi il fine della rieducazione? Lo dice la prima parte dello stesso comma, che recita: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Non v’è dubbio alcuno sul fatto che, se le celle delle carceri italiane, concepite per ospitare 41 mila detenuti, sono costrette ad ospitarne 61 mila, queste costringono per ciò stesso, ma non solo per questo - ce lo ricordava in quest’aula Giovanni Paolo II nel novembre del 2002 - ad una condizione di cattività.

Queste considerazioni, io credo, sono state alla base delle determinazioni che hanno condotto la Commissione giustizia ad adottare il testo proposto poi all’Assemblea, costruito con una valutazione rigorosa quanto alle cause di esclusione dai benefici, ben ventisette, riferite ad una gamma di reati gravi: esclusioni inusuali in un provvedimento di indulto, in genere proiettato verso sconti di pena oggettivi perché calibrati sul tempo. Certo, altre esclusioni avrebbero potuto trovare luogo nel testo; penso in particolare alle istanze dell’Italia dei Valori, riferite ai reati finanziari e contro la pubblica amministrazione, probabilmente incontrando una condivisione molto larga nel paese, anche se probabilmente non la condivisione dei due terzi dei parlamentari richiesta dalla Costituzione.

Sia chiaro: nessun legislatore serio e responsabile potrà dichiararsi felice per un indulto invocato a fini deflattivi. Questa è una dichiarazione di incapacità da parte dello Stato di garantire l’esecuzione della pena nelle condizioni previste dall’articolo 27 della Costituzione. Io stesso proverei disagio se non mi sentissi impegnato, come presidente della Commissione, a garantire da subito un’attività di revisione dell’intero assetto, assai più articolato, del comparto, riconsiderando le politiche della pena in una nuova dimensione di efficienza e di efficacia.

 

PRESIDENTE. Onorevole Pisicchio, la invito a concludere.

 

PINO PISICCHIO. Senza questa prospettiva, quello che facciamo in queste ore sarebbe inutile. Questo dunque è l’impegno che assumiamo di fronte a questa Assemblea parlamentare e di fronte al paese. Con questo impegno e con questi intendimenti, avvertendo forte in me la responsabilità istituzionale della presidenza della Commissione, anticipo che assumerò nel voto in Assemblea la stessa posizione di terzietà manifestata nei lavori di Commissione, non in dissenso dal mio gruppo, bensì in ossequio al ruolo istituzionale, al quale sono chiamato e al quale intendo conformarmi nel corso del mio mandato.

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Costa. Ne ha facoltà.

 

ENRICO COSTA. Signor Presidente, colleghi deputati, di amnistia e di indulto si è parlato in molte circostanze. Il primo provvedimento è del 1942. I provvedimenti di clemenza hanno delle origini remote. Essi discendono dal potere sovrano di clemenza, la cosiddetta indulgentia principis. Quindi, sicuramente si è dibattuto e la dottrina ha affrontato molte di queste argomentazioni. Senza dubbio si tratta di una misura eccezionale, e su questo nessuno ha dubbi, perché essa agisce in deroga rispetto ad alcune finalità della pena. Abbiamo una finalità retributiva, quindi una pena proporzionata rispetto al danno, cioè rispetto al fatto che è stato commesso. Vi è poi una funzione di prevenzione, general preventiva, quindi una pena come deterrente rispetto al compimento dei reati. Abbiamo inoltre una finalità rieducativa della pena.

Oggi, attraverso questo provvedimento, si punta - ed è chiaro anche dall’intervento del relatore - a sacrificare la finalità retributiva e anche quella general preventiva a fronte di un’assenza, condivisa da tutti, della finalità rieducativa della pena così come scontata nelle strutture carcerarie.

A fronte quindi di questo atto eccezionale, è chiaro ed evidente che le finalità che debbono ravvisarsi sono da individuarsi nella cosiddetta opportunità politica. Dobbiamo interrogarci se vi siano le condizioni e, realmente, un’opportunità politica per sacrificare le funzioni della pena. Alcuni, anzi, quasi tutti gli interventi che mi hanno preceduto, hanno evidenziato un filo conduttore importante, rappresentato dalla necessità e dall’esigenza, per giustificare il provvedimento di clemenza, di ancorarlo e collegarlo ad una riforma cosiddetta strutturale di quello che è il sistema carcerario, la funzione della pena e le pene alternative.

Dunque, bisogna chiaramente partire da una riforma organica del sistema carcerario: inadeguato, con strutture affollate e con detenuti che non sono messi in condizioni di lavorare. La pena, insomma, ha oggi una funzione affittiva, ma non certo rieducativa. L’indulto, quindi, deve essere accompagnato da atti che vadano ad incidere sulla modalità di esecuzione delle pene. Queste ultime - lo abbiamo ricordato molte volte - non garantiscono quella rieducazione come vorrebbero le norme della Costituzione. Ben pochi detenuti lavorano, studiano, frequentano corsi professionali e sono quindi preparati ad un reinserimento completo nella società.

Si pensi che, alla data del 31 dicembre del 2005 (dai dati che ci sono stati forniti dal Ministero della giustizia), su una popolazione carceraria di circa 61 mila unità, soltanto 15.500 lavoravano. Tuttavia, teniamo conto che di questi ultimi, soltanto poco più di 2 mila lavoravano alle dipendenze di ditte esterne, compresi i semiliberi (quindi, quasi soltanto i semiliberi), nonostante vi siano delle norme che favoriscono le assunzioni di detenuti per le ditte esterne. Oltre 11-12 mila di questi detenuti lavoravano, sì, ma alle dipendenze dell’amministrazione carceraria; che è sicuramente importante, ma rappresenta un’opportunità di occupazione che non garantisce l’acquisizione di professionalità spendibili sul mercato del lavoro. Gli interessi degli imprenditori nei confronti della manodopera dei detenuti è ancora limitato, anche a causa delle difficoltà ad interagire con un ambiente dove le questioni legate alla sicurezza sono certamente più importanti di quelle legate alla produttività.

Sono in corso - e lo abbiamo visto dalle relazioni del ministro della giustizia - attività di sperimentazione di formule lavorative innovative. Sono stati attivati dei corsi professionali: soltanto nel 2005, 604 corsi professionali con oltre 7 mila partecipanti. La legge prevede dei vantaggi per le cooperative e le imprese che vogliano assumere detenuti in esecuzione penale; ma manca - ed è compito del Governo provvedere in tal senso - un approccio organico alla materia. Il Governo ha partecipato alla discussione in Commissione, ma il suo ruolo è stato di semplice osservazione. È mancata una capacità del Governo di accompagnare l’esame dell’indulto in Commissione con un approccio organico alla materia, che consentisse di interpretare questo provvedimento non come un atto eccezionale, disorganico e isolato, ma come un atto nell’ambito di un complesso di provvedimenti.

Vado oltre. Il 33 per cento degli attuali detenuti è rappresentato da cittadini stranieri; solo nell’anno 2005, i nuovi ingressi nelle carceri, per il 45 per cento, sono rappresentati da cittadini stranieri, moltissimi in custodia cautelare. Cittadini con nuovi e diversi problemi di reinserimento nella società: povera gente, che si era illusa, venendo in Italia, di trovare il benessere e che invece ha commesso dei reati. Vorremmo capire dal Governo come intenda affrontare tale questione; mi pare infatti che oggi l’approccio nei confronti degli stranieri sia alquanto disorganico. Il Consiglio dei ministri di venerdì scorso, infatti, ha deliberato una «sanatoria» - la chiamo proprio così: sanatoria -: 350 mila domande accolte, quando il precedente Governo aveva stabilito che i flussi si fermassero a 170 mila. Al riguardo, mi rivolgo al rappresentante del Governo e chiedo se si sia riflettuto sugli effetti che, tra l’altro, tale provvedimento determinerà sul sistema carcerario italiano.

 

ENRICO BUEMI, Relatore. Che c’entra?

 

ENRICO COSTA. Mi domando, e si interroga anche il relatore su tale profilo...

 

ENRICO BUEMI, Relatore. Che c’entra questo?

 

ENRICO COSTA. Ebbene, penso che un provvedimento di questo genere debba fare riflettere sull’approccio che avrà il Governo. Ritengo, infatti, che molti dei cittadini che beneficeranno di tale indulto dovranno, poi, essere espulsi per effetto della condanna; a tale riguardo, chiederei al Governo di voler riferire, in sede di replica, su come si sta preparando a tali evenienze e sulle modalità che verranno seguite.

Dopo l’indulto del 2003, il cosiddetto indultino, si è avuto un rientro in carcere, nel giro di due anni, di un terzo dei detenuti che erano usciti; mancano i dati - non sono stati forniti alla Commissione - sull’indulto del 1990. Ritengo che tutti i parlamentari comunque favorevoli ad un provvedimento di clemenza e che lo reputino però un atto eccezionale si attendano dal Governo risposte su come si intenda procedere per fare in modo che non ci si limiti semplicemente ad un atto eccezionale, isolato e disorganico. Vi sono tanti altri versanti sui quali intervenire; se consideriamo i detenuti in custodia cautelare, ebbene, in molte circostanze...

 

PRESIDENTE. Onorevole...

 

ENRICO COSTA. Concludo, signor Presidente.

 

Ebbene, in molte circostanze, taluni detenuti scontano la loro pena addirittura prima ancora che venga celebrata l’udienza preliminare: a seguito della condanna, non vi è, dunque, alcuna esecuzione penale. Ecco, anche ciò costituisce una questione molto importante; bisogna fare in modo che la pena non venga scontata anticipatamente rispetto al processo.

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole D’Ulizia. Ne ha facoltà.

 

LUCIANO D’ULIZIA. Onorevole Presidente, signor sottosegretario, ho cercato di seguire, stamani, il dibattito e ritengo che purtroppo i giochi siano già fatti; purtuttavia, ritengo sia necessario precisare la posizione del nostro gruppo e del nostro partito.

Ebbene, non ho sentito fare alcun riferimento, in tutto il dibattito, alla tutela del cittadino ed alla coerenza rispetto al programma dell’Unione e delle componenti che ne fanno parte. Noi affrontiamo il provvedimento di indulto senza preoccuparci degli effetti che procurerà sulla società civile; effetti che, sulla base delle esperienze pregresse, sono devastanti.

Abbiamo visto che soprattutto coloro i quali hanno commesso reati di natura finanziaria e fiscale - quindi, reati contro la pubblica amministrazione - una volta fuori dal carcere li hanno reiterati, hanno proseguito tranquillamente, come se nulla fosse accaduto.

Vedo una incoerenza rispetto al programma dell’Unione - della quale facciamo parte e nella quale intendiamo rimanere - e vogliamo contribuire a migliorarlo ed a renderlo coerente. Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’azione del nostro gruppo, il gruppo dell’Italia dei Valori, è finalizzata non a bocciare l’indulto, ma a correggerlo nei suoi aspetti deteriori e contraddittori che non tutelano i cittadini. La tutela del cittadino - che sia detenuto o in libertà - deve essere la nostra prima preoccupazione. Allora, noi che facciamo parte dell’Italia dei Valori intendiamo far riflettere il Parlamento, soprattutto le forze di maggioranza, ma anche - perché no? - le forze di opposizione. Ho ascoltato molte dotte relazioni e molti interventi sulla funzione rieducativa del carcere. Il precedente Governo, che avrebbe dovuto risolvere tutto, che cosa ha fatto, per cinque anni, in ordine a questo problema? Noi ci troviamo ad affrontare il problema delle carceri in modo sbagliato, poiché non assicuriamo quella adeguata organicità alle risposte, in modo che siano effettivamente consistenti e rispondenti alle necessità. Non può essere soltanto il sovraffollamento delle carceri a giustificare un provvedimento di indulto che determina il ritorno nella società civile di migliaia di persone le quali, non avendo conseguito un recupero, potrebbero senz’altro - lo dico con rammarico - proseguire nelle azioni delittuose. Qual è, allora, la tutela del cittadino? Come tuteliamo i cittadini italiani? Non li tuteliamo! Ecco perché noi cerchiamo di ridurre il danno e chiediamo che siano estrapolati dal provvedimento i reati di natura fiscale e finanziaria commessi da corrotti e corruttori.

 

PRESIDENTE. Onorevole D’Ulizia...

 

LUCIANO D’ULIZIA. Sto per concludere, signor Presidente.

La nostra posizione è nota: non intendiamo boicottare il provvedimento ma migliorarlo e, anzi, esprimere convintamente un voto favorevole. Ho letto da qualche parte che noi vorremmo fare giustizialismo. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, noi non vogliamo fare alcun giustizialismo e questa accusa la rimandiamo al mittente. Vorremmo, invece, la giustizia, quella giusta, e la pretendiamo.

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Capezzone. Ne ha facoltà.

 

DANIELE CAPEZZONE. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghe e colleghi, siamo nel cuore di un dibattito importante in un’aula deserta. Mi sottrarrò alla facile demagogia di affermare che quest’aula è deserta mentre sono stracolme altre aule, per dire così, meno prestigiose eppure assai interessate a questo nostro dibattito. Mi sottrarrò a questa facile demagogia.

Certo, però, nelle carceri italiane, ma così anche nell’Italia tutta, che vanta milioni di donne e di uomini che sono travolti nella loro vita dal disservizio giustizia - quindi, non solo le decine di migliaia di detenuti italiani bensì alcuni milioni di persone - si seguirà con grande attenzione l’esito di questa nostra discussione.

Confesso, tuttavia, che non sono molto soddisfatto e neppure persuaso da alcune ragioni favorevoli che pure sono state espresse nei confronti del provvedimento, quando, cioè, sono declinate in termini di ragioni umanitarie. Bisogna fare questo provvedimento per ragioni di umanità: no, qui non è questione né di bontà, né di buonismo. Se questo fosse l’approccio, francamente, non risulterebbe convincente dal mio - dal nostro - punto di vista.

Gli approcci sono altri. In primo luogo, occorre favorire almeno una possibilità di rientro nella legalità di uno Stato italiano che è, oggi, su questo fronte, primatista di condanne dinanzi alle Corti internazionali. Ciò vale per la durata dei processi, per la situazione indecente delle nostre carceri.

In secondo luogo, occorre creare, costruire la possibilità di riforme strutturali, cosa che oggi passa proprio dalla conquista di un tempo di decongestionamento, di alcuni semestri, non di più, che costituirebbero quelle «bombole di ossigeno», quel tempo necessario per consentire alle Camere di affrontare le riforme strutturali.

È esattamente l’opposto di ciò che sentiamo dire, a volte (l’ha fatto molte volte il collega Violante con apparente ragionevolezza): no - dicono alcuni colleghi - prima si facciano le riforme e poi si passi ai provvedimenti di clemenza.

Io ritengo, invece, che valga esattamente il contrario. Questi provvedimenti danno il tempo, la condizione, la possibilità, il margine di decongestionamento per affrontare le riforme di fondo, che sono quelle della carcerazione preventiva. Questo è un paese in cui la metà dei detenuti italiani è in attesa dei processi; questo è un paese in cui tra una sospensione e l’altra si può arrivare fino a nove anni di carcere in attesa di processo.

Il tempo, ancora, lo dobbiamo conquistare per alcune depenalizzazione importanti, per un intervento serio in materia di droga perché, altrimenti, finiremo con le Forze dell’ordine che saranno costrette ad occuparsi di ragazzi con qualche spinello in tasca.

Ancora, ulteriori interventi servono in tema di immigrazione. Ecco, allora, i due approcci che mi convincono di più: per un verso, il rientro nella legalità rispetto ad uno Stato fuorilegge e, per altro verso, la conquista del tempo necessario alle riforme strutturali. Vedete, è mia opinione che noi dobbiamo anche - questo vale per il dibattito politico - fare un discorso di fondo su chi oggi va davvero in carcere. Noi usciamo da due campagne elettorali nelle quali, da destra e da sinistra, si è gridato «sicurezza, sicurezza» e quasi nessuno si è sottratto a questo slogan. Eppure, il novanta per cento dei reati nel nostro paese restano impuniti. Nel caso dei reati contro il patrimonio, si sale addirittura.

Allora, dal cento per cento dei reati cominciamo a levare questo novanta per cento che resta impunito. Poi, sottraiamo ancora le trecentomila prescrizioni l’anno. Nell’ultimo quinquennio vi sono state un milione e mezzo di prescrizioni, per coloro, fortunati e bravi, che possono consentirsi una difesa degna di questo nome.

Ma allora, sottraendo il novanta per cento dei reati impuniti e sottraendo le trecentomila prescrizioni l’anno, alla fine della fiera, chi va in carcere? Tossicodipendenti, immigrati: sfigati!

Si può dire che questa, con le parole di un grande socialista che non c’è più, è la testimonianza di uno Stato forte con i deboli e debole con i forti. Si può dire, con un linguaggio che non è mio - non sono né marxiano, né marxista - che questa è una visione classista del carcere e della giustizia che finisce per colpire soltanto alcuni.

Credo che questo sia il tema e l’approccio che dobbiamo darci. Mi avvio a concludere ma un po’ di storia va fatta.

È stato ricordato l’anno 2003. Lo ricordano gli amici, Rita Bernardini, Sergio D’Elia, io stesso: in un semestre, 54 giorni di sciopero della fame per supportare l’azione guidata dai primi firmatari, Buemi e Pisapia allora, ma poi sostenuta da tanti parlamentari, per approvare l’indulto.

Poi, questa Camera - per la verità - fu solerte ed efficace nella sua azione, con un ruolo positivo svolto dal presidente della Commissione giustizia, Pecorella, dal Presidente della Camera Casini e da tanti parlamentari; i guai vennero al Senato, i tempi si allungarono e - come ne Il vecchio e il mare - in porto arrivò una lisca tutta spolpata.

Successivamente si è ritentato. Ha ripreso il testimone nei mesi passati Marco Pannella, attraverso un’altra lunga azione non violenta, che portò ad una marcia di Natale a cui presero parte personalità, rappresentanti di ogni forza politica, nonché l’allora senatore a vita Giorgio Napolitano. E fu merito dell’onorevole Giachetti di provare a richiamare le Camere, non all’obbligo di esprimere un voto favorevole - mai un’azione non violenta, un’azione politica possono essere volte a questo obiettivo -, ma alla moralità di una discussione e di un voto. Finì con una brutta seduta, con una brutta pagina e poi, nelle settimane successive, con un grande dolore, vale a dire con i Democratici di sinistra e la Margherita che finirono per convergere sugli emendamenti di Alleanza nazionale e della Lega per affossare tutto. E non è dimenticabile quel comunicato del Presidente Prodi, con Fassino e Rutelli, sul cosiddetto indulto graduato, che non sappiamo nelle gerarchie... militari che fine farà.

Grazie all’impegno di tanti cittadini e di tanti detenuti abbiamo cercato di dare una mano attraverso una lunga azione non violenta per la calendarizzazione del provvedimento di clemenza; dunque, finalmente, si può giungere ad un voto prima della pausa estiva. A noi restano tre preoccupazioni. La prima riguarda il fatto che si è deciso di stralciare l’amnistia, di tenerla da parte. Non vogliamo che quella partita sia considerata chiusa e continuiamo a chiedere che, alla ripresa dei lavori, anche l’amnistia sia calendarizzata perché quello è il provvedimento che incide sulla realtà dei magistrati, sui 9 milioni di processi pendenti e sui 18 milioni di italiani che hanno a che fare con il disservizio della giustizia.

La seconda preoccupazione è quella di evitare, rispetto a questo provvedimento di indulto, ciò che accadde nel 2003, quella che io definisco la «strategia del carciofo», attraverso la quale, foglia dopo foglia, non resta niente. Sappiamo anche che qualunque sia il provvedimento che sarà approvato, dovrà fare i conti con il «generale Agosto» e con la situazione che in questo periodo caratterizza i magistrati di sorveglianza. Quindi, figuriamoci se il provvedimento dovesse essere spolpato e successivamente ulteriormente spolpato dalle difficoltà di operatività o, peggio, da parte della magistratura di sorveglianza!

La terza ed ultima preoccupazione è quella concernente il dibattito di questi ultimi giorni relativo ai reati finanziari, a cosa includere ed escludere dal provvedimento. Rispetto molto la posizione - che tuttavia non condivido - del ministro Di Pietro e dei parlamentari dell’Italia dei Valori. Quindi non mi rivolgo a loro - che svolgono la loro legittima e lineare battaglia politica -, ma a quanti nel resto del mondo politico, più o meno strumentalmente, prendono quella bandiera o a quanti - lo abbiamo visto anche sui giornali di oggi - aprono questo dibattito.

In questo paese, vi sono quelli che, rispetto a qualunque tema, hanno paura della privatizzazione; io, com’è noto, non sono fra questi. Tuttavia, peggio dei rischi della privatizzazione, vi è solo il rischio della «previtizzazione» perenne del dibattito sulla giustizia e sulle carceri. È stato così nella scorsa legislatura, durante la quale la maggioranza di allora è stata condizionata dagli interessi e dall’aver sempre lo sguardo rivolto ad alcune persone.

Diciamo le cose come stanno alla parte destra di quest’aula, che oggi è quasi completamente assente. Noi, da garantisti, non abbiamo mai usato questo argomento, ma ciò va detto: se ci fosse stata, sulle grandi riforme dell’economia e delle istituzioni o sulle vere riforme della giustizia e sulla separazione delle carriere, la celerità e la speditezza che c’è stata per approvare il falso in bilancio, le rogatorie e le altre cose che conosciamo, avremmo un paese trasformato. Non è stato così.

È stata la legislatura delle leggi ad personam. Non vorremmo che oggi, a parti invertite, la «previtizzazione» del dibattito rimanesse e si passasse alle leggi contra personam. Non può funzionare così.

Credo che dobbiamo scegliere se parlare di giustizia e di carceri rispetto all’imputato o al condannato noto adottando il metodo della «previtizzazione», o, invece, usare il metodo della civiltà e del rispetto per tutti, anche per il cittadino Previti e per gli altri, ossia occupandosi, sempre e comunque, dell’imputato, del condannato e del detenuto ignoti, di coloro che non hanno difese, che non hanno tribune e che non hanno neanche propri parlamentari per discutere di questo argomento.

Allora, spetta a noi scegliere se compiere una scelta di ragionevolezza o, invece, tramutare il dibattito - magari domani o quando vi saranno le dichiarazioni di voto, quando quest’aula per qualche mezz’ora si popolerà -, facendone un’occasione, a beneficio dei TG, di qualche rissa, di qualche polemica e di qualche battibecco, in cui ciascuno, per quei quindici secondi del «pastone» della sera, possa mettersi la mostrina o il fiore all’occhiello che preferisce, quello più antigarantista o quello forcaiolo, con la corsa al «più uno» che in questo caso non manca mai.

Noi speriamo altro. Speriamo che, soprattutto da parte della maggioranza, ma anche della parte più liberale dell’opposizione, si prenda coraggio per svolgere un dibattito e assumere una decisione all’altezza di tante donne e uomini, che - lo ripeto - seguiranno questo dibattito dalle proprie case, e degli italiani che hanno un processo in corso, di quelli che lo hanno già avuto o che lo devono ancora avere, ma che sono altrove, in «aule» un po’ più affollate e un po’ più scomode di queste (Applausi dei deputati dei gruppi de La Rosa nel Pugno e de L’Ulivo).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Daniele Farina. Ne ha facoltà.

 

DANIELE FARINA. Signora Presidente, colleghe e colleghi deputati, signor sottosegretario, diversi interventi hanno sottolineato che stiamo esaminando un provvedimento che sfugge dal marzo del 1992. Trentaquattro volte l’amnistia e l’indulto sono stati concessi fino ad allora. Poi, è arrivata la sciagurata norma che ha introdotto la maggioranza qualificata dei due terzi. Poche settimane prima, si era scatenata la tempesta di Tangentopoli e - giova ricordarlo - il Parlamento agì allora sotto un’evidente condizione di pressione, trasformando un provvedimento ordinario nella sua straordinarietà, come l’amnistia e l’indulto, in fatto eccezionale, sottoposto ad una condizione di voto parlamentare non richiede neanche per la modifica della Carta costituzionale, come diversi colleghi hanno ricordato.

In queste ore e in questi giorni, mi sono tolto la curiosità di sapere e di approfondire come la pensavano allora alcuni commentatori, anche autorevoli, che dalle colonne dei principali quotidiani si schierano oggi contro l’accordo raggiunto per dare a questo indulto la maggioranza di cui necessita. Bene: mi sono fatto l’idea che, almeno per quanto riguarda questo aspetto, questi autorevoli commentatori non hanno le carte in regola. Proprio le disfunzioni nell’applicazione della giustizia nel paese, storiche, e lo stato drammatico delle sue carceri avevano fatto dell’amnistia e dell’indulto un meccanismo improprio, ma regolatore. Poi nulla, e le conseguenze si sono via via evidenziate agli occhi di tutti.

La popolazione detenuta è esplosa, fino a contare oggi, come è stato ricordato, 61 mila cittadini e cittadine, a fronte di una capienza massima di poco più di 45 mila posti. Tutto ciò, senza che le croniche mancanze del sistema giudiziario e custodiale siano venute meno, anzi. Non è un caso che inseriamo il provvedimento in esame all’interno di un necessario moto di riforma del codice penale, dell’ordinamento giudiziario, dei tempi della giustizia penale e civile, del ruolo della magistratura di sorveglianza, eccetera.

Però, l’emergenza è oggi, anzi ieri.

Non citerò il Santo Padre - mi rivolgo al collega Orlando - ma vorrei ricordare a tutti, come in parte è già stato fatto dal collega Capezzone, il 27 dicembre 2005, data in cui, rimettendo la Commissione giustizia la proposta di amnistia e di indulto, la Camera dei deputati non ha certo scritto una delle sue pagine più felici. Al punto che, oggi, qualifichiamo, come gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, questo atto come «clemenziale» e non piuttosto come dovuto segno di responsabilità verso il paese.

Avremmo voluto varare, come consuetudine, il provvedimento di amnistia insieme a quello di indulto. Abbiamo realizzato che sarebbe, ancora una volta, mancata la maggioranza necessaria. Abbiamo dunque optato, nostro malgrado, per ridurre il danno: al «niente subito» o al «tutto mai» opponiamo l’indulto, «nudo» e solo, ma portatore dell’80 per cento dei benefici del provvedimento congiunto. Interesserà, secondo il Ministero della giustizia, 12 mila detenuti e 16 mila cittadini sottoposti a misure alternative. Inoltre, non cesseremo di agire perché a settembre anche l’amnistia torni ad essere discussa in Assemblea.

Vi è stato un tempo, colleghi, in cui la rubrica delle lettere di numerosi quotidiani e qualche poco autorevole commentatore dipingevano le nostre carceri come confortevoli hotel, puntavano il dito contro le televisioni a colori et similia. Oggi, ciò avviene assai meno. E un motivo ci sarà.

Si dovrebbe istituire, aggiungo io, la giornata delle «carceri aperte» (scusate l’ironia), in cui i cittadini possano visitare gli istituti penitenziari delle proprie città, nei limiti di agibilità e sicurezza. Sono convinto che ne emergerebbe una rivolta di coscienza civile, un moto unanime di scandalo e di ripulsa, di indignazione profonda. Siamo, infatti, andati ben oltre quei trattamenti contrari al senso di umanità, cui si oppone l’articolo 27 la Costituzione, troppo oltre.

Se qualcuno avesse coraggio, tanto coraggio, potrebbe fare un «girone», non un giro, nei reparti destinati ai tossicodipendenti per prendere informazioni generali sullo stato del diritto alla salute nelle carceri della Repubblica, una rieducazione lontana come un miraggio a fronte di un male che si è mutato in peggio.

Se il provvedimento in esame non dovesse essere approvato, chiedetevi, colleghi, quale umanità uscirà da luoghi di tal fatta, dove si vive in quel modo. Vi sono forze politiche, qui rappresentate (lo hanno già espresso e lo esprimeranno), di maggioranza come di opposizione, che annunciano il loro voto contrario. Si assumono una grande responsabilità nei confronti dei cittadini, perché stanno lavorando contro la loro sicurezza e non, come sostengono, a favore.

Sappiamo che tra coloro che godono di misure alternative alla detenzione, 50 mila nel corso del 2005 (per avere la misura della rilevanza anche di questo problema), il tasso di recidività è di un quarto rispetto a chi sconta interamente la pena in carcere ovvero chi accede alle misure alternative, chi viene seguito dalla rete preziosa dei servizi ha quattro volte in meno la possibilità di tornare a delinquere.

E voi cosa pensate che uscirà dalle nostre carceri nelle attuali condizioni di incrudelimento, se l’indulto fosse anche questa volta battuto? Quanta insicurezza avrete regalato agli italiani, che asserite di voler difendere? E quei cittadini, quelle famiglie, quella amministrazione dello Stato, a chi se non a voi dovrà rivolgere le proprie lagnanze?

Come vedete, chi lavora per l’approvazione di questo provvedimento si assume la responsabilità delle azioni di altri 12 mila cittadini che verranno rilasciati, ma anche il merito di quelle che non verranno commesse, di un percorso possibile di reinserimento e nuova cittadinanza. Questo è un paradosso: chi più grida per il rigore e la legalità favorisce invece maggiore illegalità; chi viene accusato di «perdonismo», il nostro gruppo magari, favorisce la legalità e la convivenza civile.

Di più: laddove si invoca a motivo dell’opposizione al provvedimento in esame la mancata esclusione di reati contro la pubblica amministrazione o di quelli finanziari e societari, non posso che ricordare come l’indulto escluda le pene accessorie permanenti e si sia limitato a quelle temporanee e che, non essendo atto di carattere ablativo del reato, sono fatte salve le conseguenze sul piano civile della commissione di quegli stessi reati.

Dunque, non sventolerei tanto le decine di migliaia di cittadini colpiti e coinvolti dai crack come quello della Parmalat, perché mi sembra argomentazione perlomeno levantina. Questo è anche un invito ad abbandonare le facili «ghiottonerie» di posizione (definiamole così) e a lavorare nell’interesse generale del paese.

La campagna elettorale si è conclusa, lo hanno ricordato altri colleghi. Oggi, soprattutto nelle forze di maggioranza, deve prevalere nei fatti, oltre che nelle parole, la responsabilità di Governo. Non si può rinviare a domani, alla riforma ventura, a leggi che verranno. Per quelle c’è una tensione comune che, però, ha i suoi tempi e il suo dibattito.

Peraltro, ci rendiamo conto di varare un provvedimento tampone e sappiamo bene che, senza cambiamenti profondi, rischiamo di trovarci, tra alcuni mesi, in condizioni analoghe. Se, ad esempio, non modifichiamo, come da programma dell’Unione, il testo unico sulle sostanze stupefacenti, come modificato dalla legge n. 49 del 2006, se non modifichiamo la cosiddetta legge Fini-Giovanardi n. 286 del 2002 o la cosiddetta legge Bossi-Fini, ben difficilmente giungeremo mai ad un qualunque risultato sul terreno di una giustizia efficiente e celere, nonché magari giusta, e neppure riporteremo le carceri a quell’ultima ratio cui dovrebbero essere destinate.

In questa direzione vi è un modello ampiamente sperimentato da cui dobbiamo fuggire: è quello degli Stati Uniti d’America. Ciò non per infantile antiamericanismo, ma per palese fallimento. Settecento cittadini ogni centomila rinchiusi - il tasso più alto del pianeta - non hanno prodotto maggior sicurezza: anzi! Invece, la nostra rete dei servizi (ho citato i cinquantamila casi nel 2005), ossia l’affidamento, la detenzione domiciliare, la semilibertà, rappresentano un’alternativa efficiente. Ecco perché in Commissione giustizia, dietro sollecitazione del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, abbiamo chiesto che nel DPEF 2007-2011, il documento fondante i prossimi anni della politica di Governo, vi sia un maggiore impegno proprio nella rete dei servizi territoriali. Usiamo, dunque, anche le risorse che questo provvedimento di indulto rende libere per potenziare finalmente le politiche e l’abnegazione di migliaia di operatori, politiche che si rivelano le migliori. Il carcere rimanga l’ultima ratio!

Mi avvio alla conclusione, signor Presidente. Avremmo voluto cogliere l’occasione della discussione di questo provvedimento per riaprire il dibattito sugli anni di piombo: non è stato possibile. Abbiamo voluto e dovuto fare un passo indietro per realismo e responsabilità.

Ciò nonostante, l’idea che quella stagione, che poco ha a che vedere con recenti e più sanguinarie follie, possa chiudersi anche sul piano giudiziario rimane un impegno di questa come delle passate legislature.

Ordinamento giudiziario, riforma del codice penale, legge cosiddetta ex Cirielli nella parte della recidiva saranno i prossimi terreni su cui misurare il primo passo che questo provvedimento di indulto rappresenta.

Partiamo dalla coda, dagli ultimi, dagli effetti dei mali della giustizia. Sicurezza dei cittadini e non afflittività viaggiano assieme, si rafforzano, piuttosto che indebolirsi.

Lo ripeto: sicurezza dei cittadini e non afflittività viaggiano assieme, si rafforzano, invece che indebolirsi.

Questa è la sfida della nuova legislatura per questo gruppo e l’indulto deve essere inserito in un contesto di paradigmi alternativi, proprio per la sicurezza dei cittadini, e non deve essere considerato un’isolata tecnica riparatrice, che denuncia la nostra impotenza e i nostri errori (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, de L’Ulivo e de La Rosa nel Pugno).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nicco. Ne ha facoltà.

 

ROBERTO ROLANDO NICCO. Signor Presidente, colleghe e colleghi, signor rappresentante del Governo, la questione della sicurezza personale e della comunità nel suo insieme è certo una delle principali preoccupazioni dei cittadini.

Non solo e non tanto per i fatti eclatanti che riempiono le pagine dei giornali, quanto (forse, ancora di più) per quella diffusa microcriminalità che ognuno può toccare con mano: un susseguirsi di fatti, in sé singolarmente presi, neppure degni o quasi di cronaca, ma che possono pesantemente incidere nell’animo dell’individuo.

Sarà capitato anche a voi, come a me, di raccogliere la testimonianza di qualche anziano e di constatare l’angoscia che ha generato in lui vedere violata la sua abitazione, considerata il luogo di protezione per eccellenza, le porte e le finestre scardinate, le stanze a soqquadro, gli effetti più cari distrutti o calpestati: più ancora della perdita degli oggetti di valore, pur sempre sostituibili, è proprio questa componente a marchiare negativamente chi ha subito una tale violenza. I cittadini onesti, quelli che considerano dovere civico rispettare le regole che assieme ci siamo dati, chiedono sicurezza e giustizia alle istituzioni: a noi, Parlamento, sul piano legislativo, ed alle strutture dello Stato sul piano operativo. E qual è la nostra risposta?

La giustizia nel suo complesso sta vivendo, in Italia, una stagione particolarmente difficile e travagliata, di crisi manifesta. Basta scorrere la relazione del Primo presidente della Corte di cassazione, Marvulli, sull’attività giudiziaria nell’anno 2005, nella quale si legge del non invidiabile primato dell’Italia in merito al maggior tempo impiegato nella definizione dei processi civili e penali a fronte del maggior numero dei giudici. È a tutti noto - afferma il Primo presidente - come l’esasperata lentezza della giustizia si traduca, nel campo civile, in una vera e propria denegata giustizia che danneggia chi un torto ha già subito e, nel campo penale, nella neutralizzazione della sanzione. Così altri prima di lui, tra cui un Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Verde, il quale non ha esitato ad affermare che l’attuale sistema è costruito in maniera tale che la prescrizione dei reati è una quasi certezza.

L’ordinamento penitenziario, poi, secondo il Primo presidente Marvulli, ha finito per dissolvere la certezza della pena, perché oggi vi è la certezza che nessuna pena verrà eseguita nei termini in cui è stata dal giudice disposta, tali e tanti essendo i benefici e le misure alternative introdotte. Ed è notorio che, dei delitti denunciati, la maggior parte rimane impunita, perché ne restano ignoti gli autori. Quanti sono i cittadini che neppure più denunciano i reati, essendo talvolta la denuncia, per il denunciante, fonte più di preoccupazioni che di giustizia?

Qual è la nostra risposta alla sacrosanta esigenza di sicurezza e di giustizia dei cittadini onesti? Questa proposta di indulto? La scarcerazione di oltre 12 mila detenuti, un colpo di spugna, incredibilmente, anche per chi è stato condannato per reati di corruzione e concussione commessi contro la pubblica amministrazione?

È di tutta evidenza che vi è un problema oggettivo di sovraffollamento delle carceri; ma qual è la soluzione? Adeguare le pene ai posti letto, come scrive ironicamente Ricolfi su La Stampa, ovvero operare seriamente per ridurre il crimine? Il miglior deterrente - forse, l’unico vero deterrente contro il crimine - è la certezza, l’ineludibilità della pena. Come affermava già Beccaria nel suo noto Dei delitti e delle pene, uno dei più grandi freni ai delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse: esattamente il contrario di ciò che avviene oggi in Italia!

Certo, il carcere deve essere l’extrema ratio. Certo, come hanno ricordato molti colleghi, il carcere dovrebbe garantire che un uomo possa restare tale, svolgendo ogni forma di attività che gli consenta di rieducarsi e di essere pronto a rientrare nella società. Ma è proprio questo il punto. Quale percorso di rieducazione, di risocializzazione, di reinserimento seguirà mai chi viene scarcerato tout court? La scarcerazione per sovraffollamento è la dimostrazione del fallimento del sistema giudiziario e penitenziario italiano.

È anche un’offesa a tutti quei cittadini che sono stati direttamente colpiti, e con loro a quegli operatori, le Forze di polizia ed i giudici, che si sono prodigati perché i colpevoli fossero assicurati alla giustizia e li vedono beffardamente rimessi in libertà. Con quale spirito possono continuare nel loro lavoro? Con quale fiducia quei cittadini guarderanno a noi?

Infine - e mi rivolgo in particolare ai colleghi della sinistra, di cui peraltro condivido molte altre battaglie - chiedo che senso ha battersi giustamente contro i condoni di vario genere e natura (condoni edilizi, condoni fiscali) in quanto altamente diseducativi ed oggi, su questo terreno, adottare una linea esattamente opposta? Assumere queste posizioni significa forse essere forcaioli, giustizialisti, populisti, demagogici, come ho inteso? Non credo. Cari colleghi, significa solo condividere quell’esigenza di legalità che ancora, nonostante tutto, non è stata interamente soffocata e che dovrebbe essere tra i punti fondanti e qualificanti della civile convivenza e di cui noi dovremmo essere garanti.

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tenaglia. Ne ha facoltà.

 

LANFRANCO TENAGLIA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, l’argomento che involge l’indulto attiene alle vicende di libertà e di vita di migliaia di persone e famiglie. Ciò deve indurci al massimo esercizio di trasparenza e di responsabilità di fronte alla necessità di dare una risposta a questo problema complesso e di sottrarre lo stesso problema alla polemica ed alla propaganda politica, soprattutto nei suoi aspetti di asprezza e di contrapposizione di parte.

Tali responsabilità e coerenza indussero i rappresentanti dei partiti DS e Margherita, che oggi formano il gruppo unico de L’Ulivo, sul finire della scorsa legislatura, ad esprimersi negativamente su un provvedimento di amnistia che, per gli effetti combinati della data di fissazione alla quale far rimontare i reati da includere e l’effetto combinato del tempo passato e della prescrizione, avrebbe avuto effetti deflattivi contenuti (soprattutto, allora non era accompagnato da interventi strutturali e riformatori del sistema giustizia) e positivamente su un provvedimento di indulto necessario per far fronte all’emergenza reale del sistema carcerario nel nostro paese.

Oggi si è molto discusso, in maniera pacata e costruttiva, del nostro sistema costituzionale. Vedete, gli articoli 27 e 79 della Costituzione formano un sistema. L’articolo 27 indica la funzione della pena e, nello stesso tempo, indica anche il limite di legalità che lo Stato deve assicurare all’interno degli istituti di pena affinché quella funzione sia rispettata e quelle condizioni siano garantite. L’articolo 79, nella sua eccezionalità, indica le condizioni affinché il Parlamento, nella sua funzione sovrana di clemenza, riesca a trovare un punto di equilibrio fra la potestà punitiva e la potestà di clemenza che ogni Stato democratico deve sapere e potere esercitare. Tale punto di equilibrio è dato dall’opportunità di far fronte a situazioni emergenziali quando non è possibile rispettare quella funzione rieducativa della pena e quelle condizioni di legalità: è questa la situazione odierna.

Non possiamo chiudere ulteriormente gli occhi sulle condizioni di vita all’interno delle carceri. La situazione nelle carceri italiane è sempre più insostenibile. Le lentezze della giustizia ed il sovraffollamento stanno sempre più mortificando la dignità delle persone ed aumentando il senso di risentimento dei detenuti verso lo Stato, percepito più come nemico e vendicatore che come strumento regolatore della vita civile.

Si rafforza così l’appartenenza all’illegalità come scelta di campo e come rafforzamento della propria esclusione sociale. Inoltre, la presenza all’interno delle carceri italiane di un gran numero di persone malate, tossicodipendenti ed in cattive condizioni psicofisiche evidenza la gravità di una situazione nella quale è necessario intervenire, anche attraverso provvedimenti strutturali, attenti alle esigenze di giustizia, alla dignità e ai diritti umani dei detenuti e alle possibilità concrete di una loro riabilitazione e di un loro reinserimento sociale.

Queste valutazioni accomunano tanti di noi: accomunano le organizzazioni che si occupano di assistenza in carcere, accomunano le valutazioni degli operatori della giustizia nelle carceri, accomunano tutti coloro che svolgono la funzione ispettiva attraverso visite periodiche negli istituti di pena.

Vedete, questa situazione peggiora di anno in anno, anche a causa di interventi di riforma legislativa che, nella scorsa legislatura, hanno accentuato il ricorso alla carcerazione quale unico strumento di prevenzione e di sicurezza. Infatti, l’attuale popolazione carceraria raggiunge le sessantamila unità; occorre far riferimento a tale numero, al di là dei titoli per i quali la popolazione carceraria è ristretta in vincoli che rendono le condizioni invivibili ed il livello di legalità della vita nelle carceri al di sotto di quanto è previsto dalla Costituzione. Il 60 per cento di queste sessantamila unità è composto di tossicodipendenti o di extracomunitari. A ciò si aggiunge che nel nostro paese si registra un indice di carcerazione che, nel mondo moderno, è superato soltanto dagli Stati Uniti e dalla Russia: un detenuto ogni mille abitanti e due persone, ogni mille, coinvolte in situazioni carcerarie, se oltre al carcere si valutano i provvedimenti alternativi.

Di fronte a tale situazione, un gesto di clemenza che consenta di rispettare la legalità nelle carceri e di riportare la situazione a condizioni di umanità, di civiltà e di rispetto per la dignità dell’uomo è, quindi, necessario, utile e doveroso.

È questa la ragione che deve muovere la nostra scelta. Certamente, questa ragione deve essere accompagnata da altri livelli di consapevolezza che ci hanno indotto a compiere delle scelte che cercano di coniugare altre esigenze che pure, in quest’aula, sono state richiamate in senso negativo rispetto al provvedimento in oggetto.

Il primo livello di consapevolezza è nel senso che il provvedimento in oggetto non può essere concepito solo come un intervento emergenziale, ma deve avere una prospettiva, come prevede il programma dell’Unione sul tema del carcere, per radicali ed innovative riforme strutturali dell’intero sistema penitenziario e processuale. La vera sfida che aspetta questo Parlamento e la nostra società è di rendere il carcere parte viva della comunità, altrimenti non ha senso parlare di socializzazione, reinserimento, riconciliazione ed accoglienza.

L’altra consapevolezza che deve essere affermata con forza e con chiarezza, affinché i cittadini comprendano il senso e le finalità del nostro lavoro su questo tema e non siano indotti in errore da messaggi demagogici, è che la carcerazione, soprattutto quando è prevista per reati di lieve entità o collegati a stati quali la tossicodipendenza, ovvero ancora per brevi periodi di pena residua, non ha alcuna efficacia e funzione per la sicurezza collettiva, anzi finisce per avere una funzione moltiplicatrice della tendenza alla violazione di legge e alla criminalità dei soggetti che la subiscono.

Infine, con questo provvedimento nessuno vuole derogare ai principi di legalità e di tutela dei cittadini e delle persone offese dal reato, anzi, basterebbe dire che è proprio una ragione di legalità, quella di riportare la legalità nelle carceri, che induce ad approvare questo provvedimento.

Ma aggiungo che l’indulto è necessario per la funzione emergenziale, causata anche dall’assenza, per tutta la scorsa legislatura, di una politica dell’umanità e civiltà della pena e con un’impostazione che considerava risolvibile il problema delle carceri solo costruendone delle nuove. L’indulto interviene sul periodo finale della pena che è stata scontata tanto più a lungo quanto più grave è il reato commesso.

La potestà e l’interesse punitivo dello Stato, ancora praticati, hanno un interesse affievolito per l’esecuzione prolungata della pena detentiva, anche per l’ormai intervenuta applicazione delle misure interdittive di sicurezza patrimoniale o personale. Sono in conto esclusioni oggettive, le più estese della storia dell’istituto, che ricomprendono reati di particolare gravità, odiosità e violenza. Le esclusioni precedenti nella storia dell’istituto erano molto più limitate e non hanno mai riguardato le tipologie dei reati per i quali tanto stiamo discutendo; anzi, per queste tipologie in alcune circostanze l’istituto dell’indulto era accompagnato dall’istituto dell’amnistia, così che alla cancellazione della pena si accompagnava anche quella del reato. Inoltre, l’indulto licenziato dalla Commissione prevede un periodo di osservazione di cinque anni dall’entrata in vigore della legge, entro il quale se chi ne ha usufruito commette un delitto non colposo per il quale riporti condanna definitiva non inferiore a due anni, il beneficio è revocato. Nella storia dell’indulto nel nostro paese sono comprese varie misure dello sconto di pena, ma nel considerare oggi questo provvedimento non possiamo non dimenticare che dall’ultimo indulto sono passati ben 16 anni.

Gli istituti dell’amnistia e dell’indulto, come poco fa ha correttamente e lucidamente ricordato l’onorevole Farina, da strumenti ordinari di regolazione della situazione della giustizia e delle carceri sono diventati, per le ragioni dette a proposito del sistema costituzionale, strumenti di emergenza ed eccezionali. Quindi, il così lungo tempo trascorso giustifica un ricorso ad uno sconto di pena, neppur presente in altri provvedimenti passati di indulto di questa misura dei tre anni. Si è molto discusso di esclusioni oggettive. Ritengo che il testo oggi al nostro esame contenga un corretto e condivisibile punto di equilibrio sia per l’estensione delle stesse, sia per l’omogeneità in termini di conservazione della gravità dei reati esclusi. Del resto, questa considerazione è fatta anche a monte dal legislatore penale e questo non dobbiamo dimenticarlo.

Certo, ognuno di noi potrebbe essere portatore di proprie sensibilità sulle diverse tipologie di reato e sui beni da esse protetti non ricomprese nelle esclusioni, ma occorre aver ben presente che, a differenza di quanto avviene con l’applicazione dell’amnistia, ci troviamo di fronte a processi già svolti, a responsabilità accertate o che saranno, comunque, accertate, a pene detentive in carcere in tutto o in parte scontate, a pene accessorie non temporanee applicate nella loro interezza e non toccate dall’applicazione dell’indulto, ma eventualmente, solo dopo il periodo previsto dal codice penale, da altri istituti che pure hanno questa finalità, quali quello della riabilitazione.

 

PRESIDENTE. La prego di concludere.

 

LANFRANCO TENAGLIA. In sostanza, non stiamo cancellando reati e responsabilità.

Concludo con l’auspicio che questo gesto di clemenza sia solo il punto di partenza di un metodo di lavoro, ma anche di un proficuo lavoro parlamentare, che realizzi finalmente una politica della ragionevole durata del processo, dell’efficienza del sistema e della ragionevole certezza e umanità della pena, salvaguardando al tempo stesso le esigenze di sicurezza sociale e la funzione di risocializzazione della pena. In questo modo avremo affermato i diritti della persona, dei cittadini alla sicurezza, delle persone offese al ristoro dei danni e dei detenuti ad un trattamento umano (Applausi dei deputati dei gruppi de L’Ulivo e de La Rosa nel Pugno).

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Palomba. Ne ha facoltà.

 

FEDERICO PALOMBA. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, relatore, pochi amici presenti, non intendo leggere l’intervento che avevo preparato, anche a costo di perdere in organicità, perché mi sembra più importante dialogare con le persone, i gruppi e i partiti che sono intervenuti fino adesso, per cercare di capire meglio, con pacatezza ma con nettezza e nitidezza - come, peraltro, tutti hanno fatto -, in quale situazione ci troviamo.

Non sto a ripetere quale sia la posizione dell’Italia dei Valori, essa è stata illustrata dal deputato Orlando ed è nota, perché io stesso l’ho illustrata in Commissione e sulla stampa vi è un ampio dibattito al riguardo. La riassumo dicendo soltanto che non è vero che noi siamo contrari all’indulto; noi siamo favorevoli a votare a favore di un provvedimento di indulto in una situazione emergenziale nel quale siano contenute alcune esclusioni di reati che l’opinione pubblica avverte come particolarmente odiosi.

Siamo sempre stati contrari ad ogni forma di «condonismo» e di «perdonismo» in tutti i settori: da quello fiscale a quello urbanistico, da quello della giustizia a quello sportivo. Per questo abbiamo combattuto battaglie insieme a tanti amici che nella passata legislatura hanno fatto un’opposizione strenua non solo a provvedimenti che tendevano a favorire i soliti potenti con leggi ad personam, ma anche, più in generale, nei confronti di provvedimenti e di interventi che tendevano a cancellare la legalità repubblicana e costituzionale in questo paese con grandi colpi di giro di una «lavanderia» parlamentare che tanti risultati ha ottenuto in questo senso.

Insieme a tanti alleati del centrosinistra, abbiamo combattuto delle battaglie straordinarie, e in base a questo ci siamo presentati ai nostri elettori, i quali ci hanno votato e ci hanno chiamato a governare anche per superare quelle prassi, per ritornare ad un principio di legalità, per sollevare una questione morale e ergerci a presidio della moralità nella vita pubblica e negli affari privati che hanno riflessi nei confronti della comunità.

Oggi, noi non stiamo tornando a fare campagna elettorale, ci stiamo semplicemente riportando ai principi ed ai valori che nella precedente campagna elettorale abbiamo proposto agli elettori e che ci hanno portato alla vittoria. Credo che ciò dimostri coerenza e non populismo e demagogia.

Pur essendo contrari a queste forme di «condonismo» e «perdonismo», noi abbiamo affermato che, in una situazione di emergenza, siamo sensibili alle esigenze e alle sofferenze dei carcerati che vivono in carceri sovraffollate. A tale proposito, dobbiamo fare alcune precisazioni che ci sembrano doverose e molto nette.

Noi respingiamo, in quanto distruttiva per il sistema istituzionale, l’idea che l’indulto sia fondato sul fatto che si possa combattere una supposta illegalità nelle carceri con un’altra illegalità, cioè non rispettare le regole esistenti, banalizzarle o dare l’impressione che si possano eludere perché, prima o poi, giungerà un provvedimento di clemenza.

D’altra parte, siamo contrari all’idea che si possa combattere una supposta illegalità ponendo in essere degli interventi che sarebbero idonei a riportare legalità e umanità nelle carceri in quelle situazioni. L’indulto non fa tutto questo. Noi abbiamo proposto di attendere ancora un po’ per discutere tutti insieme quegli interventi strutturali e ordinamentali, legislativi e normativi, che potessero accompagnare un provvedimento di indulto in una situazione di chiarezza normativa.

Questo programma dell’Unione è pienamente conosciuto da tutti i nostri alleati della stessa Unione, nel punto in cui è scritto che il compito primario della presente legislatura sarebbe stato quello di provvedere ad una riforma del codice penale ed, in tale ambito, anche di varare un provvedimento di clemenza, e non cominciare dalla fine per poi, magari, dimenticarsi che bisogna fare anche il resto.

Ma vi è anche un altro argomento che ci meraviglia. Se le carceri sono davvero invivibili ed illegali, perché non si arriva a proporre, per coerenza fino in fondo, di svuotarle tutte? Perché si fanno uscire soltanto 10 mila detenuti? Gli altri 50 mila sono «carne da macello»? Noi non possiamo accettare l’idea che vi sia ancora un luogo di illegalità in cui, comunque, vi è un residuo di umanità sofferente che è vittima di tale illegalità. Allora, si faccia un indulto non di 3, ma di 5, 10 o di 20 anni. Si svuotino le carceri e si cominci daccapo! I paradossi servono naturalmente a capire qual è la sostanza degli argomenti che vengono addotti a sostegno di una tesi.

Respingo anche l’accusa di insensibilità che da più parti serpeggia nei confronti dell’Italia dei Valori circa la sofferenza dei detenuti. Anzitutto, abbiamo detto che un indulto lo votiamo, ma lo votiamo in un quadro determinato e particolare. Inoltre, noi abbiamo mostrato sensibilità nei confronti dei detenuti, tanto è vero che abbiamo proposto un emendamento che mira a mettere a disposizione dei detenuti scarcerati un assegno di reinserimento che possa consentire loro di non ritrovarsi di nuovo sulla strada, per poi ritornare di nuovo in carcere. Noi l’abbiamo fatto, non chi propone l’indulto!

Noi, ancora, abbiamo sensibilità nei confronti delle vittime del reato, tanto che sempre noi - e non altri - abbiamo proposto un emendamento volto a costituire presso i consigli di aiuto sociale un fondo a sostegno delle vittime che non possono essere risarcite. Quindi, dov’è la nostra insensibilità? Semmai, l’abbiamo mostrata in misura superiore ad altri, a chi, ad esempio, propone un indulto puro e semplice, che non consente di intervenire né sui soggetti svantaggiati né sul piano ordinamentale.

Ci è stato detto che questo è l’unico indulto possibile e ciò deriva da un patto stabilito tra alcune forze del centrosinistra e alcune forze del centrodestra. Poiché è necessaria la maggioranza dei due terzi, bisogna «tapparsi il naso» ed accettare ciò che «passa il convento». Noi non siamo di questo parere, ma siamo del parere che, invece, si sarebbe potuto prendere un po’ tempo e compiere un’analisi più seria delle circostanze giuridiche, strutturali ed ordinamentali nelle quali inserire questo indulto. Si sarebbe arrivati a stabilire, come noi abbiamo proposto nel testo dell’atto Camera n. 1392, che vengano immediatamente abrogate alcune leggi fortemente alimentatrici della presenza carceraria, anzitutto la cosiddetta Bossi-Fini, che nel 2005 ha mandato in carcere, da sola, 10 mila persone! Noi, nel ricordato provvedimento, ne abbiamo proposto l’abrogazione e non abbiamo presenti altre proposte altrettanto concrete.

Noi proponiamo l’abrogazione della parte della cosiddetta ex Cirielli che riguarda la recidiva, perché manda - o mantiene - in carcere.

 

PRESIDENTE. Onorevole Palomba, la invito a concludere.

 

FEDERICO PALOMBA. ...di quanto non sarebbe giustificato dal fatto che non c’è un aumento dei reati, né un aumento della gravità dei reati. Vorrei allora dire con molta serenità agli amici alleati che questo patto riguarda soltanto un fatto: voi votate insieme a chi vuole escludere dall’indulto reati contro la pubblica amministrazione e avete voluto escludere dall’indulto, bocciando un mio emendamento, anche i reati di scambio di voti mafiosi.

Avrete il problema di motivare come mai state insieme e votate insieme a chi, da una parte, mostra di essere indulgente, mentre dall’altra ha concorso in gran parte a riempire le carceri. Questo è il punto che abbiamo proposto all’opinione pubblica e che riproponiamo nel dibattito in quest’Assemblea, certi, consapevoli e fiduciosi che vi sia ancora uno spazio, affinché anche noi, alle condizioni che abbiamo detto, possiamo votare un indulto. Altrimenti non lo voteremo.

 

SIMONE BALDELLI. Chiedo di parlare sull’ordine dei lavori.

 

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

 

SIMONE BALDELLI. Intervengo sull’ordine dei lavori, anche per avere al riguardo un chiarimento da parte delle Presidenza. Noto sui banchi del Governo la presenza del ministro Di Pietro; tra l’altro, personalmente mi fa anche piacere, però la sua presenza è collegata alla discussione di questo provvedimento sull’indulto, su cui in realtà, mi sarei aspettato più volentieri la presenza del ministro della difesa...

 

ANTONIO DI PIETRO, Ministro delle infrastrutture. Della giustizia!

 

SIMONE BALDELLI. ... della giustizia. E vedo presente anche il sottosegretario per la giustizia.

Dico questo, Presidente, solo per capire chi dei rappresentanti del Governo qui presenti svolgerà la replica o darà il parere. Se la presenza del ministro Di Pietro è forse in qualche modo una presenza politica, per sottolineare un dissenso su questo provvedimento, allora in questo caso sarebbe più opportuno che egli sedesse nei banchi del suo gruppo parlamentare e motivasse direttamente da lì il suo dissenso.

 

PRESIDENTE. Onorevole Baldelli, le ricordo che, ai sensi dell’articolo 64 della Costituzione, i membri del Governo, anche se non fanno parte della Camera, hanno diritto e, se richiesti, l’obbligo di assistere alle sedute. Ciò significa che i membri del Governo hanno diritto di assistere, quando ritengano, ai lavori dell’Assemblea, anche se non sono i ministri competenti sul provvedimento che è oggetto di discussione, ed è autonoma valutazione del Governo scegliere da chi farsi rappresentare nel corso dei lavori.

 

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Samperi. Ne ha facoltà.

 

MARILENA SAMPERI. Il ministro Mastella, nell’esposizione delle linee programmatiche del suo dicastero in occasione dell’audizione in Commissione giustizia, ha indicato in 61 mila i detenuti reclusi nelle carceri, ben 20 mila in più di quanti gli istituti ne potrebbero contenere. Il numero dei detenuti è salito, dal 1990 al 2001, da 29.334 a 55.261 ed è aumentato di altre 6 mila unità negli ultimi cinque anni.

Queste cifre, più di ogni altra cosa, testimoniano l’insostenibilità dell’attuale situazione penitenziaria e l’intollerabilità del sovraffollamento. Questa drammatica situazione, che rende invivibile il carcere per i detenuti e difficoltose le condizioni di lavoro per gli operatori, è il segno, tra gli altri, della profonda disattenzione di cui è stato oggetto questo importante e delicato settore negli ultimi anni. Attualmente, il carcere non è riabilitazione, né strumento di cambiamento. Scontare la pena non ha di per sé virtù miracolose. Sono piuttosto le condizioni e le opportunità che si offrono ai condannati gli elementi fondamentali per rendere migliori o peggiori le persone, e certamente il carcere che oggi conosciamo non aiuta la crescita umana. Spesso abitua all’inutilità e alla invivibilità sociale, diseduca alle relazioni affettive e al lavoro.

Ad esempio, la quota dei detenuti lavoranti è rimasta ferma a 10-13 mila unità; le postazioni lavorative sono rimaste invariate; la possibilità di accedere al lavoro esterno rimane residuale, nonostante la popolazione carceraria sia così notevolmente aumentata.

Da più parti questa situazione così grave è imputata al sovraffollamento. Nelle carceri sovraffollate, la pena diventa più afflittiva del previsto. Negli ultimi anni, la situazione è precipitata con gli oltre 11.500 extracomunitari che, per la legge Bossi-Fini, sono transitati per il carcere e, nella maggior parte dei casi, si tratta di clandestini che non hanno rispettato l’ordine di espulsione. Il provvedimento di indulto è quindi, allo stato, assolutamente improrogabile e necessario per restituire decoro alla vita carceraria.

Nel recente passato, dall’anno del Giubileo in poi, il variegato mondo dell’associazionismo, del volontariato, del terzo settore, ma anche autorità civili e religiose, si sono battuti per ottenere un provvedimento di clemenza, ma anche di giustizia; soprattutto, si sono battuti nel richiedere un programma serio di reinserimento sociale e lavorativo, unica vera garanzia contro la recidiva, il provvedimento di effettività del funzionamento delle misure alternative e l’ampliamento degli organici degli operatori penitenziari.

Quest’indulto deve allora rappresentare l’avvio di un processo di ripensamento del carcere come prima, e spesso unica, risposta a qualsiasi lacerazione sociale, nonché di un ripensamento del sistema penale e della sua funzione. L’inizio, quindi, e non la fine di un percorso per avviare quelle riforme strutturali che andranno attuate per garantire riconoscimento, formazione e dignità professionale agli operatori, ma anche vivibilità nelle carceri e umanizzazione delle pene, quali elementi fondanti per il recupero e premessa per il reinserimento sociale delle persone detenute.

La prevenzione della recidiva, e quindi il perseguimento della tanto invocata sicurezza, si ottiene attivando l’associazionismo, il privato sociale, gli enti locali, per sostenere chi esce dal carcere. Un vero e proprio piccolo «piano Marshall», come è stato sostenuto da tanti enti e da tanti soggetti del passato, soprattutto in occasione dell’approvazione del cosiddetto indultino. Solo il sostegno sul territorio e concreti percorsi di inserimento sono reale garanzia e prevenzione per rompere la spirale della recidiva e garantire maggiore sicurezza ai cittadini.

Un indulto come precondizione di un percorso di riforme, non la resa dello Stato; ma forse un necessario riequilibrio di pene, spesso lontane da essere occasione per il recupero sociale delle persone condannate. L’indulto non si applicherà, com’è stato detto dai miei autorevoli colleghi, ai reati di maggiore allarme sociale: dall’associazionismo con finalità di terrorismo all’associazionismo di tipo mafioso, dalla prostituzione minorile alla violenza sessuale, dal riciclaggio al traffico di stupefacenti. Sono tutti reati che non saranno toccati dall’indulto. È necessario procedere rapidamente - ed è questa la grande scommessa di questo Governo e di questo Parlamento - ad una revisione del processo e ad una depenalizzazione di alcuni reati, per garantire tempi e pene certi ed una giustizia più equa. La legittima necessità di sicurezza dei cittadini non può essere garantita solo attraverso il carcere, ma attraverso un processo simmetricamente opposto che vada dal penale al sociale, e non dal sociale al penale; attraverso la realizzazione di strumenti idonei ad un effettivo recupero sociale; attraverso azioni di inclusione e non di esclusione sociale. È questa l’Italia che vogliamo (Applausi dei deputati dei gruppi de L’Ulivo e de La Rosa nel Pugno).

 

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

 

 

Precedente Home Su Successiva