Finché libertà non ci separi...

 

Storia di una coppia divisa dal carcere, e del lento, inesorabile deteriorarsi dei legami d’affetto che passano attraverso la detenzione

 

Di Eugenio Romano, maggio 2002

 

Se potessi dare un ipotetico valore materiale alle conseguenze del mio modo di vivere, il bilancio consuntivo di una condotta semifallimentare non potrebbe essere diverso: crac, una vera e propria dèbàcle sentimentale affettiva maturata nel tempo, dopo l’ennesima carcerazione.

Per chi è detenuto, anche i piccoli episodi, apparentemente insignificanti, creano una sensazione di distacco dal proprio mondo affettivo. A volte basta una semplice azione compiuta senza essere interpellati, da chi ha sempre chiesto almeno un parere, per avere la sensazione di essere stati messi da parte e per perdere quelle certezze di cui si è sempre stati fieri. Anche un’incomprensione non chiarita tempestivamente, magari per non apparire debole, per un ingiustificato orgoglio, può contribuire alla disgregazione di un legame che sembrava, agli occhi di tanti, indissolubile.

Nel mio caso, sarebbe troppo semplicistico attribuire tutte le colpe di un calo affettivo solo ed esclusivamente al carcere. Lo stato di detenzione è la conseguenza (purtroppo logica) di reiterati errori, e la perdita del "ruolo dominante" all’interno della propria famiglia è un contrappasso difficile da accettare, ma che bisogna inevitabilmente subire.

Quando fui arrestato per il reato che sto scontando, già nel corso del "primo" colloquio con la mia compagna, ebbi la sensazione che il prezzo da pagare sarebbe stato molto più alto della "semplice" perdita della libertà. Lei aveva negli occhi una luce che non avevo mai colto prima; erano riflessi di disperazione che cercava di dissimulare, per non influenzare il mio già confuso stato d’animo. In circa vent’anni di convivenza era già venuta tante volte ad un "primo colloquio", ma quello fu veramente diverso: "Perché?…" mi chiese.

"Il tuo lavoro andava bene e non ci mancava niente. Stavolta mi ero veramente illusa che non ti saresti mai più messo nei guai. Ora, io e la bambina resteremo di nuovo sole… Ma lei è cresciuta ormai: cosa le racconterò, ora che è in grado di capire da sola ciò che è accaduto?". Aspettai almeno tre mesi prima di farla portare al colloquio. Quando venne, mia figlia era felice di vedermi… ma nei suoi splendidi occhi aveva quella stessa luce di inquietudine che avevo già letto in quelli di sua madre.

Il muretto divisorio (allora non ancora abolito) la teneva a distanza, e questo le impediva di stare abbracciata a me; di riempirmi di quelle effusioni che caratterizzavano la sua indole affettuosa. Quando un agente bussò contro il vetro per invitarci a restare seduti, a non sporgerci oltre il dovuto, la sua inibizione fu totale, e questo provocò in me qualcosa che andava ben oltre il semplice senso di colpa. Avrei voluto sprofondare per il disagio, e per quel senso di totale impotenza. Non era mai accaduto che qualcuno ci impedisse di poter manifestare quell’affettuosità, che era il fulcro del nostro rapporto quotidiano: provai una sconfortante vergogna per me stesso, nei confronti di mia figlia.

Tante cose sono successe da allora; mi capita, molto spesso, di ripensare ai piccoli eventi che sono stati il preludio di una frattura che non sono riuscito a ricomporre in tempo, e che man mano è diventata insanabile. Mentre diventavo sempre più il confidente di mia figlia, con la mia compagna il rapporto andava in una direzione opposta. A distanza di circa sei anni da quei primi colloqui, basta una foto, una vecchia lettera, ed ecco che il passato emerge dalla memoria con una lunga sequenza di immagini; come se fossero impresse su una pellicola che il tempo non sbiadirà mai.

Poco tempo fa, mi serviva il numero civico di un indirizzo che ero sicuro di poter ritrovare tra la vecchia corrispondenza. Nel cercarlo, mi capitò tra le mani una lettera; la grafia, già bella e ordinata, ma ancora infantile, era quella di mia figlia, e il timbro postale risaliva a quando frequentava ancora la quarta elementare. Nel riaverla tra le mani, provai un sentimento misto di tenerezza e di nostalgia; dimenticai per un attimo la ricerca, e dalla busta tirai fuori un foglio ripiegato in due e una fotografia della mia bambina, che stringeva a sé il suo compagno di giochi: un cane di piccola taglia, un meticcio dal lungo pelo nero, con qualche striatura di grigio. Lo avevo portato a casa quando lei aveva quattro anni, e da allora erano diventati inseparabili.

Sul foglio, cuoricini rossi contornavano un disegno che, anche se di fattura infantile, rappresentava la sua famiglia: mamma, papà, io, mio fratello, il nostro Baby… Per lei, il cagnolino era un componente importante del nucleo famigliare.

Di quella lettera così variopinta, un passo mi ritorna spesso alla memoria: "Sai papà che Baby non c’è più? Però non è colpa della mamma; lei dice che non stava tanto bene, e allora lo ha fatto portare via. Ora si trova in un posto dove c’è tanto spazio, e la mamma dice che lì sta bene, sta meglio che a casa. Papà, sarà pure come dice la mamma, però il mio Baby mi manca tanto. Se tu fossi stato a casa lo avresti fatto curare, e oggi sarebbe ancora qui con me (…). Quando torni a casa ce lo andiamo a riprendere."

L’allontanamento di Baby… È difficile spiegarlo, ma a suo tempo ebbi la spiacevole sensazione che, facendo portar via il cagnolino, anche una piccola parte di me era stata allontanata da casa; speravo di sbagliarmi, ma quello fu uno dei piccoli segnali premonitori.

 

Il disagio di sentirsi ospiti a casa propria

Quando andai in permesso per la prima volta (e per un’unica notte), a casa trovai piccoli cambiamenti: sul balcone, al posto della piccola cuccia del cane, c’era un bel vaso con una pianta sempreverde; i miei effetti personali non erano più al solito posto; il mio vestiario, trasferito in una parte dell’armadio meno agevole; le mie "carte" erano state raccolte in uno scatolone e portate giù, in cantina.

Mi sentivo a disagio, un ospite in casa mia; dicevo a me stesso che quella era solo una spiacevole sensazione, finché… notai che i "miei" libri non erano più al loro posto, i miei autori preferiti avevano lasciato spazio a non so quanti pupazzetti di peluche.

Dei miei libri non c’era traccia in nessun angolo della casa. Mi fu spiegato che c’era bisogno di un po’ di spazio in più; che tutti quei libri, oltre che essere disposti disordinatamente, erano ingombranti, e per questo era stato deciso di portarli giù, in cantina… come se fossero stati un semplice complemento d’arredo ormai fuori moda.

"Ingombranti?… Ma alla bambina serviranno tutti… Sai quante ricerche dovrà fare man mano che andrà avanti con la scuola?". Senza attendere la risposta mi recai in cantina. Ero deluso, imbarazzato, amareggiato: in quel primo "permesso premio", l’accoglienza non poteva essere peggiore. Trovai i libri in alcune borse di plastica, ci rimasi male quando, nell’aprirne una, sentii un leggero odore di muffa; gli effetti dell’umidità e dell’abbandono già si sentivano, ed io li associai a quell’imbarazzante situazione famigliare che si era creata. Con i libri, un’altra piccola parte di me era stata allontanata dalle pareti domestiche, stavolta relegata giù, in cantina per motivi di "ingombro", per scarsa utilità o, addirittura, per sopravvenuta inservibilità.

Per tutto il giorno mi ero chiuso in un mutismo che non favorì certamente la riapertura di un dialogo tra me e la donna che, per amore, aveva condiviso un paio di decenni di piccole gioie, e non pochi disagi. Quella notte preferii occupare la camera di mia figlia che, da circa tre anni, per far compagnia a sua madre, aveva preso il posto mio, nel lettone. Che grande errore fu quell’ostinato mutismo dettato dall’orgoglio. Sapevo che lei era sveglia quanto me, entrambi trascorremmo una notte insonne in due camere diverse.

Nel cuore di quella notte, che fu stranamente breve, sentivo i suoi passi nel corridoio; la sentivo recarsi in cucina, a bere, o in altre stanze, per motivi sconosciuti. Quando rientrava in camera, ero io, a mia volta, ad aggirarmi inutilmente per casa: sarebbe stato sufficiente incontrarci a metà strada, nel cuore della notte, per mettere una pietra sopra a tutte le reciproche incomprensioni, ma questo non avvenne. Sarebbe stato facile per me ripristinare i cosiddetti "ruoli", riprendermi, maschilisticamente, quel "potere" che ritenevo "usurpato" per motivi di assenza. Ma che diritto avevo di farlo, dal momento che avevo lasciato lei e mia figlia nella disperazione totale? Il disagio mi impedì di cercare quell’approccio "intimo" che, avremmo, forse, vissuto come una sorta di "liberazione", e non come un momento di "ritrovato amore". Ho sempre pensato che l’intimità bisogna desiderarla in due; diversamente non sarebbe altro che il semplice assolvimento di una sorta di "obbligo coniugale" che non ho mai amato, né mai preteso. La nostra storia affettiva, stranamente finì proprio quando sarebbe potuta ricominciare…

Quella nuova "prima notte" fu troppo breve per poter riaccendere una passione, e oggi, quella fiamma che all’epoca era solo affievolita, si è spenta del tutto. Nel frattempo, qualche altro anno è passato, e io e la mia ex compagna abbiamo deciso, per il bene di nostra figlia, di non farci del male reciproco… almeno finché sarò (ancora) detenuto. Finché libertà non ci separi.