Rassegna stampa 17 settembre

 

Giustizia: Rutelli; sì a banca del Dna e riforma legge Simeone

 

La Stampa, 17 settembre 2007

 

Ministro Rutelli, lei ha sollecitato la banca dati del Dna da pochi giorni, e già va in Consiglio dei ministri. Prontezza e coesione rare per il governo.

"Siamo pronti a discuterne. Anzi se ne parla da tempo grazie a una proposta del ministero della Giustizia che tuttavia non era approdata in Consiglio dei ministri. Ho suggerito di inserire le norme nel pacchetto sicurezza, e c’è già stata una fruttuosa riunione al ministero dell’Interno. Vedremo se sarà il caso di fare un disegno di legge ad hoc".

 

Ma in che cosa consiste la banca dati?

"In concreto si tratta di acquisire campioni biologici, attraverso la saliva, da tutti gli indagati per reati di allarme sociale come stupro, rapina, furto... E si tratta di conservare questi campioni".

 

Sarà davvero più facile scoprire i colpevoli?

"Basta vedere i dati del Regno Unito. Con il "Programma Dna" e grazie alle misure decise dal governo Blair, i crimini risolti sono passati - tra il 2000 e il 2005 - dal 26 al 59 per cento. Gli omicidi dal 32 al 72 per cento. Le violenze sessuali addirittura dal 17 al 78 per cento. Che cosa vogliamo aspettare? Vogliamo forse mantenere trionfante l’incertezza o, peggio, l’inesistenza della pena?".

 

In effetti è strano il contrario, e cioè che si sia aspettato tanto. In Europa soltanto Grecia e Irlanda sono senza la banca dati.

"Appunto, è tempo di sbrigarsi. E non possiamo dimenticare che in cinque anni il governo Berlusconi, nonostante in tutta Europa ci si muovesse speditamente, non ha fatto nulla. Soltanto demagogia, oltre a tutte le misure che hanno sfasciato la giustizia italiana".

 

Vabbè, sempre Berlusconi...

"Pensiamo alla legge firmata dal deputato di An, Alberto Simeone, che di fatto impedisce a chi sia stato condannato in via definitiva fino a tre anni di reclusione, per reati anche pericolosi, di scontare un solo giorno di prigione. Ecco, la Margherita propone di sostituire il carcere coi servizi sociali, ma soltanto per le pene inferiori a tre mesi. Non a tre anni".

 

Torniamo alla banca dati. Altre spese.

"Mah, costerà circa undici milioni impiantare la banca dati e gestirla altri sei milioni l’anno. Sono risorse incomparabilmente minori al risparmio che ne deriverà per la macchina della giustizia".

 

Il sottosegretario Li Gotti dice che la banca sarà pronta in otto mesi. Sono tempi credibili?

"Se riusciremo ad approvare le norme entro l’anno, penso che in dodici mesi la struttura sarà in funzione".

 

Le sue proposte si discostano un po’ da quelle dell’Interno.

"Più che altro, sulla sicurezza, ne ho formulate altre due. La prima per combattere la drammatica realtà dei bambini-schiavi nelle nostre città".

 

Accattoni, lavavetri...

"Vorrei che ai genitori di quei bambini che vengono costretti a mendicare o mandati a rubare fosse levata la patria potestà. E poi penso a misure per incentivare la tutela del decoro urbano nei centri monumentali e storici".

 

Sulla sicurezza la sinistra è molto attiva, almeno a parole. È una gara a chi ha l’idea più affascinante?

"Non è una gara. Siamo arrivati a un punto di non ritorno: in Italia è spesso più conveniente essere delinquenti che onesti cittadini. Vogliamo restituire significato a parole come "deterrenza", se vogliano scoraggiare il compimento di delitti, oppure "condanna", visto che chi sbaglia non paga, se non in misura marginale".

 

Però avete fatto l’indulto.

"Un dovere dopo anni e anni di promesse che rischiavano di incendiare le carceri. È stato approvato con larga maggioranza bipartisan ma anche per questo deve cominciare una stagione di rigore".

 

Anche sulla banca del Dna la sinistra radicale solleva dubbi.

"Certo, gli interventi per il decoro urbano o il rispetto delle regole di convivenza, inclusa la presenza dei lavavetri, che oltretutto è in totale violazione del codice della strada e di elementari norme di sicurezza, non sono da confondere con la lotta ai criminali. Proprio per questo a una soluzione logica, semplice ed efficiente come la banca del Dna spero che non si opponga. Altrimenti sarebbe indifendibile".

 

Già si propongono obiezioni a proposito della privacy.

"Garantiremo che i dati siano al sicuro da chi abbia un interesse commerciale. Nei Paesi dove l’assistenza sanitaria non è un diritto per tutti, le informazioni sul patrimonio genetico possono far gola alle assicurazioni. Ma questo è un problema che non abbiamo. E tecnicamente è facile identificare le persone attraverso frammenti di Dna senza che diventi una schedatura generalizzata".

 

Questo è un mondo sotto controllo, fra telecamere, carte di credito, telefonini e tutto ciò che lascia tracce. Non la inquieta?

"Sono a confronto due libertà fondamentali: la libertà di cittadinanza e la libertà dalla violenza e dall’insicurezza. Un equilibrio è possibile. Ed è compito delle forze democratiche definirne obiettivi, confini, limiti. È evidente che viviamo in una società in cui ci sentiamo tutti spiati, spesso da malintenzionati. Proprio per questo va rafforzata la prevenzione controllata democraticamente. E del resto, nella lotta al terrorismo, questi presidi sono indispensabili".

Giustizia: Rutelli; fino a 10 anni di carcere per chi sfrutta i minori

 

La Stampa, 17 settembre 2007

 

Togliere la potestà parentale a quei genitori o ai tutori che sfruttano i figli o i ragazzi minorenni loro affidati, che li costringono a chiedere l’elemosina per strada. Nello stesso tempo, semaforo verde all’inasprimento delle pene - da 4 a 10 anni (oggi da tre mesi a un anno) - per chi sfrutta ai fini di accattonaggio un minore che non abbia raggiunto i 14 anni. Le "vittime" tolte dalle strade dovranno essere affidate ai servizi sociali.

Il vicepresidente del Consiglio, Francesco Rutelli, definisce nel dettaglio la sua proposta di legge che punta a modificare (e abrogare) alcune norme del Codice penale e del Codice di procedura penale: "Ci battiamo per i diritti umani nel mondo - spiega Rutelli -, ma non ci accorgiamo di diritti umani fondamentali stracciati nelle vie delle nostre città. C’è un esercito di bambini ridotti in schiavitù costretti a mendicare, a rubare e a delinquere, spesso approfittando proprio della loro minore età. Quando le forze dell’ordine li fermano finiscono poi per rimandarli nelle mani dei loro stessi schiavisti. È un circuito infernale da spezzare, assicurando ai Comuni i mezzi per assistere e far crescere in un ambiente dignitoso questi bambini".

La bozza provvisoria della norma Rutelli interviene sull’articolo 600 del Codice Penale - quello che punisce chiunque "eserciti su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, ovvero chiunque riduce o mantiene una persona" in schiavitù - prevedendo la perdita della potestà dei genitori o del tutore che favoriscono o non impediscono che il minore di 14 anni (non imputabile) mendichi, chieda soldi per strada.

La bozza Rutelli prevede anche un investimento economico, un aumento (non quantificato) dei fondi per aumentare le convenzioni "delle amministrazioni comunali con le strutture residenziali e di pronta accoglienza" dove ospitare i bambini sottratti agli sfruttatori.

La proposta, commenta Melita Cavallo, capo del Dipartimento Minorile del Ministero di Giustizia, "è certamente positiva, anche sotto l’aspetto dell’inasprimento delle pene". Ma c’è un "ma", per la dottoressa Cavallo - una vita professionale vissuta, come magistrato per i minori - che prova a spiegare: "L’accattonaggio, lo sfruttamento minorile, la riduzione in schiavitù sono reati difficili da provare. Nella mia carriera professionale a Napoli, spesso mi sono imbattuta in storie drammatiche di sfruttamento di questi bambini. Io penso che dovremmo accompagnare l’iniziativa a una campagna di denuncia forte nei confronti di chi dà i soldi a questi bambini che li chiedono, che sono correi, complici di fatto del loro sfruttamento".

 

Tre domande a Simonetta Matone, magistrato

 

Dottoressa Simonetta Matone, magistrato per i minori, è d’accordo con l’iniziativa annunciata alla "Stampa" dal ministro Rutelli di togliere la patria potestà ai genitori che costringono i loro bambini a mendicare?

"La giudico una iniziativa molto opportuna. Quello dell’accattonaggio minorile è un fenomeno molto diffuso che coinvolge soprattutto la comunità Rom e quella dei romeni non rom. Basta guardare quello che succede in tutte le grandi città italiane per capire quanto sia diffusa questa ignobile pratica".

Ha senso un giro di vite del governo per colpire questo fenomeno?

"Si agisce giustamente sui due fronti: da una parte con l’inasprimento della pena e dall’altra con la perdita della potestà".

Che fine dovrebbero fare i minori, una volta che ai loro genitori dovesse essere sospesa la potestà? Non rischiano di stare peggio di prima, lontani dalla famiglia?

"Verrebbero ospitati in case-famiglia. Sono strutture ottimamente funzionanti, nelle quali questi bambini potrebbero essere collocati in attesa che i genitori si ravvedano".

Giustizia: sicurezza non è una "materia" solo per polizia e giudici

 

Brescia Oggi, 17 settembre 2007

 

Carlo Alberto Romano, docente di Criminologia all’università di Giurisprudenza di Brescia: "È sbagliato pensare tocchi solo a polizia e giudici occuparsi dei problemi della sicurezza. I reati contro la persona sono in calo e spesso avvengono nella rete familiare o delle conoscenze".

Un invito a distinguere tra problemi diversi, a non confondere tra insicurezza reale e senso dell’insicurezza. E, soprattutto, a capire che per un pluriomicida e un "criminale di mezza tacca" gli approcci devono essere necessariamente diversi. Carlo Alberto Romano, docente di Criminologia all’università di Giurisprudenza di Brescia e presidente dell’associazione di volontariato Carcere e Territorio, non è entusiasta del dibattito sulla sicurezza degli scorsi giorni. Pare una mosca bianca, un "illuminista" sempre più fuori moda. Riflessivo, propositivo e poco disposto a farsi trascinare nella bagarre.

 

Professor Romano, che effetti sortirà il pacchetto sicurezza annunciato dal ministro dell’Interno Giuliano Amato?

Le conseguenze saranno poche: l’impatto di alcune misure previste nel pacchetto sono destinate a frammentarsi nella complessità dei problemi giuridici. A volte quello che può sembrare un rimedio efficace, alla prova dei fatti non lo è, penso ad esempio al blocco della sospensione condizionale: gli avvocati sanno fare il loro mestiere e sapranno trovare tante eccezioni per i loro clienti.

 

Sta dicendo che il pacchetto non servirà a nulla?

Guardi, ben vengano gli strumenti aggiuntivi ma io credo che non si possa relegare tutta la discussione all’inasprimento del sistema penale. Se fosse così semplice avremmo già debellato la criminalità.

 

Ma elevare le pene non è un deterrente?

Le faccio un esempio: in Italia è da 15 anni che ci sono pene sempre più pesanti rispetto all’abuso di droga e alcol ma non mi sembra che il problema sia stato risolto.

 

Ma allora quale dovrebbe essere la strada da intraprendere?

Sarebbe più importante insistere sugli aspetti connessi all’azione penale. Questo significa coinvolgere tutti gli attori: amministratori pubblici, insegnanti, educatori, famiglie, imprenditori. Per decenni si è pensato che la sicurezza fosse un problema esclusivo di polizia, giudici e sistema penitenziario. Non è così: il circolo virtuoso si innesta quando c’è il contributo di tutte le parti sociali, nessuna esclusa.

 

Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati e il suo collega di Firenze Leonardo Domenici chiedono più poteri di polizia per gli amministratori locali…

Non mi scandalizza, gli amministratori locali sono quelli che conoscono meglio la situazione specifica delle loro città. Ovviamente questo non significa diventare "sceriffi" sul modello di Manenti a Rovato o Gentilini a Treviso. E, soprattutto, vale se tali riflessioni sono abbinate ad azioni sociali concrete con delle ricadute sul territorio.

 

Ma cittadini e amministratori locali sono spaventati da rapine in villa, omicidi e violenza…

Noi non stiamo parlando di Riina e del pluriomicida. Il fatto è che in carcere oltre i due terzi delle persone devono scontare pene inferiori ai tre anni mentre gli ergastolani sono meno di 1.500 in tutta Italia. È evidente che il coinvolgimento dei soggetti riguarda i criminali di "piccola tacca". Si tratta di offrire delle valide alternative. Lo ha detto anche Benedetto XVI da Castelgandolfo: le carceri devono contribuire alla riabilitazione. Mi rendo conto che mentre si parla solo di repressione e sicurezza è difficile fare discorsi del genere, ma non c’è altra strada.

 

Ma un problema di sicurezza però c’è…

In criminologia ci sono centinaia di volumi che si occupano del rapporto tra insicurezza reale e percezione dell’insicurezza, una materia molto affascinante. È indubbio che il boom della comunicazione abbia alimentato la diffusione e la circolazione delle notizie tendendo a ripetere all’infinito episodi singoli. Ma ha senso parlare per tre settimane consecutive del delitto di Garlasco? Da anni in realtà sono in aumento i reati contro il patrimonio ma quelli contro le persone, quelli che mettono a rischio l’incolumità di uomini e donne, sono in diminuzione.

 

E questo cosa significa?

Tutti hanno paura dell’atto violento ma la valutazione dei dati è distorta. Le persone che si sentono più insicure sono le donne e le persone anziane ma in realtà i soggetti più a rischio sono i maschi, adulti e di pelle bianca. Peraltro la maggior parte dei reati violenti non avviene in un contesto di estraneità ma di appartenenza. Giusto per fare un esempio: le probabilità di essere violentati al parco mentre si fa jogging sono assai limitate, è più probabile che si subisca violenza in ambito domestico o nella rete di conoscenze. Questo non significa che non si debbano prendere delle precauzioni quando si va al parco ma l’idea dell’aggressione da parte dello sconosciuto è un luogo comune da sfatare.

 

Ma se la realtà non è questa, come mai le persone continuano a sentirsi insicure?

Le cause sono diverse ma sistema di welfare, lavoro, famiglia, sistema di relazioni sono molto cambiati negli ultimi 30 anni. Non è un giudizio di merito ma è per dire che adesso le persone hanno una maggiore incertezza di prima.

 

L’immigrazione crescente degli ultimi anni, ha dato un contributo a questa incertezza?

Senz’altro, è naturale avere paura e diffidenza dello straniero. Non è però naturale pensare che i nostri problemi dipendano da loro.

 

Da cittadino bresciano e frequentatore del Carmine per lavoro (l’università di Giurisprudenza è tra via San Faustino e via Battaglie) cosa pensa di questo quartiere?

Qualche perplessità ce l’ho. Si è fatto molto in questi anni con il piano di riqualificazione: case ristrutturate, l’università, uffici pubblici, intere vie rimesse a nuovo. Ma non basta: l’impegno per una continua "distribuzione della qualità del vivere urbano" è necessaria affinché non si creino ghetti.

 

Investimenti sul piano urbanistico, costruzioni di reti di socialità: ma alla persona anziana che ha paura ad uscire di casa cosa consiglia?

Prudenza e precauzione nei comportamenti. Spesso sono vittime di truffe e raggiri. Detto per inciso, compiuti per lo più da italiani e non da stranieri.

Giustizia: un comunicato del Seac sulla sicurezza nelle città

 

Comunicato stampa, 17 settembre 2007

 

Il Seac (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario) esprime apprezzamento e condivisione per le dichiarazioni del sindaco di Foggia Orazio Ciliberti, responsabile delle politiche per la sicurezza per l’Anci (l’Associazione dei Comuni Italiani). Le dichiarazioni del sindaco, in merito alle proposte avanzate da alcuni primi cittadini sull’attribuzione di maggiori poteri per la gestione delle sicurezza nelle città, esprimono una profonda capacità di lettura dei fenomeni sociali.

Avevamo già avuto modo di apprezzare il sindaco Ciliberti in qualità di relatore al 39° convegno nazionale Seac 2006 "La riforma penale e le nuove prospettive: il volontariato, la città, gli enti locali per le nuove politiche penali", in veste di rappresentante per l’Anci. La sua intelligente relazione aveva affrontato i problemi a tutto campo, tracciando una visione globale dei fenomeni della gestione sociale delle "marginalità", individuando la complessità dei contesti problematici, non semplicisticamente riducibili alle politiche di zero tolerance, e dei fattori che costruiscono le vere politiche della sicurezza. Queste politiche, che non possono ovviamente prescindere dal quadro nazionale (ancora assoggettato, tra molti altri fattori, alle penalizzanti leggi della scorsa legislatura) chiamano in causa direttamente le responsabilità degli amministratori locali e la loro capacità di costruire alternative alla penalità.

Con sollievo apprendiamo che le proposte avanzate da alcuni sindaci di città importanti non verranno inserite nel pacchetto che il 19 settembre l’Anci presenterà al ministro Amato e che ha prevalso il coraggio, da parte di una componente degli amministratori, di esprimersi fuori dal coro delle litanie sulla sicurezza.

Affrontare il tema con risposte sociali è il pensiero che il Seac sostiene da circa 30 anni, partendo dalle osservazioni nate da un osservatorio "privilegiato" qual è la condizione carceraria. Già da allora si poteva evidenziare il rapporto tra detenzione sociale, allargamento della penalizzazione e mancanza di sostegno alle situazioni critiche, fino a raggiungere le drammatiche cifre di questi ultimi anni.

Sicurezza sociale significa costruire le condizioni di vivibilità nell’ambiente in cui si abita e cogliere gli aspetti critici che queste situazioni urbane e sociali presentano, per poterle affrontare. La sicurezza sociale dovrebbe lavorare in particolare sulle situazioni di disagio, di emarginazione, proprio per eliminarle e per includere coloro che sono esclusi nella situazione reale.

Tutte le persone che non "tornano" con la politica complessiva delle attuali leggi o dell’organizzazione dei servizi (i tossici, gli stranieri senza arte né parte, o con arte e parte ma sempre stranieri, quelli che vivono nella precarietà, le persone che hanno problemi di ordine psichico, di insufficiente integrazione sociale) non possono essere allontanate a colpi di scopa (o di decreto) che le spazzano via e le mettono al margine.

È evidente che il problema della sicurezza non va sottovalutato; ma va affrontato con politiche corrette poiché, se lo si affronta bene, si vede che non c’è nessun conflitto tra sicurezza e altri interessi, tra integrazione e diritti dei cittadini. Si può scoprire che queste contraddizioni possono coesistere e sostenersi l’una con l’altra. Ovviamente ci sono delle differenze tra una politica e l’altra. Noi sosteniamo quelle che si ispirano ai principi della Costituzione, della solidarietà, dell’integrazione, della responsabilità di ogni soggetto coinvolto, per trovare insieme soluzioni che diano qualità alla sicurezza. Così la sicurezza non sarà solo un enunciato che rischia, come in questo giorni di insistenza mediatica, di risuonare come parola vuota di contenuti se non è articolata da sanzioni e provvedimenti intelligenti; laddove siano necessari.

Siamo quindi a disposizione per sostenere, con la nostra azione di volontariato, quelle politiche e quegli amministratori che ritengano la sicurezza fondata sullo sviluppo di un terreno fatto di cultura, di cittadinanza attiva: in caso contrario non sarà possibile un vero cambiamento.

 

Elisabetta Laganà, presidente Seac

(Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario)

Giustizia: Cassazione; i giornali possono criticare le sentenze

 

www.radiocarcere.com, 17 settembre 2007

 

Roma, 15 settembre - Il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati "deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile" perché la critica "è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia ed indipendenza".

Lo sottolinea la Cassazione, rigettando il ricorso presentato da Mario Blandini, procuratore generale della Corte d’appello di Milano, contro una sentenza del gip di Roma che aveva dichiarato il non luogo a procedere "perché il fatto non costituisce reato per esercizio del diritto di critica" nei confronti del giornalista de "La Repubblica" Giuseppe D’Avanzo e del direttore responsabile del quotidiano Ezio Mauro. Il cronista, in particolare, era accusato del reato di diffamazione per aver criticato "con toni assai aspri", ritenuti offensivi dal magistrato, la decisione della pubblica accusa di patteggiare in appello la pena per Ruggero Junker, imputato dell’omicidio volontario della fidanzata, condannato così in secondo grado a 16 anni di carcere, a fronte dei 30 anni inflittagli in primo grado.

Il procuratore generale di Milano aveva dunque proposto ricorso per Cassazione contro la decisione del giudice per le indagini preliminari, rilevando che "dalla critica alla scelta processuale, certamente legittima, il giornalista era passato ad un attacco personale del tutto gratuito ed inutile", definendo nel suo articolo "lunatica e fantasiosa" la cultura giuridica di Blandini, nonché parlando di "subalternità psicologica" del magistrato nei confronti di una famiglia influente ed importante e del processo che, a suo parere, nelle mani del procuratore "diveniva ‘arte da basso intrigò".

Per la Suprema Corte (quinta sezione penale, sentenza n. 34432),la decisione del gip deve invece essere confermata: "forte è infatti l’attenzione della pubblica opinione su gravi fatti di cronaca e sugli esiti giudiziari degli stessi - scrivono gli "ermellini" - ed è giusto che sia così perché la discussione su episodi che hanno fortemente colpito la sensibilità dei cittadini contribuisce alla formazione di un profondo e condiviso senso di giustizia".

Inoltre, "è fuori contestazione - aggiungono i giudici di piazza Cavour - che la critica giudiziaria possa essere contrassegnata da espressioni forti, aspre, pungenti ed anche suggestive, spesso necessarie per richiamare la necessaria attenzione dei lettori, che, bombardati da numerose notizie, debbono poter individuare prontamente quelle più significative".

Polizia Penitenziaria negli Uepe: da Assistenti Sociali di Venezia

 

Blog di Solidarietà, 17 settembre 2007

 

I sottoscritti Assistenti Sociali dell’UEPE di Venezia, riuniti in assemblea il 13.09 u.s. per esaminare la nuova bozza di Decreto Inter-Ministeriale proposta alle OO.SS. per la sperimentazione dei nuclei di Polizia Penitenziaria presso gli Uepe condividono le preoccupazioni espresse dal Casg nel comunicato del 10.9. u.s. per i punti critici ancora presenti nel testo del decreto, vale a dire:

La scelta di istituire i nuclei di polizia penitenziaria presso gli Uepe;

La possibilità di impiegare la polizia penitenziaria per i controlli sui soggetti affidati in prova al servizio sociale ;

Il configurare un ruolo dei direttori degli Uepe sempre più vicino a quelli di funzionari di Polizia, piuttosto che di dirigenti con una necessaria e specifica connotazione tecnico-professionale;

Il rafforzamento dell’immagine dell’Uepe come parte integrante degli organismi di ordine pubblico e sicurezza a scapito della sua natura di servizio sociale;

L’assenza di un qualsiasi riferimento ai costi complessivi della sperimentazione e a dove saranno reperiti i finanziamenti.

Le osservazioni sopraccitate circa le criticità della sperimentazione dei nuclei di polizia penitenziaria negli Uepe nascono dall’esperienza maturata nel lavoro svolto ormai da decenni nell’ambito dell’applicazione delle misure alternative che, unito al sapere professionale e alla specifica preparazione propria dell’assistente sociale, ci rendono osservatori privilegiati degli argomenti oggetto del dibattito in corso.

Gli assistenti sociali che operano negli Uepe da sempre hanno coniugato l’esigenza del controllo con quella dell’aiuto, con la convinzione che non può esserci aiuto efficace e duraturo senza attenzione agli esiti e ai risultati ottenuti; la dimensione della sottoposizione agli obblighi e il rispetto degli stessi, imprescindibile e assolutamente vincolante per le persone sottoposte a misura alternativa, è fortemente presente nei progetti di intervento e gran parte del lavoro svolto con gli utenti è rivolto al veicolare l’importanza del rispetto della norma e favorire un rapporto di fiducia con le istituzioni.

La forte perplessità circa l’ipotesi di utilizzare personale di polizia penitenziaria per eseguire i controlli sulle persone ammesse a misura alternativa nasce da due considerazioni, derivanti da quanto finora espresso:

1) riteniamo che i controlli efficaci sulla condotta e sullo stile di vita delle persone che fruiscono di misure alternativa non si esauriscano nel mero controllo della presenza in casa nelle ore stabilite, ma al contrario investano ambiti più vasti e complessi (frequentazioni, abitudini, eventuali sospetti di reati, ecc.). Da ciò deriva che solo le Forze dell’Ordine operanti stabilmente sul territorio ed in possesso di preziosi ed insostituibili elementi di conoscenza dello stesso possono esercitare il controllo così inteso.

2) la compresenza di più soggetti delegati al controllo (Forze dell’ordine e agenti di polizia penitenziaria) invece di intensificare l’esercizio di tale funzione rischia di vanificarlo o renderlo poco proficuo, con dispersione di elementi di conoscenza e inutili sovrapposizioni. La delega in via prioritaria alla polizia penitenziaria del controllo sulle misure alternative rischia, perciò, di ridurlo al solo accertamento sulla presenza fisica del soggetto in determinati luoghi (casa, posto di lavoro, ecc.) senza possibilità di conoscere altri elementi importanti sulla sua condotta complessiva.

Chiediamo, perciò, come già fatto con l’appello rivolto alle OO.SS. da questo ed altri Uepe nel marzo u.s. e col documento presentato all’assemblea degli AA.SS. Uepe del 21 Giugno 2007 di non adottare scelte che rischiano di snaturare l’immagine e l’operatività di Servizi dell’Amministrazione Penitenziaria che da oltre trent’anni si occupano delle misure alternative. Chiediamo, inoltre, un reale coinvolgimento degli operatori che materialmente si occupano delle misure alternative nella valutazione dei possibili cambiamenti organizzativi di tali Servizi, ritenendo che ogni modifica dell’assetto organizzativo debba trarre origine dall’analisi dell’esperienza.

 

Assistenti sociali: Benazzato Margherita, Bernacchia Ines, Bovo Paola, Calesso Maria, Correnti Giovanna, Erizzo Silvia, Mastrosimone Paola, Menetto Patrizia, Russo Giuseppina, Scroccaro Carolina, Vincenzi Michela.

Polizia Penitenziaria negli Uepe: da Assistenti Sociali di Cosenza

 

Blog di Solidarietà, 17 settembre 2007

 

I sottoscritti Assistenti Sociali dell’Uepe di Cosenza, condividono le preoccupazioni espresse dal Casg nel comunicato del 10.9. u.s. e le preoccupazioni evidenziate nei comunicati degli operatori dell’Uepe di L’Aquila, di Napoli, di Verona, di Venezia, di Catania e Ragusa, per i punti critici ancora presenti nel testo del decreto, vale a dire:

La scelta di istituire i nuclei di polizia penitenziaria presso gli Uepe;

La possibilità di impiegare la polizia penitenziaria per i controlli sui soggetti affidati in prova al servizio sociale;

Il configurare un ruolo dei direttori degli Uepe sempre più vicino a quelli di funzionari di Polizia, piuttosto che di dirigenti con una necessaria e specifica connotazione tecnico-professionale, inerente al sociale-educativo, oltre che organizzativo di specifici servizi alla persona deviante, come la nostra utenza;

Il rafforzamento dell’immagine dell’Uepe come parte integrante degli organismi di ordine pubblico e sicurezza a scapito della sua natura di servizio sociale;

L’assenza di un qualsiasi riferimento ai costi complessivi della sperimentazione e a dove saranno reperiti i finanziamenti.

Non poche sono, infatti, le perplessità che scaturiscono dalla lettura dettagliata di tale bozza e non si può fare a meno di considerare il fatto che con il Decreto sulla sperimentazione della Polpen negli Uepe, diventa ordinario il carattere di eccezionalità nelle leggi 121/1981, Dpr 82/199 etc. ("….per eccezionali esigenze di ordine e sicurezza pubblica o di ordine pubblico"….,), tanto che, per giustificare la scelta politica, si trasforma l’Uepe stesso in un servizio di ordine e sicurezza pubblica per fronteggiare un "allarme sicurezza" che sta legittimando scelte politiche che non tengono conto di concetti culturali e professionali elaborati nell’arco di oltre un trentennio di storia e ciò a discapito di necessari investimenti per il Welfare State.

Si teme per il futuro delle misure alternative, in particolare per l’Affidamento in Prova al Servizio Sociale, viste come possibilità di recupero e inclusione sociale. Riteniamo che i controlli efficaci sulla condotta e sullo stile di vita delle persone che fruiscono di misure alternativa non si esauriscano nel mero controllo della presenza in casa nelle ore stabilite, ma al contrario investano ambiti più vasti e complessi (frequentazioni, abitudini, eventuali sospetti di reati, ecc.). Da ciò deriva che solo le Forze dell’Ordine operanti stabilmente sul territorio ed in possesso di preziosi ed insostituibili elementi di conoscenza dello stesso possono esercitare il controllo così inteso. Inoltre la compresenza di più soggetti delegati al controllo (Forze dell’ordine e agenti di polizia penitenziaria), invece di intensificare l’esercizio di tale funzione, rischia di vanificarlo o renderlo poco proficuo, con dispersione di elementi di conoscenza e inutili sovrapposizioni. La delega in via prioritaria alla polizia penitenziaria del controllo sulle misure alternative rischia, perciò, di ridurlo al solo accertamento sulla presenza fisica del soggetto in determinati luoghi (casa, posto di lavoro, ecc.) senza possibilità di conoscere altri elementi importanti sulla sua condotta complessiva.

I firmatari condividono e sostengono le ragioni espresse dal comitato di solidarietà degli assistenti sociali, dal Casg, dagli operatori dei tanti Uepe d’Italia, dal mondo del volontariato, da tante associazioni e da diverse organizzazioni sindacali e chiedono di non adottare scelte che rischiano di snaturare l’immagine e l’operatività di Servizi dell’Amministrazione Penitenziaria, che da oltre trent’anni si occupano delle misure alternative. Chiediamo, inoltre, un reale coinvolgimento degli operatori che materialmente si occupano delle misure alternative nella valutazione dei possibili cambiamenti organizzativi di tali Servizi, ritenendo che ogni modifica dell’assetto organizzativo debba trarre origine dall’ analisi dell’esperienza.

 

Le Assistenti Sociali dell’Uepe di Cosenza: Francesca Spadafora; Adriana Delinna; Silvana Puleo; Filomena Scarpa; Maria Pugliano; Maria Lacroce; Mirella Spadafora.

Avellino: muore un detenuto di 32 anni, aperta un’inchiesta

 

Il Mattino, 17 settembre 2007

 

Misterioso decesso di un giovane detenuto presso il carcere di Ariano Irpino. Raffaele Iuorio, trentaduenne, originario di Torelle dei Lombardi, che solo qualche giorno fa era stato ricondotto in carcere, per aver disatteso l’obbligo degli arresti domiciliari, è deceduto mentre veniva trasportato al pronto soccorso dell’ospedale di Ariano Irpino.

Si era sentito male dopo cena e aveva chiesto aiuto, accusando forti dolori all’addome. Ma inutili si sono rivelati sia i soccorsi dei sanitari all’interno della struttura carceraria che di quelli del 118 immediatamente allertati. Il giovane non ha fatto in tempo a raggiungere neanche il nosocomio arianese. Adesso il cadavere giace nell’obitorio in attesa che questa mattina, su richiesta della Procura della Repubblica di Ariano Irpino, si svolga su di esso l’esame autoptico.

In effetti il medico legale, Michele Gelormini, non ha potuto fare altro che constatare il decesso e indicare alla Procura la necessità di procedere ad una più approfondita indagine attraverso l’autopsia. Il suo decesso, in effetti, è avvolto dal mistero. Raffaele Iuorio, da tempo ai domiciliari, era stato ricercato dai carabinieri, a seguito della segnalazione della sua presenza nel comune di Grottaminarda.

I militi temevano che, a causa dei suoi precedenti per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, potesse contattare giovani del posto. Di qui il suo arresto e la sua traduzione nel carcere arianese. Ma qui è rimasto solo poco più di un giorno, a causa dell’improvviso malore e del conseguente decesso. Cosa è realmente accaduto tra le mura del carcere?

Il giovane di Torella dei Lombardi ha accusato un malore o ha ingerito qualcosa che ha causato la sua morte? Si è suicidato? A questi interrogativi la Procura della Repubblica di Ariano Irpino tenta di dare una risposta, così come se l’aspettano i parenti che avrebbero nominato un perito per seguire l’esame autoptico e le fasi dell’inchiesta in corso. Anche la direzione del carcere ha avviato un’indagine interna per far luce sull’intera vicenda. Raffaele Iuorio lascia la mamma Maria Luigia e le due sorelle Angela e Adele.

Milano: Vallanzasca; sulla richiesta grazia voglio una risposta

 

Apcom, 17 settembre 2007

 

"Ho diritto ad avere una risposta". A parlare è Renato Vallanzasca e la risposta che attende riguarda la domanda di grazia fatta al Presidente della Repubblica. "Chiedere è lecito - dice in una intervista a La Stampa - rispondere è cortesia". Ma non rivendica ragioni per l’ottenimento della libertà. L’ho fatto perché "lo dovevo a mia madre e alla mia compagna". Lui, infatti, non la concederebbe "nemmeno lontanamente" se fosse un semplice cittadino. E "nemmeno essendo Vallanzasca. Sono intellettualmente troppo onesto per permettermi una simile scelleratezza".

L’ex boss della Comasina, che dal carcere di massima sicurezza di Voghera è stato trasferito nel luglio 2006 alla Casa circondariale di Opera, vicino Milano per riavvicinarsi alla madre novantenne, critica duramente le nuove carceri. "Qui è un carnaio" dice. "Queste nuove carceri - prosegue - alcune tanto pulitine, talmente asettiche da fare invidia a cliniche private sono strutturate e condotte più per distruggere la personalità di un recluso che non per insegnargli a vivere in società". E sui lavavetri e i rom dice "loro scocciano la gente. Mentre Vallanzasca andava a prendersi i soldi in banca". Tra i suoi progetti se dovesse ottenere la libertà, il matrimonio con la compagna Antonella "colei che come un’ombra mi segue da più di 40 anni", e poi "magari scrivere".

Catania: siamo 11 detenuti... in una cella di 3 metri per 4!

 

La Sicilia, 17 settembre 2007

 

Undici persone in una cella di tre metri per quattro con un solo bagno. Difficoltà a reperire medicinali, sale colloqui strette e sporche, passeggiate a "turno" per la ristrettezza delle aree, istanze per cambiare cella o per parlare con il direttore del carcere ignorate, celle senza doccia, assenza di corsi di riabilitazione o di corsi di ginnastica in palestra, spesa contenuta allo stretto indispensabile e, per finire, nemmeno la messa a risollevare spiritualmente tanto disagio quotidiano.

È quello che denunziano trecento detenuti comuni del carcere di piazza Lanza in una lettera spedita in redazione nella quale elencano i loro disagi quotidiani all’interno della casa circondariale più frequentata della città parlando di "invivibilità". Un problema antico che ripropone il tema della qualità della vita all’interno dell’edificio di piazza Lanza. Eppure recentemente sono stati portati a termine lavori di ristrutturazione del "braccio" (anche se non si chiama più così) sinistro della casa circondariale.

"Ma - scrivono i detenuti comuni del "braccio" destro all’onorevole Salvo Fleres in visita al carcere hanno fatto vedere solo la parte ristrutturata che ospita solo detenuti accusati di associazione mafiosa e la sezione femminile. Lì - scrivono - non esistono tutti questi disagi. Nelle celle femminili ci sono solo quattro donne e possono disporre delle docce nelle loro celle. Speriamo che il nostro grido di sofferenza possa servire a far sì che in futuro la gente che entra in questo posto, possa avere il minimo indispensabile, visto che ci sono due bracci chiusi da anni senza progetti di ristrutturazione". Sui progetti di ristrutturazione per quanto riguarda altre parti del carcere non è dato sapere.

Non ne è a conoscenza il dirigente reggente, Giuseppe Russo, chiamato in questi giorni a sostituire il direttore Rosario Tortorella. "Mi pare però di poter dire che le celle non sono sovraffollate - dice Russo - e che sicuramente non ci sono undici persone in una cella, né dieci, né nove. Per quanto riguarda i colloqui, vengono effettuati regolarmente. Se le stanze dei colloqui sono, come scrivono questi detenuti "sporchissime" (e non lo sono) non è da imputabile alla direzione visto che le pulizie vengono effettuate dagli stessi detenuti.

Le sale è vero, non consentono la riservatezza dei colloqui, ma non credo che una persona che attende di parlare con i propri familiari abbia tutto questo interesse ad ascoltare quello che si dicono gli altri. L’attività formativa si fa - aggiunge Russo - la messa pure, anzi c’è un Cappellano molto attivo e molto stimato dai detenuti che fa loro visita regolarmente". Dell’idea - portata avanti fino a qualche anno fa - di trasferire il carcere di piazza Lanza altrove e quindi sostanzialmente di costruire un nuovo carcere non si parla più. Un’idea, almeno per il momento, abbandonata, come confermato anche dai vertici del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

 

Il carcere di "Piazza Lanza"

 

Il carcere di Piazza Lanza attualmente ha una capienza di 400 detenuti e ne ospita 383. Il problema della limitatezza dei locali e degli spazi comuni, non è nuovo, ma la struttura e quella che è e i lavori di ristrutturazione, pur messi in atto non possono ampliare gli spazi più di tanto. Venne costruito nel 1890 e proprio per la sua antichità sono necessari continui interventi di manutenzione e ristrutturazione.

Dopo una serie di aggiustamenti entrò pienamente in funzione nel secondo dopoguerra. Con la riforma carceraria del 1975 prese il nome di Casa circondariale. Ha una cinta muraria a forma rettangolare e copre un’area di 20.638 metri quadrati. C’è un reparto di alta sicurezza, con detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, uno di media sicurezza, con detenuti ristretti per reati comuni e un reparto femminile.

In genere la permanenza nel carcere di piazza Lanza è limitata. È, infatti, la struttura con il maggior numero di ingressi giornalieri per qualsiasi genere di reato. Uno dei problemi segnalati periodicamente dai sindacati è la carenza d’organico degli agenti che operano all’interno dell’istituto per garantire la sicurezza.

Benevento: convegno sulla riforma del Codice di Procedura

 

Il Sannio Quotidiano, 17 settembre 2007

 

Ancora passaggi tecnici, come inevitabile, con l’aggiunta di alcune considerazioni politiche. I primi, affidati agli addetti ai lavori, hanno rappresentato la normalità, anche ieri pomeriggio, nella seconda e conclusiva giornata - sempre nella cornice dell’ex convento di Sant’Agostino - del convegno sui "Profili del nuovo Codice di procedura penale", le seconde, invece, arrivate dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, a chiusura di confronto, hanno aggiunto alcuni spunti.

Ma la dialettica sul nuovo Codice di procedura penale - per ora fermo alla prima bozza - è destinata a proseguire ancora. Con tappe ad Avellino, a Grosseto, a Bologna, a Milano, come ha sottolineato Giuseppe Riccio, presidente della commissione ministeriale per la riforma del Codice.

Ritornando all’appuntamento beneventano, la terza fase del convegno - moderata da Ruggero Pilla (procuratore della Repubblica presso il tribunale di Benevento) -, dedicata alle "forme di giudizio" alla luce delle proposte avanzate nella bozza del nuovo Codice, non si è allontanata dalla strada maestra, ovvero un confronto molto tecnico. Così si è parlato di giudizio abbreviato, e Vania Maffeo (docente dell’Università degli studi di Napoli) ha sottolineato "la necessità di trovare strade alternative al dibattimento, anzi di ampliare quelle strade", e, allo stesso tempo, si è parlato di "credibilità della giustizia penale", e ancora la Maffeo, facendo riferimento ai lavori compiuti dalla commissione, ha tenuto a sottolineare che "col giudizio abbreviato la riduzione della pena sarà decisa in base alle diverse fasce di reato".

E sul giudizio abbreviato si è soffermato anche Raffaele Magi (componente della commissione), premettendo però una considerazione forte: "Il lavoro in commissione non è stato astratto, tutti hanno dato il proprio contributo per provare a risolvere problemi gravi. Perché, sia chiaro, possiamo parlare a ragion veduta di crisi del processo". Rispetto a questa crisi, "i riti collaborativi sono un male necessario" e "bisogna fare i conti con la realtà della prescrizione. Tuttavia, bisogna capire se il dibattimento sarà davvero reso possibile...", ha evidenziato Magi.

Ricche di osservazioni critiche, invece, le parole di Valerio Spigarelli, intervenuto in rappresentanza dell’Unione delle camere penali, su delega del presidente Oreste Dominioni. Il punto di partenza è stato il riferimento a uno dei nodi principali, anche rispetto all’opinione pubblica, ovvero "la ragionevole durata del processo", e rispetto a questo nodo Spigarelli non ha mancato di mettere in evidenza alcune incongruenze: "Lo so, si parla tanto dei tempi dei processi, facendo riferimento anche alle attività della difesa, ma non si va mai davvero ad analizzare i motivi alla base dei rinvii, e dei conseguenti ritardi, nei processi.

Ebbene, secondo i dati dell’Eurispes, la lentezza nei tempi dei processi - ha attaccato Spigarelli - nulla ha a che fare con l’esercizio dei diritti, ad esempio quelli dell’imputato, mentre i problemi sono soprattutto di carattere amministrativo".

Poi, in conclusione, una stoccata: "Se si pensa di accelerare per arrivare alla definizione del nuovo Codice, a mio avviso ci saranno contrasti con la classe forense", ha chiosato Spigarelli.

Logico il riferimento all’obbligato passaggio legislativo. Su questo punto ha replicato, in primo luogo, Riccio, rivendicando l’apertura al confronto sull’attuale bozza, che "sarà definitiva entro la fine di novembre", e spiegando, come già fatto nella prima giornata di convegno, che "la riforma serve a tutto il Paese". Subito dopo, però, non si è fatta attendere la risposta a Spigarelli da parte del ministro Mastella, che, non a caso, in apertura ha parlato di "incompatibilità con le Camere penali".

Questo, però, è stato solo l’esordio, perché poi l’esponente del governo Prodi ha rivendicato "il primato della politica" e ha aggiunto, con ironia, che "vengono fatte ricadere su di me quarant’anni di inadempienze". Poi, per respingere le critiche, Mastella ha rivendicato il metodo del confronto e la scelta di affidarsi a Giuseppe Riccio e al lavoro dei componenti della commissione per la definizione della bozza. "Ora, però, è arrivato il tempo della politica. Toccherà al Consiglio dei Ministri e al Parlamento, e se ci saranno degli interventi, sarà tutto finalizzato a confermare le garanzie previste e a migliorare i tempi dei processi", ha sottolineato Mastella. Che, poi, ha annunciato per domani "un confronto con il Consiglio superiore della magistratura".

Però "resta centrale il cittadino, a mio avviso. Perché i cittadini conoscono le lungaggini enormi dei processi. Ecco, forse ho fatto poco sinora e me ne dispiaccio ma mi ritrovo in una situazione che non ho creato io. Ora, però, voglio che i cittadini abbiano delle certezze, voglio che ci sia una giustizia certa per le persone. E credo - ha concluso Mastella - che ciò sia possibile con l’impegno e il contributo di tutti".

Usa: Texas; detenuto pungolato da guardia cerca giustizia

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 17 settembre 2007

 

Il caso di un detenuto nero abusato dalle guardie carcerarie del Texas sarà discusso davanti ad una giuria con l’accusa di punizione crudele o insolita a carico di una guardia carceraria. Lo ha deciso la Corte d’Appello del quinto circuito degli Stati Uniti, di stanza a New Orleans, un organismo fra i più conservatori della nazione.

Dale Payne, 50, uno scassinatore condannato e uscito sulla parola sei mesi fa dopo 16 anni per rapina a mano armata aggravata, ha accusato una guardia carceraria di averlo tormentato, di avergli dato la scossa con un pungolo elettrico per bestiame e di averlo minacciato con un coltello senza ragioni disciplinari. Il tribunale d’appello ha ribaltato la decisione di un tribunale di primo grado che aveva respinto le accuse del detenuto, che aveva gestito da solo la sua difesa, facendo apparire un giudizio sommario quello che aveva archiviato il caso.

Quando Payne aveva denunciato alla direzione della prigione l’assalto subito con un pungolo elettrico alle spalle ed il tentativo di ripetere il gesto, la guardia responsabile aveva negato, ma ad una indagine più approfondita ha ammesso il gesto, affermando che stava scherzando ed è stato sospeso per due giorni senza paga e messo in probation per 90 giorni. Il primo tribunale ha accettato la tesi dello scherzo, ma una giuria razionale potrebbe determinare che la guardia si era comportata con cattiveria e la volontà sadica di causare un danno.

Payne, che ha trovato un lavoro, ha detto che la sua battaglia è fatta anche per tutti coloro che vengono battuti, torturati e chiamati con appellativi razzisti. Un portavoce del sistema carcerario del Texas ha detto che questo non tollera il razzismo o le brutalità da parte delle guardie. La guardia in questione è tuttavia ancora in servizio ed è stato promosso a sergente.

 

 

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