Il 4 bis deve essere abolito

 

Il 4 bis deve essere abolito

di Giancarlo Trovato e Gianpaolo Contini

 

Tratto da "Del delitto, delle pene" (Il Gruppo Libero)

 

 

Perché è stato voluto l’articolo 4 bis

 

Con il preciso e dichiarato intento d’arginare il fenomeno della criminalità organizzata, specie di tipo mafioso, nonché di sollecitare la collaborazione con la giustizia, sull’onda emotiva provocata dagli omicidi dei Magistrati Falcone e Borsellino, dal 13 maggio 1991 al 7 agosto 1992 è stato creato un "regime differenziato" per l’ottenimento dei benefici della "legge Gozzini", stabilendo delle limitazioni e degli obblighi per i condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare le associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti di cui agli articoli 416-bis e 630 c.p. e 74 Tuls.

In maniera più attenuata sono state stabilite limitazioni anche per i condannati in base ai reati di cui agli articoli 575, 628 terzo comma, 629 secondo comma c.p. e 73 aggravato dalle ipotesi del secondo comma articolo 80 Tuls ed in base a delitti commessi per finalità di terrorismo o d’eversione.

Il 19 marzo 2001, ai primi tre reati storici è stato aggiunto quello relativo all’associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi, cogliendo occasione per dare un’ulteriore conferma del carattere di punizione emergenziale di tale articolo 4-bis.

L’aggiunta, infatti, è stata decisa a seguito del verificarsi di alcuni episodi cruenti collegati al contrabbando.

L’articolo 4-bis è stato sostanzialmente voluto per colpire i responsabili del reato di cui all’articolo 416-bis c.p., accomunandovi i reati di cui all’articolo 630 c.p. e 74 Tuls. In merito giova osservare come il primo comporti pene mediamente contenute tra i quattro e gli otto anni, mentre gli altri due facciano raggiungere facilmente la soglia dei trenta. Il carattere punitivo, quindi, risulta maggiormente acuito nei confronti dei reati accomunati.

Il decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 (convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203), introducendo l’attuale prima parte dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, ha stabilito che non possano essere concessi benefici ( fatta eccezione per la liberazione anticipata) ai responsabili dei sopraddetti primi tre reati (successivamente divenuti quattro), nonché di quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p., in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della stessa legge 354/75, introdotto contemporaneamente dallo stesso decreto legge n. 152/91.

E 10 stesso decreto legge ha modificato gli articoli 21, 30-ter e 50 della legge 354/75, allontanando nel tempo la possibilità di accedere ai benefici per i condannati in base a tutti i reati contemplati nell’articolo 4-bis, anche in merito alla liberazione condizionale (art. 2 D.L. 13 maggio 1991, n. 152:… se non hanno scontato almeno due terzi di pena).

Il successivo decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apportò ulteriori restrizioni tramite l’articolo 15 comma 1 lettera a), rendendo, di fatto, le norme retroattive: "…nei confronti delle persone detenute o internate per taluno dei delitti indicati nel primo periodo comma 1 che fruiscano, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle misure alternative alla detenzione o di permessi premio, o siano assegnate al lavoro esterno, l’autorità di polizia comunica al giudice di sorveglianza competente che le persone medesime non si trovano nella condizione per l’applicazione dell’art. 58-ter della legge 354/75. In tal caso, accertata l’insussistenza della suddetta condizione, il tribunale di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa alla detenzione o del permesso premio. Analogo provvedimento è adottato dalla competente autorità in riferimento all’assegnazione al lavoro esterno".

In data 12 giugno 1992 il Ministero di Grazia e Giustizia provvide a diramare una lettera, indirizzata, tra gli altri, ai Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza, volta a fare chiarezza, con la quale sostanzialmente valorizzò l’intervento degli organi di polizia nella gestione dell’esecuzione delle pene.

Un tale indirizzo, già da allora, non poté avere altra spiegazione diversa dall’incontrovertibile fatto che la valutazione del condannato, e in particolare modo di quello che commise un reato prima dell’entrata in vigore delle norme restrittive, debba essere effettuata esclusivamente sulla base del mantenimento di rapporti con la criminalità organizzata, concedendo ampia ed incondizionata discrezionalità ai Magistrati di Sorveglianza.

È opportuno far osservare come le norme restrittive, sostanzialmente volute per punire coloro che avevano avuto l’ardire di sfidare lo Stato, abbiano, in effetti, indiscriminatamente colpito nella generalità, punendo pesantemente ed ingiustamente anche coloro che tale ardire proprio non avevano avuto e, tantomeno, pensato.

I reali destinatari non ne hanno mai subito alcun effetto negativo. Alcuni, infatti, si sono pentiti e nemmeno conoscono i contenuti delle norme restrittive. Altri sono carichi di ergastoli e non hanno proprio, ne tempo ne testa, di pensare alle medesime. Le subiscono, pertanto, quale indiscriminata rappresaglia dello Stato, una moltitudine di condannati che nulla, proprio nulla, hanno a che vedere con gli attentati contro Falcone e Borsellino. Ed è importante sottolineare come tali norme siano state viziate, sin dal loro nascere, non solo da incostituzionalità, ma anche da violazione delle Convenzioni internazionali, alle quali lo Stato italiano ha conferito il valore di legge.

Sono stati violati i principi costituzionali d’uguaglianza (articolo 3), di divieto di violenza morale nei confronti dei detenuti (articolo 13) e di funzione rieducativa della pena (articolo 27). È stato pure violato l’articolo 7 della "Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo", il quale vieta che siano inflitte pene più gravi a quelle previste dalla legge vigente.

Le norme restrittive, infatti, hanno aggravato, nella realtà della loro applicazione, le pene già pesantemente inflitte dai Giudici di cognizione. Le norme restrittive sono giunte addirittura a stabilire per legge che un condannato non possa redimersi ed essere pronto per un processo di reinserimento sociale, prima del tempo sancito dalla sentenza di condanna.

Ad un condannato, sostanzialmente, viene proibito dalla legge di procedere ad una costruttiva autocritica in tempi brevi. Per giungere ad una reale revisione critica del suo vissuto criminale deve attendere la scadenza naturale dei tempi impostigli dalla pena.

 

Perché non viene abolito l’articolo 4 bis

 

La normativa restrittiva dell’articolo 4-bis e degli articoli ad esso collegati, inoltre, è apparsa come un ulteriore premio a favore dei "pentiti". Il ritardo con il quale s’è giunti al varo della nuova legge sui pentiti (approvata solamente il 13 febbraio 2001) ed il costante procrastinare le leggi per rendere esecutivi i contenuti del novellato articolo 111 della Costituzione non possono che essere sintomatici della volontà della Magistratura di poter seguitare ad avere, indisturbatamente, "carta bianca" nel portare a termine i "grandi processi" di criminalità organizzata.

Il mancato varo delle sopraddette leggi, le quali ridimensionano l’apporto "costruttivo" dei pentiti, facendo perdere loro notevoli benefici, è intimamente connesso alla prosecuzione della normativa restrittiva che, tra l’altro, mantiene i medesimi in una situazione privilegiata. Alla luce di quanto affermato, non può che risultare auspicabile che l’articolo 4-bis venga abolito in conseguenza dell’avvenuta promulgazione della nuova legge sui pentiti, malgrado il ritardo delle leggi relative al "giusto processo".

 

Gli interventi della Corte costituzionale

 

La pressante necessità della Magistratura, acuita dai drammatici episodi, di poter disporre di più efficaci ed indiscriminati strumenti di lotta alla cosiddetta criminalità organizzata ha, inevitabilmente portato il legislatore a varare delle norme caratterizzate dalla frettolosità.

Al primo decreto legge hanno fatto seguito altri due provvedimenti integrativi, i quali hanno solo contribuito a rendere maggiormente nebulosa l’interpretazione delle varie norme restrittive.

La frettolosità utilizzata nella stesura delle norme restrittive, nonché la loro difficoltosa interpretazione, hanno inevitabilmente provocato l’intervento della Corte costituzionale la quale, con ben otto significative sentenze (n. 306/93, n. 357/94, n. 361/94, n. 68/95, n. 504/95, n. 445/97, n. 137/99 e n. 273/01), ha sostanzialmente costruito un’opera di vera e proprio demolizione dei contenuti dell’articolo 4-bis e degli articoli ad esso collegati, costruendo un vero e proprio mosaico di incostituzionalità.

 

Le sentenze della Corte costituzionale hanno sinteticamente dichiarato:

 

  1. 8 luglio 1993, n. 306, l’illegittimità dell’articolo 15 comma 2 della legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui prevede che "la revoca delle misure alternative alla detenzione sia disposta, per i condannati per i delitti indicati nel primo periodo del primo comma dell’articolo 4-bis che non si trovano nella condizione per l’applicazione dell’articolo 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, anche quando non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con la criminalità organizzata". La stessa sentenza ha sostenuto come l’applicazione di una norma restrittiva, posteriore alla data di commissione del reato, restasse "ancorata ad una condotta addebitabile al condannato". In concreto, la Corte ha indicato tal elemento nella persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata, in quanto "fatto addebitabile al condannato e dimostrativo di effettiva carenza del processo di socializzazione";

  2. 19-27 luglio 1994, n. 357, illegittimità dell’articolo 4-bis nella parte in cui "non prevede che i benefici possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata";

  3. 27 luglio 1994, n. 361, "deve ritenersi ulteriormente valorizzata la necessità dello scioglimento del cumulo in presenza di istituti che, ai fini della loro applicabilità, richiedono la separata considerazione dei titoli di condanna e delle relative pene";

  4. 22 febbraio-1 marzo 1995, n. 68, illegittimità dell’articolo 4-bis "nella parte in cui non prevede che i benefici possano essere concessi anche nel caso in cui l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un ‘utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata". La stessa sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, primo comma, del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, nella parte in cui "non prevede che i condannati per gli stessi reati possano essere ammessi alla liberazione condizionale sempre nel caso che…"

  5. 11-14 dicembre 1995, n. 504, illegittimità dell’articolo 4-bis nella parte in cui "prevede che la concessione di ulteriori permessi premio sia negata nei confronti dei condannati per i delitti indicati nel primo periodo del comma 1 dello stesso art. 4-bis, che non si trovino nelle condizioni per l’applicazione dell’ art. 58-ter della 1.26 luglio 1975, n. 354, anche quando essi ne abbiano già usufruito in precedenza e non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata".

  6. 16-30 dicembre 1997, n. 445, illegittimità nella parte in cui "non prevede che il beneficio della semilibertà possa essere concesso nei confronti dei condannati che prima dell’entrata in vigore dell’art. 15 comma 1 del dl 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modifiche dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata";

  7. 14-22 aprile 1999, n. 137, illegittimità nella parte in cui non prevede che "il beneficio del permesso premio possa essere concesso nei confronti dei condannati che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata";

  8. 5 luglio 2001, n. 273, "è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui escludono dal beneficio della liberazione condizionale i soggetti condannati per determinati delitti, con sentenza passata in giudicato prima dell’entrata in vigore della legge di modifica, che non collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del citato ordinamento penitenziario. La collaborazione con la giustizia è un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini della prova che il condannato ha reciso i legami con l’organizzazione criminale di provenienza che a sua volta è condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale ed i risultati del percorso di rieducazione. Si deve, quindi, concludere che la disciplina censurata non comporta una modificazione degli elementi costitutivi della liberazione condizionale e, dunque, rimane estranea alla sfera di applicazione del principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., risolvendosi in un criterio legale di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il sicuro ravvedimento del condannato".

 

La Corte costituzionale, dall’entrata in vigore delle norme restrittive, ha sempre evitato di completare lo svuotamento dell’articolo 4-bis, preferendo sempre rifugiarsi dietro la troppo comoda cortina "dell’assorbimento degli ulteriori profili dedotti", di volta in volta, dal giudice remittente. Ha, comunque, sempre più indebolito l’orientamento iniziale di non censurare in sé la scelta legislativa del 1991 e le successive evoluzioni de11992, per evitare di far apparire di non voler privilegiare alcune precise finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività.

È stato autorevolmente confermato il rimettere il tutto alla discrezionalità della decisione dei Magistrati di Sorveglianza, ricaricandoli di poteri e dignità, ma anche delle relative gravi responsabilità. Non può, in ogni modo, apparire evidente come la futura tenuta dell’articolo 4-bis, nonché degli articoli ad esso collegati, sia posta in serio dubbio.

La Corte costituzionale, con la sua prima sentenza, ha ritenuto di ricordare e rifissare, quali limiti per il legislatore, due fondamentali criteri:

  1. ogni provvedimento negativo incidente sul regime penitenziario del detenuto deve derivare da una condotta addebitabile al condannato stesso;

  2. in nessun caso le finalità di prevenzione generale e di difesa sociale proprie della pena possono spingersi fino al punto di rendere lecito il pregiudicare la finalità rieducativa della stessa.

Questi due fondamentali criteri non sono assolutamente rispettati dall’articolo 4-bis e dagli articoli ad esso collegati.

La Corte costituzionale, quindi, avrebbe dovuto avere il coraggio di abrogare, per manifesta incostituzionalità, l’articolo 4-bis sin dal momento della sua prima pronuncia.

La Corte costituzionale, invece, ha preferito non ostacolare l’azione punitiva dei Magistrati e la condotta vendicativa dello Stato, pur proseguendo ad inevitabilmente prendere atto dell’incostituzionalità della normativa restrittiva con ben otto sentenze.

 

Gli interventi della Suprema Corte

 

Le otto autorevoli sentenze della Corte costituzionale hanno provocato una situazione di "abrogazione di fatto", accettata da alcuni Tribunali di Sorveglianza e da altri no. Le assurde conseguenze sono che l’ammissibilità ai benefici e l’entità di pena da espiare per esservi ammessi varia da città a città, a seconda di ove si trovi 1 ‘Istituto penitenziario in cui un condannato è destinato ad espiare la pena. Il diverso trattamento operato dai diversi Tribunali di Sorveglianza ha, inevitabilmente, provocato diversi interventi della Corte di Cassazione, i quali, tuttavia, sono pervenuti ad essere concordi nel ritenere non più operante la normativa restrittiva.

 

Tra le varie sentenze appare sufficiente riportarne due:

 

Prima Sezione Penale Corte di Cassazione, 3 maggio 1999, n. 2211: "Per ricostruire l’esatta portata della disposizione di cui all’art. 50 comma 2 dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’ammissione alla semilibertà, qualora trattisi di condannato per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis comma 1, dello stesso ordinamento, occorre che vi sia stata espiazione, di almeno due terzi della pena inflitta (e non soltanto della metà, come nei casi ordinari), il rinvio al citato art. 4-bis deve essere inteso non come limitato all’elencazione dei reati ivi nominatim specificati, ma come riferimento all’intera disciplina contenuta nella nonna richiamata.

Conseguentemente, nel caso di condanna per reato relativamente al quale detta disciplina preveda la concedibilità dei benefici penitenziari solo a condizione che non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, la riscontrata assenza di tali elementi comporta che sia sufficiente l’espiazione della sola metà pena".

Apparendo estremamente evidente come non possa essere concedibile un qualsiasi beneficio ad un condannato che mantenga collegamenti con la criminalità organizzata, già in forza dei contenuti "normali" dell’Ordinamento penitenziario, non si può che avere un’ulteriore conferma di come non abbiano più ragione di esistere l’articolo 4-bis e gli articoli ad esso collegati.

 

Prima Sezione Penale Corte di Cassazione, 23 gennaio 1998, n. 6492: "In tema di liberazione condizionale, quando si tratti di soggetti condannati per taluno dei delitti previsti nel comma 1 dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il beneficio è concedibile, ai sensi dell’art. 2, comma 2, D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. con modif. in L. 22 luglio 1991 n. 203, soltanto a condizione che siano stati scontati almeno due terzi della pena inflitta, salvo che i medesimi soggetti, come statuito dal successivo comma 3, rientrino nelle previsioni di cui all’art. 58-ter dell’ordinamento penitenziario, cioè abbiano proficuamente collaborato con la giustizia ovvero - in applicazione dei principi contenuti nella sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 1995 - versino in situazioni in cui la collaborazione sia divenuta impossibile o irrilevante. In tali ipotesi trova applicazione la regola generale fissata dall’art. 176, comma 1, c.p., secondo cui la liberazione condizionale è concedibile, ferme le altre condizioni, quando sia stata espiata almeno la metà della pena".

 

Nuove limitazioni in forza dell’articolo 4 bis

 

Malgrado la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione abbiano caratterizzato le loro sentenze con la "perduta validità" delle limitazioni, volute dall’articolo 4-bis, Governo e Parlamento hanno seguitato a crearne delle nuove.

La tanto decantata "legge Simeone" ha escluso i suoi effetti nei confronti dei condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis, impedendo loro pure la concessione della detenzione domiciliare dopo l’aver raggiunto un residuo pena pari a due anni. Il vecchio Governo aveva addirittura proposto un disegno di legge per aumentare a centoventi l’anno i giorni del beneficio della liberazione anticipata, escludendo i condannati per i reati di cui all’art. 4-bis.

Al nuovo Parlamento è assai importante far osservare come più "bisognosi" dell’aumento del numero dei "giorni" siano proprio i condannati per i reati previsti dall’art. 4-bis, in forza del fatto che hanno subito pesantissime pene ingigantite da inasprimenti emergenziali, irrogate a conclusione di un non "giusto processo".

Il vecchio Parlamento, inoltre, ha varato il nuovo Regolamento penitenziario, penalizzando, nella concessione dei colloqui e delle telefonate, i condannati per i reati più gravi tra quelli indicati dall’articolo 4-bis (cioè: 416-bis, 630 c.p., 74 Tuls e associazione a delinquere finalizzata al contrabbando).

Il "nuovo" Regolamento penitenziario, entrato in vigore il 6 settembre 2000 in virtù della legge 30 giugno 2000 n. 230, infatti, è giunto addirittura a privare di due colloqui al mese i condannati per i reati del primo periodo del primo comma dell’articolo 4-bis ed a concedere loro solo due telefonate delle quattro previste per tutti gli altri. A distanza di oltre nove anni dalla sua entrata in vigore, l’articolo 4-bis è, così, riuscito a punire ancora, riducendo, senza alcuna giustificazione e senza alcun valido motivo, i sei colloqui sino al 5 settembre 2000 mensilmente e regolarmente effettuati a quattro e togliere due telefonate a chi, lontano da casa, non effettua regolari colloqui, punendo ancora una volta più le famiglie che i detenuti.

Il "nuovo" Regolamento penitenziario, entrato in vigore per rendere più umano e più concreto il trattamento rieducativo e risocializzante dei condannati, ha provocato malumore e scoraggiamento in quanti si sono trovati a subire una pesante punizione, rivolta anche trasversalmente ai loro familiari, che non hanno nè colpa nè responsabilità alcuna.

 

Conclusioni

 

Alla luce di quanto sin qua esposto, non sembra per nulla azzardato definire l’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario quale una mina vagante, abbandonata - a guerra ormai conclusa - a se stessa con la possibilità di esplodere più di una volta, con la conseguenza di provocare ingiusti ed irreparabili danni. L’articolo 4-bis è incostituzionale. È stato sostanzialmente vanificato da ben otto sentenze della Consulta.

La giurisprudenza non considera applicabili i suoi dettami. Le sue limitazioni sono contrarie allo spirito rieducativo del trattamento risocializzante. La sua permanenza in essere consente una disparità di trattamento tra un Tribunale di Sorveglianza ed un altro. La sua ambiguità consente un’ingiustificata, troppo ampia, discrezionalità ai Magistrati di Sorveglianza.

L’articolo 4-bis deve essere abolito e con esso tutti i suoi limiti temporali, in considerazione anche del fatto che i normali tempi previsti dalla "legge Gozzini" già non vengono rispettati, facendo accedere ai benefici i condannati addirittura ben oltre i termini previsti dalle norme restrittive.

 

 

 

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