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Com’è duro per un detenuto incontrare il proprio figlio in carcere
Ristretti Orizzonti, numero 3 – 1999
Questa è la testimonianza di un detenuto, da poco in carcere, che accetta con tanti dubbi di rivedere il suo bambino durante l’ora di colloquio, e poi forse si pente di questa scelta.
Mi trovo improvvisamente in carcere, è la prima volta che varco questi cancelli e finisco fra queste mura. Il primo giorno, interminabile, non passa mai. "Come si chiama? dov’è nato? i suoi genitori sono vivi? come si chiama suo padre? come si chiama sua madre? è sposato? come si chiama la moglie? ha figli?": sono le domande che l’agente dell’ufficio matricola del carcere (l) mi fa e a cui \sono costretto a rispondere. Mi accorgerò in seguito che questa è stata la conversazione più lunga ed esauriente, d’ora in poi ci saranno solo dialoghi del tipo: Domanda: - Agente, posso? Risposta: - No. Domanda: Agente, posso? Risposta: Vediamo... sì, forse. Qualche ora prima, avevo già risposto alle medesime domande in caserma dai Carabinieri, dove mi hanno arrestato. Dalla caserma vengo accompagnato in carcere, dove, assieme ad un pacchetto di documenti, mi consegnano all’agente dell’ufficio matricola. Dopo che si sono scambiati i convenevoli e la "merce", i due carabinieri prima di partire si rivolgono a me dicendomi: - Faccia il bravo, che se la caverà con poco. Io, immerso in una confusione da panico, non ricordo neppure se ho risposto. Unica agevolazione ottenuta fino a quel momento, il mancato impiego delle manette da parte dei carabinieri, perché mi conoscevano bene. Dopo che ho dato le generalità all’ufficio matricola, mi accompagnano a depositare le impronte digitali, impregnandomi le dita di un inchiostro cosi denso che, pur essendomi ripetutamente lavato, mi sono rimaste le dita nere per giorni; poi, via a immortalare la mia immagine con due belle foto ricordo, una di fronte e l’altra di lato, foto nelle quali esce immediatamente l’immagine di un "irregolare": non ho memoria di avere foto in cui risulto così "brutto", sembra quasi che la macchina fotografica del carcere abbia la capacita d’intendere e di volere, ponendo in risalto tutti i connotati estetici peggiori. Sempre sotto scorta vengo condotto in un’altra stanza, la prima disponibile (mi è toccata la sala colloqui), dove inizia la perquisizione. L’agente senza tanti preamboli mi dice: - Si spogli, metta tutto qui sopra su questo ripiano (è il ripiano dove ci si appoggia e che ci divide dai familiari quando si fa colloquio), si tolga tutto, anche orologio e catenine". Comincio a togliermi il maglione, la camicia, i pantaloni, finche rimango completamente nudo. A quel punto l’agente comincia a verificare i vestiti, ad uno ad uno, riconsegnandomeli affinché mi possa rivestire. Trattiene solo la cintura dei pantaloni, altre cose no perché ho lasciato tutto a casa. Diversamente mi avrebbe trattenuto la catenina, il braccialetto, l’orologio di valore, l’anello (la fede no perché considerata simbolo morale) etc., tutto quello che per loro è ritenuto pericoloso per l’autolesionismo. la perquisizione continua con la borsa, anche qui, mi viene chiesto di togliere tutto emettere sullo stesso ripiano di prima. L’agente passa in rassegna gli effetti personali (ormai non lo sono più), dividendo sempre le cose che posso tenere da quelle che il regolamento esclude. Queste ultime vengono rimesse nella borsa e depositate in casellario (2), dove rimarranno fino al mio ultimo giorno di permanenza. le cose autorizzate, rimaste ammucchiate sopra il ripiano, mi vengono riconsegnate assieme ad un sacco di plastica nero (quello che si usa di solito per le immondizie), che devo riempire, mettendo tutto assieme, scarpe, mutande, camicie, fazzoletti, pantaloni, libri, etc. Sacco in spalla e raccolti i futuri strumenti di sopravvivenza, un cucchiaio e una forchetta in alluminio, un catino, una caraffa, un bicchiere e un piatto tutto rigorosamente in plastica, ci si avvia con l’occorrente verso "l’alloggio" dove trascorrerò il resto del tempo ad espiare la condanna che ho ricevuto. Dopo che mi hanno aperto e chiuso due cancelli, arriviamo alla cella e senza una parola mi viene indicato di entrare. Entro... sento chiudere alle spalle il cancello con la chiave che fa tre giri... un colpo al cuore, il mondo mi è caduto addosso, il futuro non c’è più, è buio, la famiglia è lontana, non so dove sono mia moglie e mio figlio, quando li rivedrò, i miei genitori cosa pensano, cosa stanno facendo, forse piangono, tutto scorre nel cervello alla velocità di fotogrammi cinematografici, sono avvolto in un silenzio profondo, pesante, grosso quanto un macigno che mi schiaccia la coscienza, che comincia a parlarmi, a chiedermi: "Cos’è successo, cos’hai fatto di tanto grave, come sei finito in questo posto, è forse un incubo?"...domande alle quali in quel momento non so rispondere. Mi guardo attorno e mi accorgo che quello che mi sta accadendo non e fantasia, non e un sogno, è realtà nuda e cruda, materialmente palpabile e maledettamente vera. È la fine di novembre, comincio a sentire freddo, ho freddo, mi metto una tuta. sportiva sotto i vestiti ma ho ancora freddo, mi stendo tremolante sopra una branda ormai rassegnato (ce ne sono due), mi copro con una coperta ma continuo ad avere freddo, cerco un’altra coperta che trovo sopra l’altra branda, l’ha dimenticata quello uscito ..da poco, la prendo e continuando a tremare mi ridistendo sulla branda coprendomi con tutte e due, il tremore è sempre forte, ma piano piano diminuisce e comincio ad avere un po’ meno freddo. È arrivata sera e mi rendo conto di non aver ne mangiato, ne bevuto... ma chi ha fame? Ora sono chiuso, ristretto, sono diventato un DETENUTO.
Il primo colloquio non arriva mai
Non basta essere detenuto, chiuso, limitato, ristretto nei propri diritti, c’è il pensiero sofferente che mi accompagna quotidianamente per i genitori, le sorelle, la moglie e il figlio, unici fili che alla pari di un cordone ombelicale mi tengono legato all’esterno. Unico elemento positivo che rimane, da cui poter attingere la forza per proseguire in questa drammatica situazione, è la FAMIGLIA. la legge prevede che sia un diritto del detenuto mantenere vivi i rapporti con la famiglia e permette di usufruire di quattro colloqui visivi al mese in via normale, più due colloqui visivi e due telefonate in via premiale (se fai il bravo), situazioni che io sfrutto completamente. Quei colloqui che aspetto con ansia da un sabato all’altro, per passare un’ora in compagnia di mia moglie e mia sorella. Un’ora che non arriva mai, poi come arriva in un batter d’occhio se ne va, lasciandomi con la nuova ansia fino al colloquio successivo. Mia moglie e mia sorella non sono mai mancate a nessun colloquio e sono le uniche che ho fatto entrare in carcere, i miei genitori non ho mai voluto che venissero. Per mio figlio invece, ci sono voluti quasi quattro mesi di dubbi e di perplessità condivisi con mia moglie, per decidere di farlo venire. Ogni volta, a colloquio con mia moglie, c’erano le solite domande: lo portiamo o non lo portiamo, facciamo bene o facciamo male, può influire o no sulla sua psiche, gli rimarrà qualche segno negativo o dimenticherà in fretta? Mia moglie ha chiesto consiglio agli assistenti sociali, al pediatra e allo psicologo, per capire se un bimbo cosi piccolo può ugualmente "immagazzinare" le immagini del carcere e faticare poi a liberarsene. Sono riuscito, dopo varie domandine al Direttore, ad ottenere per il colloquio la saletta privata. Era una condizione che mi ero assolutamente prefissato di ottenere, per rimanere esclusivamente tranquillo con lui, mia moglie e mia sorella. La saletta è una stanza di dimensioni pari a quelle di una cella, con le mura bianche, squallide, con due porte rosse quasi cieche, fornite di una piccola finestrella vetrata da cui ogni tanto le guardie possono sbirciare all’interno per vedere se ci sei ancora. Al centro un tavolino semplice con il telaio in ferro rosso, con sopra un piano in truciolare rivestito di formica bianca, ai lati due panchine, in alto al centro del soffitto un neon che illumina la stanza, altrimenti rimarrebbe completamente buia essendo senza finestre. È arrivato il sabato fatidico, dopo quattro mesi rivedo mio figlio che ho lasciato quando aveva 22 mesi. Ora ha due anni e due mesi, come sarà? . Si apre la porta, entra in braccio alla mamma, lo vedo un po’ assorto, non so se è lo stordimento dell’ambiente o perché in qualche modo non si ricorda più di me, del suo papà. Mi sembra un sogno, è cresciuto, è bello come il sole, lo prendo, lo abbraccio e lo copro di baci, la commozione mi crea un nodo alla gola e gli occhi lucidi, mia moglie mi vede e mi dice: "Mi raccomando, non piangere davanti a lui!". Mi trattengo perché non voglio creargli una curiosità negativa, ma devo fare uno sforzo notevole. Mia moglie allora mi suggerisce: "Chiedigli qualcosa, sai che adesso parla!" la situazione si smorza un po’ e allora io comincio a chiedergli: "Come stai?", dico io. "Bene!", mi risponde lui. "Sei diventato grande, eh... ?", continuo io. "Ci", mi dice lui. Capisco che la domanda per il suo limitato linguaggio è ancora complicata. Continuo: "Quanti anni hai?". "Due!", mi risponde alzando anche due dita della mano. Qui ho capito che in questi quattro mesi ha fatto passi da gigante, io mi sono perso e continuo a perdere tutti quei momenti di meraviglia che un bimbo piccolo produce mentre è alla scoperta di tutte le cose per lui nuove. Dopo il primo imbarazzo il colloquio procede; tra una parola con mia moglie, l’altra con mia sorella, gli chiedo: "Vuoi un cioccolatino?", e lui accetta mostrando la faccia soddisfatta con una smorfia di dolcezza. I cioccolatini, i biscotti e le brioches, sono tutti diversivi che mi sono procurato con la spesa, durante la settimana, per rendere meno pesante e più confortevole possibile l’incontro con lui. "Vuoi giocare con il papi?", continuo a chiedergli mentre sale e scende dalle panchine, sfoggiando tutta la sua energia, sotto l’occhio scrupoloso di tutti noi, attenti a che non si faccia male. Poi lo prendo in braccio e me lo metto a cavalcioni sulle spalle, suscitando così in lui gioia e felicità. Non mi sembra vero averlo lì, poterlo toccare, abbracciare, fargli le coccole, quelle coccole che gli facevo sempre quand’ero a casa. Il pensiero è triste ma, nello stesso tempo, sereno, ho la consapevolezza che questo è un bimbo fortunato, ha una miriade di persone (nonni e zii) che gli vogliono bene, in più ha una mamma d’oro, che con intelligenza e razionalità copre anche la carenza d’affetto provocata dalla mia assenza. Tra una chiacchiera e l’altra, siamo arrivati quasi alla fine del colloquio. lo non me ne sono nemmeno accorto, il tempo è volato e lui comincia a lamentarsi. In effetti è quasi mezzogiorno, l’ora in cui lui mangia e va a letto per il riposino pomeridiano. Ha mangiato cioccolatini e biscotti, è soddisfatto, manca il pisolino, così lamentandosi va verso una delle porte rosse e dice: "Papi, apri!... papi apri!" In questo momento mi prende in contropiede e con un sospiro per l’imbarazzo gli dico: "la chiave ce l’ha lo zio che ti aspetta fuori, fra un po’ viene e ti apre!". Ma mentre dico questo, sento un clic - clac, c’è l’agente che apre la porta, lui pronto fa per andarsene, ma non posso fare ameno di prenderlo al volo e prima di metterlo in braccio a mia moglie, dargli un altro bacio e un’ultima carezza, allora lui con la mano mi indica di dare un bacio anche alla sua mamma e uno alla zia, generosità che mi sorprende che lui abbia, così piccolo. Senza che lui insista prendo al volo il suo consiglio. È finito il PRIMO incontro con mio figlio in carcere.
Gianni
(1) È l’ufficio amministrativo di ogni carcere per il disbrigo delle pratiche, in cui vengono tenuti tutti i documenti giudiziari di ogni detenuto, a cui viene assegnato un numero, appunto la matricola. (2) Il casellario è il magazzino del carcere dove vengono depositate tutte le cose personali che non possono essere lasciate al detenuto da tenere nella propria cella, perché non previste dal regolamento carcerario.
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