Vita - 22 agosto 2003

 

La mia impossibile uscita dalle patrie galere

 

Un lettore di Roma ci ha inviato la seguente lettera. Una lettera dura ma reale, la pubblichiamo nella settimana in cui Ornella Favero si prende una meritata settimana di vacanza.

 

Cara Vita, vi racconto la storia di una persona che ho conosciuto, con le sue parole. Eccole: Ho avuto un’esistenza normale fin verso i 30 anni: studio, lavoro, matrimonio. Poi, mia moglie è morta in un incidente stradale del quale non ho saputo farmi una ragione. Stufo delle facce e delle frasi di circostanza di amici e colleghi, sono rientrato in Italia (vivevo negli Usa all’epoca). Preda della depressione, sono caduto nell’alcol, finché una sera, ubriaco, non ho ucciso un altro ubriaco, in una banale lite, primo e unico reato della mia vita. Condannato a 15 anni per omicidio "volontario" (sic), ne ho scontati 10 e spiccioli (come vede le carceri non hanno le porte girevoli come sostengono certi forcaioli, non con tutti almeno).

Quando sono uscito, ho trovato ad attendermi il vuoto: non avevo più casa, né famiglia, né parenti, né amici. Troppo lontani nello spazio quelli americani, troppo lontani nel tempo quelli italiani, lasciai l’Italia nel 1980. In una parola: GNENTE (per dirla come l’ho vista scrivere troppe volte in carcere). Niente.

Ho cercato di non perdermi d’animo: mi sono rimboccato le maniche, ma sono riuscito solo, grazie a traduzioni e qualche lavoro di ghost writer, a sopravvivere, dal punto di vista alimentare, mentre da quello abitativo passavo da una sistemazione di fortuna (gratuita) all’altra. In realtà non facevo in tempo ad appoggiare le mie cose da qualche parte che già dovevo cominciare a pensare a qualcos’altro. Questo, aggiunto al carcere, ha chiesto un prezzo da pagare. Ho avuto un ictus, un aneurisma nel cervello mi è esploso per ipertensione da stress. Non so per quale miracolo sono rimasto vivo, senza lesioni o cosiddetti deficit (in altre parole non sono rimasto cieco, né rincoglionito, non più di quanto già lo fossi).

Mi hanno riconosciuto il 70% di invalidità, ma serve a nulla. Continuo a vivere da emarginato. Da dieci giorni dormo per strada, mangio quando posso, cioè non molto spesso. Ho praticamente esaurito tutte le risorse. Anche perché a un certo punto non ce la fai più, e chi ti vuol bene non ce la fa più ad aiutarti. Ne posso passare tutto il resto della mia vita così. Mi sono rivolto a tanti per lanciare qualche appello, ma mi sono sentito rispondere "ce ne sono tanti nelle sue condizioni". Continuo io. Ho fatto qualche tentativo per aiutare il mio povero amico, ma senza successo: il Comune di Roma non fa niente. Tutti però aiutano gli stranieri. Nessuno si vergogna? Un invalido per strada e un marocchino forte e robusto dorme al coperto solo perché è riuscito a sbarcare sulle coste italiane? Ho votato a sinistra per anni, ma di fronte a queste cose non ce la faccio più.

 

Bruno Verni, Roma

 

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