Vita - 5 luglio

 

Si crea più sicurezza con l’affetto che non con la repressione

 

Ecco uno stralcio di una lettera aperta ai giornali "normali", dove i diretti responsabili dell’insicurezza sociale, quelli che sono in carcere, avanzano alcune proposte sensate sulla sicurezza.

 

Ornella Favero

 

Siamo i redattori di un giornale "anormale": anormale, perché realizzato da detenuti; anormale, perché si occupa seriamente di carcere e disagio, in un momento in cui si preferisce parlare di città sicure e basta; anormale, perché sulla sicurezza ha il coraggio di avanzare delle proposte e di chiedere di confrontarsi su quelle.

Siamo stati fra gli organizzatori, poche settimane fa, di una Giornata di studi dedicata al tema "Carcere: salviamo gli affetti", che ha richiamato a Padova, all’interno della Casa di reclusione, tantissime persone (più di 300) e pochi giornalisti. Da quella Giornata di studi è uscita una bozza di proposta di legge, elaborata da una commissione tecnica (c’erano parlamentari, magistrati, avvocati, operatori penitenziari, detenuti), che propone tra l’altro, anche per le carceri italiane, dei colloqui "intimi", senza controlli visivi, tra detenuti e famigliari.

Oddio, anche il sesso in carcere!, dirà più di qualcuno. Ebbene, per tornare al tema della sicurezza, vorremmo proporvi qualche osservazione meno superficiale: i colloqui "intimi" sono permessi in Paesi considerati civilissimi come l’Olanda, in Paesi cattolici come la Spagna, in Paesi considerati arretrati come un po’ tutto il Sud America, in Paesi considerati poco civili come l’Iraq, in Paesi considerati "saggi e razionali" come la Svizzera.

Ora, se l’insicurezza arriva da chi commette reati, è evidente che chi sta in carcere è la fonte prima dell’insicurezza passata e la fonte quasi certa dell’insicurezza futura, e le cifre, da questo punto di vista, parlano chiaro, c’è un 70 % di recidivi (se non di più) tra chi esce dal carcere.

Dunque, o ci trasformiamo in un regime, e teniamo in carcere a vita chi ha commesso una rapina, o siamo uno Stato civile, e dunque aggrediamo il problema da un altro lato, quello dell’effettivo reinserimento di queste persone nel tessuto sociale.

Due sono allora le proposte uscite dal carcere di Padova:

  1. far pressione perché sia presentata una proposta di legge (già 41 parlamentari di ambedue gli schieramenti si sono detti disponibili) che consenta ai detenuti e ai loro familiari degli incontri più umani in carcere;

  2. creare una rete di sostegno alle famiglie dei detenuti, che permetta loro una vita più dignitosa e il recupero dei loro legami affettivi.

 

La redazione di Ristretti Orizzonti, giornale dalla Casa di reclusione di Padova e dall’Istituto penale femminile della Giudecca

 

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