Vita - 25 gennaio 2002

 

 

Alle 15.30 del sabato vedo i miei, sono felice ma il distacco…

 

 

È difficile capire, per chi sta fuori, che cos’è, quanto conta un colloquio con i famigliari in carcere, come ci si prepara prima, come si sta dopo, quando i cancelli si richiudono dietro ai propri cari. Questa è una pagina del diario di Francesca, detenuta alla Giudecca, dove si sente, nella descrizione delle emozioni del colloquio, il passare inesorabile del tempo, l’ossessione di vedere come le ore non abbiano la stessa durata, come siano lunghissime quelle trascorse in cella, beffardamente brevi quelle trascorse con la propria famiglia.

Ornella Favero

 

L’attesa di poter avere un colloquio con i miei genitori e mio marito è la cosa fondamentale che mi tiene viva, viva solo per un’ora a settimana. Arriva il giorno tanto desiderato, sono sempre molto agitata e felice, mentre mi preparo già li vedo, li immagino proprio come di solito si presentano a me e io a loro. Sono in fibrillazione, il mio cuore batte forte, mi commuovo da sola, solo al pensiero di poterli vedere, abbracciare e sentirli vicini, scambiandoci come sempre tanto bene e solidarietà.

Il momento me aspetto è alle 15.30 del sabato, ma io sono sempre pronta prima davanti alla porta, passeggio e penso, li sento sono qui, vicino a me, una forte energia positiva mi sta avvolgendo.

Spero sempre di poterli vedere tutti in giardino, come è già accaduto due volte, perché il colloquio in giardino è molto più piacevole, lì possiamo abbracciarci, stringerci e loro possono quasi prendermi in braccio come una bambina, sì la loro bambina, mentre nella stanza colloqui è tutto più triste.

Mi accompagna l’agente, li vedo attraverso le sbarre terribili degli uffici, ci sorridiamo di gioia e con la mano accenniamo un saluto e un bacio. Finalmente aprono quella porta che ancora ci divide, tutti sorridenti ci corriamo incontro, c’è confusione, mio marito, mio padre e mia madre ci abbracciamo tutti, non riesco a credere a questo immenso piacere che ogni volta mi prende e mi travolge. Ci stringiamo le mani, con la gioia di essere vicini a esprimere tutto ciò che si reprime durante gli altri giorni. Loro mi parlano, mi guardano, io sono felice che siano con me, mi mancano già anche se sono lì. Il tempo passa molto velocemente, dopo aver condiviso con loro i pochi gesti di affetto ci riuniamo tutti vicini vicini, ma il tempo passa.. Parliamo di tutto, sempre mantenendo un contatto fisico. Chiedo all’agente quanto tempo abbiamo ancora, è poco, è troppo poco questo tempo.

Ora sento un’altra sensazione, la separazione forzata, il distacco, gli occhi che cambiano espressione, si incupiscono, esprimono la stessa forma di dolore: è ora di separarsi. Qualche volta mi sembra che sia inutile avere un’immagine, un’emozione, una sensazione che ti dà piacere, quando poi non è così.

 

Francesca, dal carcere della Giudecca

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