Vita - 21 dicembre

 

L’angoscia, l’impotenza, la solitudine di essere detenuto
e sentirti dire: "E’ morta tua madre"

 

Ieri in carcere mi è toccato fare una delle cose più tristi che possano capitare: andare da un detenuto e dirgli che nella notte era morta sua madre. Una notizia del genere è tragica sempre e in qualunque circostanza, ma comunicarla a una persona rinchiusa e dover stare lì, a guardare il suo dolore e la sua impotenza, e potersi permettere al massimo una stretta di mano e un abbraccio fugace, perché in carcere gesti di affetto tra volontari e detenuti non sono consentiti, è insopportabile.

Qualche tempo fa, facendo come al solito la messaggera di notizie quasi mai buone, perché in carcere è difficile che ti vengano a riferire con urgenza una cosa bella, avevo detto a M. che suo padre non stava molto bene, l’avevano ricoverato e poi dimesso, ma la sua salute andava peggiorando e, a ottant’anni, non si sentiva più tanto sicuro di poter rivedere il figlio. Lui, che non è nei termini per uscire in permesso, aveva tentato di avere un permesso speciale, con l’articolo 30, per gravi motivi famigliari, ma non glielo avevano concesso: il motivo non era grave abbastanza, suo padre non era "abbastanza" in pericolo di vita (l’articolo 30 dell’Ordinamento penitenziario parla di concessione di questi permessi: "nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente").

Ieri, quando ha capito che c’erano brutte notizie per lui, ha chiesto subito: "E’ morto mio padre?". E così, gli si è dovuto dire che no, non era successo a suo padre, era la madre, dei due la più forte e la più sana, che si era sentita male ed era morta così, all’improvviso. Un dolore inatteso e fortissimo per i parenti, ma se possibile ancora più forte e pieno di sensi di colpa per il figlio che da tempo la vedeva, sempre più raramente, solo nella sala colloqui di un carcere.

In mezzo a tanto dolore, bisogna poi cominciare, subito e angosciosamente, a occuparsi delle "miserie": il documento che attesti che la persona è morta davvero, la richiesta del permesso per andare al funerale, e soprattutto le modalità con cui verrà concesso. Il permesso di un’ora con la scorta in divisa, per esempio: ci sono famiglie, anziani genitori, gente stremata da anni di frustrazioni per avere un parente detenuto, che non se la sentono di affrontare un funerale con un figlio scortato dagli agenti in divisa. E come non capirli?

E poi il detenuto parte, nel furgone blindato, e arriva, spesso dopo un lungo viaggio, per un’ora e poco più di cerimonia, e via di nuovo, a "pernottare" nel carcere più vicino. E alla fine un viaggio di ritorno che a volte può durare tempi assurdi: ricordo il ritorno da Torino, dal funerale della madre, che è costato a un detenuto 40 giorni di viaggio (i trasferimenti avvengono a tappe: per esempio, Torino – Milano – Bologna – Padova, con soste di giorni nelle relative carceri cittadine) e alcuni chili persi per lo stress e l’affaticamento fisico e mentale.

Ecco, il carcere è anche questo: una pena che deve scontare il detenuto, ma che sconta troppo pesantemente tutta la sua famiglia, compreso quel padre che sente che suo figlio non lo riabbraccerà più.

E’ lecito allora domandarsi: ma davvero non esiste la possibilità di coniugare il carcere con un po’ di umanità? E di garantire almeno le condizioni per sopportare un lutto in modo decente?

 

Ornella Favero, Ristretti Orizzonti

 

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