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Come sanare le fratture prodotte dai reati La pena va gestita tenendo in considerazione la naturale aspirazione del condannato a ricostruirsi un futuro, ma anche la posizione delle vittime
di Giovanni Maria Pavarin Magistrato di Sorveglianza di Padova, ottobre 2006
Un tema di grande importanza su cui dovremmo soffermarci tutti quanti, è quello che andrebbe sotto il titolo di “giustizia riparativa”. È opportuno sottolineare, anzitutto, che il termine “riparativa” è un aggettivo che deriva dal verbo riparare, il cui significato è porre rimedio, ed è del tutto evidente che si può porre rimedio soltanto a qualcosa che si è rotto. Se nulla si fosse rotto, infatti, non ci sarebbe alcunché da riparare, mentre il reato produce a tutti gli effetti una frattura. Anzi, una serie di fratture. La prima delle quali avviene nella persona stessa che l’ha compiuto, rompendo la sua armonia personale e il suo rapporto con la comunità di cui fa parte. E ciò è tanto più vero quanto più il reato è grave, per le ricadute pesantissime (altre fratture, quindi) che esso ha a livello di rapporti familiari. C’è poi fatalmente la rottura con la vittima, perché tutti i reati hanno una vittima. E non mi riferisco soltanto alla persona fisica che il reato ha direttamente colpito, perché vittima necessaria e costante di ogni reato è anche lo Stato. Sì, lo Stato. Certo, il rapporto che si ha con lui – e la rottura che per via del reato ne consegue – è diverso, perché lo Stato non lo si incontra per strada, non gli si stringe la mano, non lo si vede neppure… Lo Stato è un’idea astratta, che rappresenta però l’insieme di tutti noi: quando infrangiamo una sua legge – per quanto ci possa sembrare sbagliata, o discutibile – rompiamo perciò il rapporto che ci lega a quell’insieme, e quindi rompiamo con lo Stato, facendone una nostra vittima. Se io dovessi rompere la testa a qualcuno, insomma, la mia vittima non sarebbe solo la singola persona che ho colpito, ma anche lo Stato, che ha interesse a che non si rompano le teste degli altri. Con la definizione “giustizia riparativa”, dunque, si indica l’insieme di tutti i concetti, le idee, le pulsioni e quant’altro serva a far sì che la giustizia, quando si afferma, tenga in considerazione anche le necessità di riparare queste fratture che riguardano, ripeto, l’autore stesso del reato, i suoi familiari, le singole vittime e lo Stato. È un tema non nuovo, ma su cui si pone l’accento con particolare intensità da qualche anno; da quando, cioè, tutte le amministrazioni europee hanno cominciato a sottolineare con maggior forza la necessità che venga data al condannato una possibilità di rivincita, di riscatto; che possa essere messo nella condizione di capire che ha sbagliato e di organizzarsi per non sbagliare più. In definitiva, di essere considerato una persona diversa da quella che è stata in passato. Questa impostazione non è però ben vista da tutti, e ad essa si oppongono soprattutto le vittime di reato. Non sono disposte ad accettare, in particolare, che chi un giorno le ha offese possa uscire dal presidio del carcere senza che loro siano state neppure avvisate, contattate, interpellate. Anzi, senza che siano state neppure “considerate”. E proprio per contrapporsi a questa tendenza hanno dato vita a un’Associazione europea delle vittime le cui pressioni hanno indotto l’Unione Europea a emettere una direttiva, destinata a tutti gli stati membri, in cui, tra l’altro, li si invita a disporre per legge che non vengano concesse ai detenuti misure alternative senza avere prima preso in considerazione le ragioni delle vittime. Dico questo per farvi capire quanto potente sia diventato il movimento posto in essere in questi anni dalle vittime, ma anche perché voi vi rendiate conto che reazioni del genere sono del tutto naturali, logiche. Provate a fare uno sforzo di fantasia e a immaginare di essere stati voi stessi, o le persone a voi più care, vittime di reati, e vedrete che avreste anche voi questo moto istintivo: “Ma come, quello lì ha violentato mia moglie e dopo dieci anni già me lo trovo per strada?”. La pena, insomma, è una cosa che va gestita tenendo sì in conta la naturale aspirazione del condannato a ricostruirsi un futuro, ma anche la posizione delle vittime, che hanno diritto a pretendere di essere prese in considerazione. Seguendo quest’impostazione anche da noi, in Italia, è stata restituita tutta la sua importanza a una norma che in passato era stata un po’ trascurata. Mi riferisco all’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario, in cui sta scritto che quando il Tribunale di Sorveglianza concede la misura dell’affidamento, per esempio, deve - e non “può” - imporre al condannato di riparare il danno. Nell’affrontare questo argomento dobbiamo tener conto, però, delle reali condizioni economiche dei detenuti che attualmente affollano le carceri italiane. Ce ne sarà senz’altro qualcuno che ha i miliardi nascosti, ma la mia sensazione è che per la maggior parte hanno perso quello che avevano guadagnato, ammesso che avessero davvero guadagnato qualcosa, perché c’è anche gente che va in carcere per reati che non hanno implicato guadagni. Il significato dell’obbligo di risarcire il danno supera quindi l’aspetto puramente economico, specialmente nei casi in cui un risarcimento di questo tipo effettivamente non ci può essere, e acquista il valore di riparazione morale, inducendo il detenuto a esercitare il diritto-dovere di riscattarsi, di riabilitarsi, di migliorarsi, di pentirsi, di cambiare, di riorganizzarsi.
Bisogna riannodare un filo, che riavvicini le persone che sono state offese e quelle che hanno offeso
Parlando di giustizia riparativa in questi termini, ci avviciniamo necessariamente anche al concetto di mediazione penale, in quanto mediazione significa mettere insieme, tentare di avvicinare i due estremi di una situazione di grave contrasto, i poli opposti di uno stato di tensione, di contrarietà. E voi dovete capire che se cominciamo a pensare anche alle vittime, avviando un discorso che in qualche modo lega, che riannoda un filo, che riavvicina e instaura un rapporto tra le persone che sono state offese e quelle che hanno offeso, inneschiamo un processo importante e virtuoso. Certo esistono casi in cui una simile opera di mediazione non è possibile, perché la persona che ha subito il danno non ha alcuna intenzione di entrare in contatto con chi l’ha danneggiata, e non si può evidentemente andare contro la sua volontà. Ma il fatto di non poter esercitare l’obbligo risarcitorio a favore della persona offesa non lo annulla: in queste situazioni, esso deve essere riversato a favore della collettività (facendo gratis qualcosa a favore di persone bisognose, oppure di Enti che si occupano di attività socialmente utili), in base al principio prima accennato dello Stato vittima necessaria e costante di ogni reato. La regola, comunque, è che chi ha tolto debba restituire – e con gli interessi, come prescrive la legge – quello che ha tolto. Anche se in proposito va detto che gli strumenti a disposizione dello Stato non sono poi molti, nel senso che se un tizio ha rubato dieci miliardi e dice di averli spesi però tutti in donne e droga, non è facile dimostrare il contrario e fargli risarcire materialmente il danno, se quei soldi non si trovano o sono finiti in fumo per davvero. Per quel che riguarda la mia esperienza, sono convinto che la cosa migliore sia comunque aprire un confronto franco, con il detenuto, e credergli quando buon senso e ragione suggeriscono di credergli. Se uno si conquista un minimo di credibilità, dimostrandosi sincero, deve essere creduto. Anche perché quando entrano in carcere le persone in genere sono abbastanza “nude”, perlopiù abbandonate dai loro stessi familiari e dall’avvocato, che dopo la sentenza si è limitato a chiedergli il pagamento della parcella per poi sparire. Certo a renderle “nude” contribuisce anche il traumatico effetto provocato dall’ingresso in questo casermone strapieno di gente, e l’angoscia di sentirsi la vita spezzata, ma io ho la convinzione che i detenuti che parlano con me – non sempre già al primo colloquio, ma al secondo o al terzo sì – siano sinceri. Sia quando – ed è la maggioranza dei casi – dicono di non avere più soldi, sia quando invece ammettono, e succede, di avere del denaro da parte. In tema di funzione rieducativa della pena, vi do una notizia che certo non vi farà piacere. Il 22 giugno 2006 la Corte costituzionale ha bocciato l’indultino, dicendo in sostanza – senza che ripeta le venti pagine della sentenza – che il magistrato lo può concedere solo nei casi in cui sussistano effettive condizioni di rieducazione. Quindi il magistrato deve attenersi ai parametri dell’articolo 27, concedendo l’indultino se uno dimostra di essere rieducato e negandolo, invece, se non ci sono chiari segnali in tal senso. E fra i parametri che il magistrato deve tenere in considerazione, nel formulare la sua valutazione, c’è appunto il tipo di sensibilità che il detenuto ha maturato nei confronti della persona offesa e la sua disponibilità a mettersi in contatto con essa per chiedere scusa, magari scrivendo una lettera. Non deve stupire, del resto, che con l’andare del tempo si accentui sempre più la tendenza a concedere i benefici solo nei casi in cui risultino effettivamente guadagnati, con il comportamento ma più ancora con una sincera revisione critica del proprio passato. Fuori, nella società, spira infatti un’aria tutt’altro che favorevole nei confronti delle persone detenute, e più aumenta il numero dei detenuti ammessi ai benefici penitenziari che rientrano in galera per aver commesso gravi infrazioni, se non addirittura nuovi reati, più la società si ritrae, più le vittime si ribellano e si coalizzano nella richiesta che non vengano concesse ulteriori chance a chi ha sbagliato. È in questo clima che è nata la legge ex-Cirielli, che come sapete impone un deciso stop a chi ha già sbagliato tre volte nel proprio passato; uno stop praticamente automatico, in caso di commissione di un nuovo reato, anche se va detto che la Corte costituzionale – con un’altra sentenza di qualche giorno fa – ne ha smussato un po’ i rigori, riportando a metà (anziché ai due terzi, come fissato dalla ex-Cirielli) il periodo di pena scontata necessario per accedere alla semilibertà per chi era nei termini entro il dicembre 2005. Si tratta di un piccolo ritocco, in positivo per i detenuti recidivi, che sostanzialmente non intacca però lo spirito di una legge che risponde, inasprendo le pene e rendendo meno accessibili i benefici, a un indubbio clima di tensione e di allarme sociale.
Quella dei parenti è una categoria di cui nessuno parla mai, eppure sono anch’essi vittime
Che si punti a sottolineare sempre di più l’aspetto rieducativo della pena, per me è però un fatto positivo, importante. Perché se uno si fa una carcerazione fatta bene è difficile che torni in carcere una volta che ne esce, tant’è che le carceri sono sempre più piene di gente che non c’è mai stata, prima, o di gente che c’è stata ma che dalla carcerazione non ha saputo ricavare alcun frutto. Se uno fa una carcerazione fatta bene, e – ripeto – fatta bene significa sanare tutte le fratture che abbiamo prodotto con il nostro reato, è difficile che non trovi in sé le risorse e le energie per costruirsi una vita nuova, che lo tenga al riparo da nuove tentazioni delittuose. Vorrei però tornare – a proposito di fratture da sanare – a quelle che riguardano i parenti, perché quella dei parenti è una categoria di cui nessuno parla mai, eppure sono anch’essi vittime, almeno nei casi – e sono certamente la maggioranza – in cui non sono essi stessi complici, né assistono in maniera passiva alla commissione di reati. Perlopiù non sanno quello che combinano il marito, la moglie, il figlio, il papà; lo vengono a sapere dopo, e nessuno pensa alle loro lacrime, nessuno pensa che hanno anche loro bisogno di tutela. Provate a pensare in che situazione viene a trovarsi un figlio che si trova da un giorno all’altro il padre in carcere, con l’accusa di avere commesso una sfilza di reati. Senza avere nessuna colpa, e anzi proprio nel momento in cui avrebbe più bisogno di solidarietà, viene emarginato dagli amici, dai compagni di scuola, tutto per lui diventa più difficile, più amaro. A quel figlio non si può non pensare, nella logica di una giustizia che sia davvero riparativa. A partire anche dal momento cruciale in cui si decide se dirgli la verità o blandirlo con una rassicurante bugia. Mi rendo conto perfettamente di quanto sia difficile dire a un bambino “tuo padre è in carcere”, per cui non posso che provare comprensione per chi si ostina a tirare avanti nel tempo con patetici sotterfugi, tipo “papà è via per lavoro, è all’estero e fra un po’ torna…”. So però che, prima o poi, la verità vera viene fatalmente a galla, col rischio che il bambino venga a conoscerla dalle persone meno indicate e nelle situazioni più sbagliate. Meglio allora – così almeno consiglio io, quando mi viene chiesto il mio parere – puntare alla massima confidenza, almeno nei casi in cui il bambino ha l’età per poter capire. Per quanto possa essere traumatica, la verità apre tuttavia un processo di riflessione, di maturazione, e alla lunga si rivela sempre meno dannosa della bugia sistematica. Non puoi dire per cinque anni di fila “papà è all’estero”… E chi ti crede più? Ma non solo con i figli, con tutti i parenti bisogna dire la verità. Anzi, nei confronti dei parenti adulti è un vero e proprio imbroglio ostinarsi a mentire proclamando la propria inesistente innocenza. Mi è capitato di sentirmi dire da qualche detenuto “Dottore, la prego, non dica a mia moglie…”, e poi di essere visitato una volta al mese nel mio ufficio da quella moglie, che continuava a protestare l’innocenza del marito nonostante io avessi sul mio tavolo, a sua insaputa, la sentenza in cui lui rendeva piena confessione. Ma che senso ha? Perché continuare a imbrogliare, a imbastire discorsi che non stanno in piedi? Così si imbroglia la vita. Tanto vale dire le cose come stanno, e da lì ricominciare. La verità, con se stessi e con gli altri, è la prima pietra del cammino verso una vita diversa. |
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