I conti con il proprio passato non finiscono mai

Imparare a capire che cosa tiene unita una società

Alcune riflessioni del laboratorio di scrittura di Rebibbia N.C., a partire dalla consapevolezza che il colpevole non dovrebbe essere lasciato da solo in questo processo di ripensamento e cambiamento

 

di Luciana Scarcia

dell’associazione “A Roma Insieme”, 

docente del Laboratorio di lettura e scrittura

della Casa circondariale di Roma Rebibbia, giugno 2008

 

Il convegno del 23 maggio “Sto imparando a non odiare” è stato una straordinaria occasione di riflessione, utile sia per chi vive o opera in carcere sia come contributo al dibattito sulla riforma del diritto penale.

Ho voluto perciò riproporre il tema dibattuto a Padova ai detenuti che frequentano il Laboratorio di scrittura di Rebibbia N.C. Della discussione che ne è nata mi hanno colpito due cose. Innanzitutto la profondità (dolente) delle loro considerazioni, a conferma di quanto sia stimolante il tema proposto, poi la lucida (e amara) consapevolezza che, ragionando sul piano dei destini personali, i conti con il proprio passato non finiscono mai, anche quando lo Stato pone la parola fine all’espiazione della pena.

Che cos’è giustizia? - è stata la domanda centrale. La giustizia come idea di bene da riaffermare non può esaurirsi in quella dei tribunali, ma deve essere considerata come una visione di rimedio al male fatto o subito e come un ideale cui tendere. Questo implica – come ha detto e scritto Ornella Favero – “assunzione di responsabilità” o – se vogliamo usare una parola pericolosa ma sempre dotata di senso – “pentimento”. Durante il convegno le parole di Silvia Giralucci “Si può diventare un ex-terrorista ma mai un ex-assassino” sono risultate particolarmente dure per chi è autenticamente convinto di aver preso la distanza dal passato di terrorista cambiando radicalmente vita. Eppure quelle dure parole sono profondamente vere: il male commesso è irrimediabile – tanto più se si tratta di vite umane – ; né possono bastare la pena espiata o la convinzione soggettiva di aver pagato con il dolore. D’altra parte, però, se la società non riconoscesse all’autore di reato il diritto a rimediare, sarebbe una società dura, improntata alla logica di vendetta (che non risparmierebbe nessuno, perché non esistono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra).

La faccenda non può essere impostata secondo una logica oppositoria: o il diritto alla riparazione del reo o il diritto al risarcimento della vittima. Certo, le parole “irrimediabilità” e “riparazione” sono antitetiche, ma non è forse tutto il diritto fondato sulla necessità di comporre gli opposti, di mediare tra bisogni ed esigenze diversi? Quello che serve è lo Stato che, come terzo, interviene a ristabilire il principio, promuovendo una mediazione tra diritti opposti.

La carcerazione, con le sue conseguenze, non può essere l’unica risposta che lo Stato dà per riparare al male commesso: l’espiazione comprende, oltre alla pena, anche la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità (che è poi l’idea della rieducazione affermata dalla Costituzione). Nella discussione a Rebibbia è stato detto che forse la giustizia vera non può esistere perché come si fa a restituire una vita tolta, o cancellare l’offesa materiale e morale di chi subisce la violenza di una rapina? Ma ci si può avvicinare all’ideale della giustizia con la riparazione che richiede, all’autore di reato, consapevolezza, accettazione delle conseguenze delle proprie azioni, comprensione delle ragioni e intenzione di cambiare. Alla domanda provocatoria: “Se l’uomo è libero delle proprie scelte e paga il debito con la società tramite l’espiazione della pena, perché lo Stato deve pretendere il pentimento?” è stata data una risposta molto netta: “Perché è l’unica moneta di scambio che può consentire il reinserimento nella collettività”.

Però il colpevole non dovrebbe essere lasciato da solo in questo processo di ripensamento e cambiamento: non è giusta una società che non provvede ad accompagnare questo processo di espiazione e assunzione di responsabilità, ma purtroppo pare che in questi nostri tempi la mentalità comune si stia allontanando sempre di più da questo compito e che, anzi, il governo vada in tutt’altra direzione.

Nell’interrogarci se sia davvero l’odio il movente del crimine (ricordando le parole di Casalegno secondo cui i terroristi che hanno ucciso suo padre non necessariamente odiavano la vittima, questa era un “obiettivo”) abbiamo concluso che la questione è molto più complessa, che l’odio spiega molto ma non tutto. È odio verso una persona quello che spinge il tossicodipendente a rapinarla? E che contorni ha la vittima del trafficante di droga? Forse il messaggio chiave del convegno “Sto imparando a non odiare” potrebbe essere declinato in modo diverso: “Sto imparando a capire che cosa tiene unita una società”. Ho trovato perciò molto utili le parole di Manlio Milani quando ha detto che, ritornando nella piazza della strage di Brescia, ha trovato quella solidarietà che esprimeva il senso dell’impegno contro la violenza, recuperando così il senso della sua vita. O le parole di Giuseppe Soffiantini che ha ricordato la necessità di insegnare che la vera libertà è di non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Ecco, in queste due testimonianze io ho trovato il senso della giustizia o, meglio, della riparazione.