È importante che Pietro Maso sappia ritrovare non solo il senso della legalità, ma anche la misura di ciò che è positivamente umano

Dopo che ha liberato in sé la bestia che, nell’incarnazione che l’uomo ne dà, a volte è la più feroce, ora può mostrare, a se stesso e alla società che parzialmente lo riaccoglie, chi sia infine diventato, quale cammino abbia percorso

 

di Gianfranco Bettin, novembre 2009

sociologo e scrittore

 

La polemica sulla semilibertà concessa a Pietro Maso, il ragazzo che anni fa con altri tre coetanei ha ucciso il padre e la madre per avere l’eredità, è probabilmente inevitabile. La sua storia è talmente estrema, la sua colpa così al limite del comprensibile stesso, l’eco che ha suscitato ancora non spenta malgrado i diciassette anni trascorsi dal delitto, che era prevedibile che una notizia del genere colpisse l’opinione pubblica e provocasse reazioni critiche.

Eppure, se c’è una storia che mette alla prova ciò che la nostra Costituzione prevede, e cioè che il carcere, la pena, siano finalizzati al recupero del condannato, questa è proprio la storia di Maso. Entrato in carcere giovanissimo, per quindici anni Pietro non ha avuto neanche mezza giornata di permesso, e le pochissime godute dopo di allora le ha trascorse in una comunità di recupero. Seguito da vicino da persone sensibili e accorte e da operatori capaci, ha trascorso tutti questi anni conservando sempre un atteggiamento sobrio e riservato. Non ha giocato a fare il personaggio, come avrebbe potuto e come gli è stato spesso proposto (anche in cambio di lauti guadagni, oltre che di una visibilità che sempre, infine, paga comunque, in un Paese volgare, pettegolo e morboso come spesso è il nostro). Al contrario, è sembrato, sia pure faticosamente e, probabilmente, con sofferenza interiore, guadagnare una sorta di equilibrio, di maturità.

Ora, appunto, dopo molti anni, si prospetta per lui quella finestra di opportunità, quella mezza libertà – se può esistere una libertà dimezzata – in cui mettere alla prova se stesso, in cui mostrare a se stesso e alla società che parzialmente lo riaccoglie chi sia infine diventato, quale cammino abbia percorso.

È alla luce di quanto prescrive la Costituzione, ma anche di quanto è opportuno concretamente fare, che le polemiche non hanno in realtà gran senso. Se, infatti, la reazione emotiva di molta gente è appunto comprensibile, non lo sono affatto le strumentali polemiche sollevate da chi dovrebbe avere ben chiaro quanto prescrive la nostra Carta fondamentale e cosa è davvero utile fare per preparare il ritorno alla vita comune di chi, comunque, fra non molti anni (avendo ormai scontato la gran parte della pena) uscirà dal carcere. La semilibertà è, dunque, anche un mezzo per far riprendere una strada normale a un reo che ha scontato in gran parte la condanna e che non dovrebbe essere rigettato fuori senza una preparazione adeguata, che riguarda in primo luogo lui, ovviamente, ma che non può essere elusa dalla stessa realtà esterna. In poche parole, è meglio che ci si riabitui tutti all’idea che Pietro Maso prima o poi – ormai abbastanza “prima” che poi – tornerà libero ed è meglio per tutti che ciò avvenga con gradualità e come compimento di un percorso evolutivo, di maturazione, piuttosto che al mero termine di un tempo di reclusione trascorso senza cambiamenti e concluso senza prospettive.

Il minimo che ci si possa attendere da questa prova è che Maso sappia ritrovare non solo il senso della legalità ma anche la misura di ciò che è positivamente umano, dopo che ha sperimentato in sé, anzi, dopo che ha liberato in sé la bestia che, come sappiamo, nell’incarnazione che l’uomo ne dà a volte è la più feroce.

Se, poi, la storia sarà anche una bella e importante storia di redenzione, ebbene, ancor meno avranno avuto senso le polemiche e i timori e saremmo di fronte a ciò che, davvero, di più felicemente umano, e di più coerente con le leggi supreme della nostra civiltà, può accadere.

 

Eredi

 

da Pietro Maso a Erika e Omar

di Gianfranco Bettin

 

Io ho pubblicato un libro che riguarda Pietro Maso, ma anche altri giovani protagonisti di reati gravissimi: Erika e Omar che hanno ucciso la madre e il fratellino di Erika, per rabbia probabilmente. Sono delitti molto diversi, tremendi entrambi, molto diversi perché Pietro Maso uccideva per avere delle cose, Erika e Omar hanno ucciso “per essere liberi”, non riuscivano ad immaginarsi un altro modo per essere liberi e per vivere da soli autonomamente, e hanno finito per commettere questo delitto tremendo.

Ma se noi li inchiodassimo per sempre a questa storia, in qualche modo inchioderemmo anche una parte della nostra società per sempre, quindi abbiamo un doppio problema, capire che cosa è successo, e capire cosa succede dopo, e per esempio la scrittura, l’arte hanno il compito di raccontarlo. Diciamo allora che la nostra parte emotiva è colpita violentemente, la nostra parte intellettuale, che ragiona, ha invece il compito di dire: bene, cerchiamo di capire cosa è successo, e cerchiamo di vedere cosa succede adesso, a loro, alle vittime, che se sono sopravissute hanno bisogno di essere risarcite, riaccompagnate a superare le paure che rischiano di restare per sempre, ma anche cosa succede alla nostra società, alla nostra comunità. Quindi il compito di chi racconta questi episodi, di chi si interroga su cosa succede dopo questi episodi è molto importante, per cui è molto importante capire quali risorse una società mette a disposizione per fare questo ragionamento, per ragionare su queste esperienze, ma anche poi per agire concretamente. Questo poi è il ruolo degli Enti locali, di chi amministra la giustizia, dei volontari, ma è anche un compito che abbiamo in qualche modo tutti.