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Un’esperienza culturale che mi ha arricchita molto
Ho sentito che avrei voluto impegnarmi nel volontariato, senza però avere chiaro a quale settore del sociale mi sarei rivolta. Avevo solo un gran desiderio di prendermi cura della verità della condizione umana, che andasse oltre il mio ambito familiare
di Gabriella Brugliera, volontaria di Ristretti, luglio 2005
Ahmet, come sempre singolare nei suoi interventi, nel mezzo della discussione-commemorazione per l’uscita del 50° numero di Ristretti Orizzonti, butta là una domanda succinta, però per me anche molto significativa: “Sono solo curioso di farmi dire da voi detenuti qual è stata la molla che vi ha spinto a voler portare all’esterno le vostre esperienze; e inoltre che cosa ha spinto i volontari della redazione ad avvicinarsi al mondo del carcere, in particolare, e soprattutto al volontariato”. Io che normalmente ho difficoltà ad intervenire, sia per un senso di inadeguatezza, sia perché mi sembra sempre che gli altri abbiano cose da dire molto più interessanti delle mie, ho sentito che avrei voluto cogliere ad ogni costo questa occasione per comunicare le motivazioni che mi hanno spinto ad impegnarmi nel volontariato, senza però avere un’idea chiara a quale settore del sociale mi sarei rivolta. Avevo solo un gran desiderio di prendermi cura della verità della condizione umana, che andasse oltre il mio ambito familiare. Entrare in una struttura del volontariato mi metteva tuttavia timore; intuivo che avrei dovuto adeguarmi ad una disciplina ed alla logica per cui, io donna, mi sarei forse trovata a fare quello che ci si aspetta che una donna faccia: occuparmi di mansioni di cura e di assistenza, mentre io volevo mettere in gioco le competenze di organizzazione e la capacità di mediazione che avevo guadagnato con il mio lavoro (e che adesso comunque ho un po’ perso). Volevo misurarmi in un compito sociale, non tecnico e ripetitivo, secondo le mie vere capacità, sapevo inoltre che non avrei dovuto aspettarmi alcuna gratificazione come ritorno: aver bisogno, infatti, è una verità della condizione umana, perciò non c’è umiliazione nella dipendenza, né ha senso la pretesa di gratitudine da parte di chi si prende cura di tale verità. Nei momenti più “ideologizzati” della mia vita, anch’io, come molti altri, ero convinta che, prestando volontariamente la propria opera, ci fosse il rischio di avallare l’inefficienza dello Stato, ma ben presto mi sono resa conto che questo ci ha portato a diventare più indifferenti, disponibili a manifestare in piazza per la pace, o in solidarietà di un popolo, ma incapaci di un vero gesto generoso. Ho quindi cercato di lavorare dove il mio sentimento mi spingeva con maggior forza: i bambini, nei campi nomadi, sempre i bambini in comunità di madri tossicodipendenti che si sottoponevano ad un percorso di recupero per ottenere la patria potestà, e proprio per l’esperienza acquisita con i bambini emarginati, mi è stato chiesto se fossi disponibile ad entrare in carcere alla Giudecca dove c’erano alcune madri detenute con i figli. Da qui è incominciato il mio percorso in carcere: ho conosciuto Ornella, le ragazze della redazione, ed ho incominciato ad identificare attraverso i loro scritti, i detenuti della redazione “maschile” di Ristretti. Ho capito immediatamente che questa era davvero un’esperienza di forte impegno e soprattutto un’esperienza culturale che mi avrebbe arricchito. Ho quindi chiesto alla “Capa” se sarei potuta entrare nella redazione di Padova. E questo è tutto, ma proprio tutto. |
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