Il punto di vista di un’insegnante che lavora con la scrittura autobiografica e memoriale

Affrontare temi che scottano, come del resto scotta la vita

È la scommessa di Ristretti Orizzonti, costruire un pensiero critico: quello che nasce dopo aver soppesato i fatti e le situazioni, elencato il già detto, il già scritto sui diversi giornali e il trasmesso sugli schermi televisivi, e aver anche radiografato esperienze personali prima di emettere un giudizio

 

di Adriana Lorenzi, giugno 2008

scrittrice, formatrice, conduce laboratori

di scrittura autobiografica nelle carceri

 

Non so se dipende dal fatto che lavoro con la scrittura autobiografica e memoriale e che invito chi partecipa ai miei laboratori di scrittura a rammemorare, ma so per certo che amo i festeggiamenti che vogliono ricordare il tempo trascorso, celebrare uno o più lustri di un’attività. La posta in gioco non è lo stordimento offerto dalla festa, ma la costruzione della memoria di ciò che è stato fatto perché il rischio, sempre in agguato, è quello di diventare estranei a se stessi, ai propri gesti e alle proprie parole. Forse anche di perdere di vista i valori e gli scopi dai quali e per i quali è nata un’iniziativa, si è costituito un gruppo di lavoro: in questo caso, una Redazione e una rivista, Ristretti Orizzonti, che da dieci anni cerca di fare informazione dal carcere sul carcere dalla Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova.

Dieci anni non possono che essere tempo di bilancio per recuperare le radici della spinta iniziale, misurare il fusto che è cresciuto, si è irrobustito e ammirare la chioma di rami e foglie svettanti nell’aria e verso il cielo. L’albero della libertà è cresciuto non solo a Venezia come ci ha raccontato Adriano Sofri[1], ma anche dentro le carceri padovane a indicare che i detenuti vogliono continuare a vivere e a pensare anche dietro le sbarre. La rivista Ristretti Orizzonti di anno in anno, di numero in numero mira a mostrare che i detenuti sono persone che devono e vogliono vivere dentro la realtà che abitano e rispondere al mondo aldilà della pena da scontare.

Ho raccolto l’invito di Ornella a scrivere qualcosa per questo decennale perché sono grata alla Redazione tutta e, ammetto, a lei in particolare per come scrive, argomenta e costringe ad affrontare tematiche che scottano come del resto scotta la vita, senza rimandare nulla a domani. La scommessa è altissima: resistere alla crudeltà del mondo senza demonizzare alcune persone, piuttosto cercando di comprendere e di ovviare alle derive umane. Niente accade così dall’oggi al domani, ma ogni cosa si prepara lentamente situazione dopo situazione, comportamento dopo comportamento. Prestare attenzione ai segnali diventa allora fondamentale, perché uomini e donne non compiano quei gesti che li legano alla robusta corda dei “se”… “Se le cose fossero andate diversamente… io non sarei qui”. Intanto i cancelli della galera restano sprangati dietro le loro spalle.

La memoria è la facoltà di serbare l’esperienza, di accatastarla come legna per il fuoco delle stagioni più rigide, opponendosi quindi alla dispersione, alla cancellazione, alla consumazione.

In tedesco, scrive Christa Wolf[2], c’è una radice comune che fa derivare il verbo “denken” (pensare) a “gedenken” (ricordare, commemorare) e a “danken” (ringraziare, essere grati). Che è come ipotizzare una sorta di stretta parentela, di indissolubile legame tra il pensiero, il ricordo e il ringraziamento: penso, rammemoro e nel contempo pronuncio il mio grazie per il tanto che è stato fatto per prendersi cura delle parole, delle testimonianze, smorzando gli stereotipi sulla detenzione e

il male che si annida nelle carceri. Questo è quello che vorrei fare per Ristretti Orizzonti con queste mie parole perché, quando ritiro dalla cassetta della posta la mia copia, già sorrido: so che molti punti di domanda affolleranno il mio cervello insieme a nuovi azzardi del pensiero e che i pezzi mi accompagneranno per giorni e popoleranno, in alcuni casi, anche le mie notti. Non smetto però di compiacermi dell’esistenza di una Redazione che ho il privilegio di poter frequentare ogni tanto.

La Redazione è una stanza grande ingombra di tavoli e computer. Quando ci arrivo che sia di mattino o di pomeriggio c’è sempre qualcuno: chi sbobina qualche registrazione, chi batte con vigoria le sue mani sulla tastiera del computer. C’è Elton che mi saluta con il suo sguardo azzurro dietro le lenti degli occhiali e Franco che mi allunga un caffé bollente. Ma la stanza si anima davvero quando tutti sono seduti attorno al tavolo, detenuti, volontari, mentre Ornella, a capotavola (se fosse una tavola imbandita), propone l’argomento della discussione che immediatamente si accende. Si infittisce la cortina di fumo man mano ci si addentra nella questione: affettività in carcere… Erika sorpresa a sorridere mentre giocava a pallavolo e immortalata in una fotografia capace di sdegnare l’opinione pubblica… l’indulto… carcere e scuola. Ornella modera, impone il silenzio, dà la parola. Qualcuno si indispettisce, qualcuno alza la voce, uno parla e l’altro gli risponde e io avverto che si sta costruendo qualcosa di invisibile e imponente insieme. Un pensiero critico: quello che nasce dopo aver soppesato i fatti e le situazioni, elencato il già detto, il già scritto sui diversi giornali e il trasmesso sugli schermi televisivi, e aver anche radiografato esperienze personali prima di emettere un giudizio.

 

Costruire dei ponti tra la parte irregolare e quella regolare di questa nostra società

 

In Redazione si formulano diagnosi delle situazioni prese in esame, si prova a comprendere e si esprime un’opinione propria. Ed è per questo che amo questa stanza dove si cerca di non dare nulla per scontato, per costruire al meglio dei ponti – a volte fragilissimi – fra il dentro e il fuori, tra la parte irregolare e quella regolare di questa nostra società, per prendere posizione, smussando, per come e per quanto possibile, gli angoli del vittimismo, del rancore, della rabbia, del desiderio di rivincita, dell’idea astratta di delinquenza e detenzione.

Senza questo lavoro che dura da dieci anni non sarebbe stato possibile arrivare al convegno dello scorso 23 maggio che ha riunito un pubblico consapevole di quanto fosse importante, delicato e necessario quell’appuntamento che solo Ristretti Orizzonti poteva offrire: Sto imparando a non odiare. Forse, adesso che ci penso, non a caso proprio quest’anno nel decennale della rivista, dopo aver accumulato tanti convegni, lavorato con infinita pazienza a raccontare il carcere e a individuare responsabilità di una giustizia dai tempi biblici e di detenuti che appunto non hanno rubato soltanto la marmellata alla nonna, come scriveva Stefano Bentivogli.

Marino Occhipinti ha spiegato bene nell’apertura dei lavori che avevano prima pensato di fare un convegno sulle vittime, poi con le vittime e infine, in ascolto delle vittime per popolare di parole il vuoto che separa gli autori del reato dalle vittime di quello stesso reato.

Si avvertiva immediatamente l’impegno messo da tutti i detenuti nell’organizzare al meglio un incontro nel quale comunque non si poteva prevedere ogni cosa, ma cercando per senso della responsabilità di diminuire gli imprevisti, ovviare a qualsiasi forma di disattenzione inammissibile quando si vanno a far risuonare le corde della sofferenza patita, magari lontana nel tempo, ma non dimenticata. Le vittime delle stragi degli anni di piombo, oppure delle uccisioni più recenti, dei sequestri e anche dei furti. Ascoltare per ricordare, per non smettere di interrogarsi sui gesti compiuti e sui loro strascichi. Ascoltare per non evitare di stare male: la sofferenza deve davvero continuare a graffiare l’anima, la memoria e imporre un silenzio rispettoso.

Le voci più diverse hanno raccontato la loro storia e delineato la loro posizione: Andrea Casalegno ha espresso la sua assoluta mancanza di desiderio di incontro e dialogo con i terroristi che hanno assassinato suo padre nel ’77; Manlio Milani ha denunciato l’impossibilità di cancellare un fatto come la strage di Piazza della Loggia a Brescia nel ’74 che manca ancora di colpevoli e delle loro logiche; Giuseppe Soffiantini ha provato a cercare le ragioni che hanno portato alcuni uomini a organizzare il suo sequestro per 237 giorni; Silvia Giralucci ha chiesto che i brigatisti che le hanno ucciso il padre nel ’73, quando lei aveva tre anni, si muovano a “testa bassa” nella loro quotidianità libera; mentre Olga D’Antona ha proposto la via della condivisione del dolore. Da quella mattina le loro parole costituiscono lo sfondo delle mie giornate.

 

Provare a prestare ascolto alle vite degli altri

 

Aldilà delle posizioni individuali raccontate con toni sommessi, commossi, oppure altisonanti, decisi, il messaggio era quello di provare a prestare ascolto alle vite degli altri, a infilarsi nei loro panni, in questo caso di vittime, di destra, di sinistra, della delinquenza più comune per rompere la catena dell’odio, spezzare le tenaglie della paura e dare spessore all’irreversibilità del gesto compiuto: basta una frazione di secondo, un attimo e si innescano conseguenze che durano decenni… una moglie non riesce a parlare dell’uccisione di un marito… un uomo accende una luce perenne in casa per ovviare al buio di una strage… Tutti comunque sanno cosa significa il prima e il dopo.

Come ha detto Elton Kalica nel suo intervento di apertura, Ornella ha tirato fuori i detenuti dalle celle per farne dei redattori del giornale e insieme loro hanno cercato di “tirar fuori le persone dai loro gusci di dolore”. Da dieci anni Ristretti Orizzonti non fa altro che stanare il pubblico lettore dalle conchiglie dei luoghi comuni affinché non perda la fiducia della e il valore nella relazione umana.

A Stefano Bentivogli, stroncato l’anno scorso dalla tossicodipendenza che gli ha fatto visitare le mura carcerarie e quelle delle comunità di recupero, Ornella e la Redazione hanno dedicato questo convegno per ricordare lui e anche la sua capacità di parlare senza paura della sofferenza propria e altrui. Ho apprezzato anche questa attenzione che ancora una volta indica l’impegno preciso di non dimenticare i volti, i corpi, le storie delle persone che fanno il carcere e che, a Padova, sono a volte anche quelle che fanno una rivista impegnativa e impegnate come Ristretti Orizzonti.

E a tutta la Redazione faccio lo stesso augurio che Elena Ferrante aveva fatto per i dieci anni della sua casa editrice, usando l’immagine di un cespo di cappero che cresceva a ogni stagione sulla parete della sua casa di ragazza anche quando il proprietario l’aveva intonacata: “All’improvviso… l’intonaco mise crepe, il cappero riesplose coi primi germogli. Perciò auguro alla e/o di seguitare a lottare contro l’intonaco, contro ciò che armonizza cancellando. Lo faccia schiudendo cocciutamente, di stagione in stagione, libri a fiore di cappero”[3].

Anche io auguro a Ristretti Orizzonti che continui a far sbocciare articoli a fiore di cappero per combattere una diffusa atmosfera di odio, di nero sospetto scaturito dall’allarme sociale, per disegnare nella mente di ogni lettore il profilo, la sagoma dell’altro da sé con le sue ragioni. Non si tratta né di dimenticare, né giustificare, né, tanto meno, di perdonare, piuttosto di ascoltare vittime e autori di reati, perché solo in questo modo un essere umano può avere il coraggio di vivere e avere il diritto di essere rispettato nella sua dignità. A questo serve Ristretti Orizzonti e vorrei che tutta la Redazione fosse fiera di quanto ha saputo produrre in dieci anni di attività. Io, certo, lo sono.

[1] Adriano Sofri, Altri hotel, Mondadori

[2] Christa Wolf, Trama d’infanzia, Edizioni e/o Roma, 1992, pag. 34

[3] Elena Ferrante, La frantumaglia, Edizioni e/o, Roma