Casanzalinghe

 

Le casalinghe di una volta? Le puoi trovare in carcere. Quello maschile, però…

 

Di Ornella Favero, giugno 2003

 

Non ci sono più le casalinghe di una volta? Sbagliato! Dipende solo da dove uno le va a cercare. Sarà perché le donne "fuori" hanno già cucinato abbastanza, e se possono in carcere se lo risparmiano volentieri, sarà perché per gli uomini spesso le "faccende domestiche" sono una scoperta, una sfida, una "messa alla prova", fatto sta che da un confronto tra il carcere maschile di Padova e il femminile della Giudecca, gli uomini in una ipotetica gara di passione e ingegnosità casalinga vincerebbero senz’altro e con ampi distacchi. E’ comunque un lavoro, quello delle casalinghe, per il quale tante donne in passato hanno chiesto di vedere riconosciuta la loro fatica. Probabilmente questo riconoscimento tardivo arriva proprio in carcere, da parte maschile, quando gli uomini cominciano ad accorgersi quanto sia duro mandare avanti una "casa" anche solo di pochi metri.

 

"Simil-merluzzo" e bistecche "intenerite"

 

La cucina è il campo nel quale i detenuti si cimentano con migliori risultati, forse perché la "casanza" maschile (N.d.R.: "Casanza" nel gergo carcerario è il carcere stesso), dovendo provvedere a quasi settecento utenti, passa un vitto spesso scadente e utilizzabile solo se riciclato. Basta pensare al "simil-merluzzo", un pesce di origine ignota che allieta i venerdì carcerari. O alle bistecche, così dure che qualcuno sostiene di utilizzarle per fare spessore sotto una gamba quando il tavolino balla. Fatto sta che c’è una ricetta, suggeritami da Ahmet, detenuto turco semilibero, che si chiama appunto "Bistecca della casanza intenerita" e che prevede di ridurre in striscioline finissime l’altrimenti non commestibile carne carceraria e ricoprine il sapore con tutte le spezie possibili.

Ma c’è anche chi, a dispetto del sovraffollamento, prepara addirittura la pasta "fatta in casa", lasagne e tagliatelle tirate con il manico della scopa e stese sulla branda ad asciugarsi e pronte per le ore di socialità, quando due detenuti si recano in visita ad altri due, portandosi lo sgabello, per cenare insieme. (A proposito di sgabelli, una pena aggiuntiva del carcere è la condanna a non possedere mai una sedia: si passano venti, trent’anni in galera senza potersi sedere decentemente, con la schiena rotta e l’unica alternativa tra branda e sgabello).

Anche gli arabi, se hanno un po’ di soldi, se lavorano, cucinano, anzi cucinano moltissimo, e dividono quello che hanno con i compagni più poveri. Fanno anche il pane, consumando una o anche due bombolette di gas al giorno, e poi naturalmente il cous-cous, e tutto piccante da incendiarsi. Ma i meridionali italiani non sono da meno, nell’uso del peperoncino, mentre i settentrionali spesso hanno imparato in carcere il sapore forte delle spezie.

La cucina anti-casanza è ibrida, meticcia, mette insieme sapori e odori di mondi diversi, unisce il nord e il sud più di qualsiasi ricetta teorica di integrazione tra i popoli.

 

Si cucina nei locali "multifunzionali"

 

Non c’è molta scelta, su dove cucinare. C’è il bagno, l’unico spazio "appartato", chiamato elegantemente "locale multifunzionale", perché funziona appunto per le necessità corporali, per lavarsi, e poi anche per cucinare.

La privazione della libertà in ogni caso aguzza l’ingegno. Basta pensare a come il fornelletto a gas da campeggio si trasforma in forno per pizze, per torte, griglia e altro. Si prende una padella larga, la si riempie di sale grosso e di succo di limone, la si mette sul fuoco, e si aspetta finché si forma una fantastica piastra sulla quale si potranno cuocere pizze fragranti. Oppure si infila una teglia con l’impasto di un dolce in una più larga, contenente dell’acqua, si sigilla con un coperchio e si sfornano torte di invidiabile qualità, ben lievitate e cotte perfettamente.

 

Prendi due paghi tre

 

Se si vuole mangiare salvandosi lo stomaco, bisogna però sottostare all’amara legge del sopravvitto, cioè della spesa che i detenuti possono fare con i loro soldi (i detenuti si pagano il vitto della casanza con il "mantenimento carcere", cioè le ritenute sulle mercedi appena uno comincia a lavorare, e il sopravvitto subito, di tasca propria, a dispetto di chi crede che in carcere si viva come in albergo e anche a spese dello stato). Amara legge, perché per quanto indaghi, denunci, confronti con i prezzi fuori, fatichi enormemente a dimostrare che ti stanno spennando. Il fatto è che non riesci mai a trovare, confrontando i prezzi prodotto per prodotto, delle differenze enormi, eppure sul paniere tipico della casalinga c’è un trenta per cento minimo (alla Giudecca anche cinquanta) di costi in più, ma tutto è fatto con astuzia. Non ci sono naturalmente le offerte speciali, che ogni supermercato garantisce; le marche note vengono spesso sostituite da ignote sottomarche; i prodotti sono il più delle volte vicinissimi alla scadenza, insomma quelli che ogni casalinga che si rispetti lascerebbe da parte, andandosi a cercare le scadenze più lontane, quelli che poi vengono svenduti proprio perché ormai poco "appetibili". A fare una inchiesta seria sul sopravvitto non ci siamo ancora riusciti, ma non demordiamo, sia chiaro, stiamo sempre con gli occhi bene aperti e la penna in mano.

 

La caffettiera che si trasforma in ferro da stiro

 

Le casalinghe viziate posseggono ferri da stiro professionali, vaporelle e altre mostruosità. La nostra è una società che crede di curare i vuoti esistenziali della vita domestica attrezzando le casalinghe con elettrodomestici sempre più sofisticati. Ma se accompagni in permesso un detenuto, e gli chiedi chi gli abbia stirato con tanta perizia i pantaloni, scopri che, a parte il solito metodo da caserma di dormirci sopra, c’è una tecnica molto più raffinata per stirare in carcere. Si prende la parte inferiore della caffettiera, la si riempie d’acqua, la si scalda sul fornelletto, la si afferra con destrezza, naturalmente con uno straccio per non ustionarsi, e si procede a quella operazione odiosa che è lo stirare.

 

Si pensa sempre che chi sta in carcere abbia tantissimo tempo libero a disposizione. Non è del tutto vero: ogni gesto normale, ogni operazione semplice in galera diventano complicati e consumano tempo. Certo, per chi riesce a reagire, tutte queste difficoltà tengono allenata la mente in una lotta giorno per giorno per la sopravvivenza. Quello della "casalinga carceraria" è un mestiere faticoso, verrebbe voglia, riscoprendo vecchie rivendicazioni femministe, di sperare che chi lo ha imparato non se lo dimentichi troppo in fretta, quando ritroverà, fuori, la moglie ad attenderlo.