Alla Giudecca adesso siamo in "alta stagione":

tutto esaurito, anche 11 per cella!

 

La convivenza è un’avventura sempre, pure quando puoi sceglierti la persona con cui stare, immaginarsi che cos’è in un carcere

 

Di Patrizia, luglio 2001

 

Siamo in piena alta stagione, alla Giudecca: 11 in una stanza (qui le celle si chiamano elegantemente "stanze"), tutto esaurito, e nessuna possibilità di scegliersi, non diciamo la stanza con vista migliore o la più luminosa, ma almeno le compagne con cui condividere questa vita. Qui non c’è la convivenza intesa come due o più persone, fidanzati colleghi amici, che si scelgono e decidono di vivere insieme per amore, lavoro, studio, e soprattutto quello che non c’è è la libertà di ciascuno di andarsene quando il rapporto non funziona più.

Siamo 11 e non apparteniamo tutte alla stessa razza, ci sono etnie, culture, tradizioni, abitudini del tutto diverse, e forse, se sei curiosa e la permanenza si prolunga, puoi anche imparare qualcosa di buono, per lo meno i piatti tipici e i balli di una gran quantità di popoli, ma il punto è un altro: come si tenta di vivere e sopravvivere, in così tante in una stanza, e come si fa a rispettare ognuna lo spazio dell’altra? Ammesso che si possa parlare di spazio, in un luogo in cui ci devono stare tutti quei letti, dei quali due a castello, contro le pareti, tutti accompagnati da un armadio e un comodino, tra un letto e l’altro poi uno stretto corridoio, e lì ognuna di noi ha il proprio pezzetto personale di "proprietà privata"; poi si arriva al centro della stanza, dove c’è libero accesso a tutte. In mezzo ci sta il tavolo con delle panche che servono per sedersi, ma anche come dispense, e di questo doppio uso ringraziamo di cuore l’inventore. Serve comunque prenotare anche per mangiare, il tavolo certo è abbastanza grande, ma se dovessimo pranzare tutte assieme, ti potrebbe succedere senza volerlo di mangiare dal piatto di un’altra pensando che sia il tuo. Quando poi giriamo per la stanza, ci vorrebbero veramente dei cartelli con le precedenze: se una esce dal bagno, per esempio, con la porta che si apre verso l’esterno, e nel frattempo sta arrivando un’altra e non ha i riflessi pronti, c’è il rischio di spiaccicarla senza pietà.

La cucina, se si può chiamare così una stanzetta di un metro e mezzo per tre, aggiungi due lavandini e un mobile per le pentole e diventa di un metro per due, viene usata soprattutto per fare il caffè e per cucinare poche cose, non sarebbe possibile fare diversamente. Ma la cucina è niente in confronto al bagno. Tutte sanno che alle donne il bagno piace, è in bagno che passano tanto tempo, tutte noi accettiamo una casa con stanze piccole, ma il bagno lo vogliamo grande e luminoso. Ecco, qui tutti i nostri sogni di bagni grandi e comodi si dissolvono come bolle di sapone, sì perché oltre che essere piccolo, il bagno lo devi dividere con altre 10 persone, che oltretutto sono donne. Succede poi, non si capisce perché, che il bagno resta libero per un po’ di tempo, poi quando una lo occupa, le altre già si chiedono quanto tempo ci resterà dentro, come se aspettassero che sia occupato per averne bisogno, ma quella che è dentro non sa che le altre devono entrare, e quindi fa le cose con calma, e magari si sofferma anche davanti allo specchio, mentre cresce il nervosismo tra quelle fuori, divise tra la necessità e il fatto che non è bello disturbare qualcuno mentre è in bagno. Alla fine lei, l’occupante, esce tranquilla e si trova faccia a faccia non con una donna, ma con una fila impaziente di 4-5 donne ai limiti di una crisi di nervi.

 

Assistente sociale, psicologa, madre, sorella: quando una donna detenuta è costretta a coprire mille ruoli

 

Purtroppo, in carcere ci troviamo a scontare una condanna e in più siamo obbligate spesso ad assumere ruoli che non ci competono, come assistente sociale, madre o sorella maggiore, addirittura maestra d’asilo, in quanto una buona parte di noi non sa vivere in collettività con altre persone e si dimentica a volte, diciamo così, anche le regole minime dell’igiene: succede che alla fine il peso di tutto questo ricade sulle spalle di chi è più responsabile, di chi comunque sta cercando di rendere la sua carcerazione più vivibile e più dignitosa possibile. Il fatto è, però, che noi siamo qui in una condizione di assoluta debolezza e non possiamo opporci a certi comportamenti inadatti a una convivenza così forzata: e invece il carcere cerca spesso di scaricare sulle persone più responsabili il compito di insegnare a quelle che non lo sono a pulire la stanza, lavarsi i panni, fare attenzione all’igiene. Il rischio è che il nostro sforzo di consigliare e aiutare a orientarsi nel caos della vita carceraria non venga recepito come un insegnamento ma come un voler comandare, e così rischiamo pure di prenderci un rapporto con l’accusa di essere prepotenti e voler agire come piccole boss.

 

Per chi ha tanti anni da scontare non è molto piacevole vedere le altre entrare e uscire poi dopo pochi mesi

 

Quella della convivenza in carcere è una delle esperienze che, psicologicamente ed emotivamente, ci mette più alla prova sotto tutti i punti di vista. Quando si entra in carcere, si vorrebbe almeno trovar posto vicino all’amico, al conoscente, al connazionale, o anche a chi è dentro per lo stesso motivo, sarebbe un modo per condividere assieme le stesse abitudini, idee, parlare la stessa lingua, sentirsi un po’ meno soli. La persona che entra in carcere viene invece semplicemente parcheggiata dove c’è un letto. Con il passare dei mesi però fai nuove amicizie, cresci dentro e impari a muoverti in questo mondo fatto di imposizioni e divieti, socializzi con chi hai accanto e non pensi più all’amico o al connazionale, anzi a sentire le nostre compagne straniere si sta meglio così, mescolate tra italiane e straniere, vivendo in stanze diverse non c’è pericolo che si formino gruppi o clan, che portano nella maggior parte dei casi a lotte e contrasti tra persone della stessa etnia.

Ma la cosa che pesa di più, soprattutto in celloni come alla Giudecca, è il fatto che qui stanno, mescolate insieme, le imputate e le donne già condannate, anche a pene molto lunghe, e poi pesa soprattutto la differenza di anni da scontare: per quelle che ne hanno tanti non è infatti molto piacevole vedere le altre entrare ed uscire, c’è un ricambio continuo e questo ti pesa addosso come un macigno, per questioni di sovraffollamento devi convivere con chi ha pene corte e a volte obbliga le compagne che sono lì da tanto a sorbirsi continue richieste, lamentele e autocommiserazioni.

Allora cerchiamo insieme di capire qual è il compito di una detenuta in queste condizioni: per quel po’ di intelligenza che ci è rimasta, forse è solo quello di scontare la nostra pena, mantenere sempre in allenamento il cervello per far sì che non si blocchi completamente, impegnarsi se possibile nelle attività culturali e nel lavoro, quando c’è. Ma per quanto riguarda la convivenza, su qualsiasi cosa sia necessario intervenire, lo dobbiamo fare di nostra scelta, perché in noi c’è anche umanità e solidarietà verso il prossimo, e non perché l’istituzione vorrebbe da noi che coprissimo con la buona volontà i ruoli che dovrebbero essere invece svolti da altri, quegli operatori con le competenze necessarie che in carcere sono davvero troppo pochi.