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Il coraggio e la forza di raccontare sofferenze private Confrontarsi con la sofferenza altrui, farla propria, è un altro modo per espiare Soprattutto se ad accettare questo confronto sono persone che hanno sofferto per mano di altri e che usano la sofferenza per aprire la loro mente, per vedere a fondo dentro se stesse
di Paola Marchetti, giugno 2008
Da dove parto? Dall’agitazione della notte precedente in cui le poche ore che ho dormito ho sognato di entrare in un carcere per un convegno (la realtà) e di esservi trattenuta per motivi non chiari (le paure)? O dall’emozione di mettere piede dentro un luogo che tristemente conoscevo? D’accordo, non era lo stesso carcere. Al Due Palazzi non ero mai entrata. Ma la sensazione che i cancelli, i “blindi”, i controlli, il lasciare tutto in portineria, mi risvegliavano, era assolutamente devastante. Ci tenevo ad esserci. Avevo fatto la mia richiesta al Magistrato, che mi aveva concesso la possibilità di ascoltare persone che avevano subito, senza alcuna scelta personale, una sofferenza grande come quella di essere vittime indirette di un’azione che gente come me aveva compiuto. Ci tenevo perché confrontarsi con la sofferenza altrui, farla tua, è un altro modo per espiare. Poi c’è chi se ne rende conto e chi no. È questione di sensibilità, di coscienza. Come dà grande gioia fare qualcosa di positivo per il prossimo, così dovrebbe dare altrettanto grande sofferenza se al prossimo si fa del male. Purtroppo non è sempre così, anzi. Altrimenti gran parte degli esseri umani si consumerebbe di rimorsi. Davanti al cancello del carcere ho avuto una sensazione di “già visto”, e quando sono passata davanti al tavolo dove raccoglievano i documenti, e poi alla postazione dove si lasciavano in custodia le borse, mi sono un poco rinfrancata dal turbamento che l’essere lì mi provocava. Ma il percorrere quei lunghi corridoi, passando davanti a guardiole, con gli agenti che ti osservano, con i cancelli ogni venti metri, con il rumore delle chiavi che li aprono e li richiudono – rumore che nessun ex detenuto riesce a dimenticare per il resto dei suoi giorni – mi ha fatto ripercorrere il corridoio che ha aperto la mia detenzione, assolutamente simile a quello del Due Palazzi, anche se in un paese straniero. Già, perché le galere sono tutte simili! Questo rivivere momenti angosciosi e di sofferenza mi ha reso, quella mattina, più pronta a percepire la sofferenza altrui, quella sofferenza che è emersa dalle parole di ognuna delle persone che sono poi intervenute al convegno. Manlio Milani, presidente dell’associazione vittime di piazza della Loggia, ha raccontato gli accadimenti di quel giorno con il dolore di una persona che ha visto morire la sua compagna e che ancora oggi, dopo più di trent’anni, non sa chi sono i carnefici di quella strage. Dolore privo però di odio. Voglia di verità, per poter guardare negli occhi i colpevoli e chiedere: “Perché”? La stessa domanda che mi sono posta per anni anch’io quando ho perso la persona che amavo, anche se persa senza che nessuno me l’abbia portata via. Ugualmente davanti a quell’immane dolore mi sono chiesta “perché”, per anni, finché il tempo non ha fatto il suo dovere e, anche se non ti fa mai dimenticare, ti lenisce il dolore. Figuriamoci se l’avessi persa per mano di qualcuno: come avrei reagito? Sarei stata capace di “non odiare”? Ognuna delle persone intervenute ha espresso un modo diverso di vivere il proprio lutto, e anche un modo diverso di rapportarsi – ma anche di NON rapportarsi – con gli autori dei reati che hanno rubato loro gli affetti. Sono persone che hanno sofferto per mano di altri e che usano la sofferenza per aprire la loro mente, per vedere a fondo dentro se stesse. Persone che quel giorno sono riuscite a coinvolgere, a tenere vivissima l’attenzione di un pubblico enorme, parlando sottovoce – dimostrazione che per “interessare” non serve urlare se gli argomenti sono importanti – con il coraggio e la forza di raccontare sofferenze private. Sono uscita dal convegno sentendomi una persona più “ricca”. |
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