La nostra ignoranza della lingua è anche ignoranza dei nostri diritti

 

Non poter mai parlare nella propria lingua per le straniere detenute significa solitudine e angoscia

 

Di Marianne, novembre 2000

 

Ancora prima che apriamo bocca, ci dicono: "Parla italiano!" e, quando proviamo a parlare, loro ci dicono: "Prima impara meglio e poi parla". Ma a dover imparare meglio l’italiano siamo in molte, alla Giudecca, tanto è vero che c’è chi dice: "Io, qui, mi sento come all’estero", e sono parole di un’italiana "purosangue". Lei ha ragione, perché, in questo carcere, la popolazione è composta per il 60% di stranieri. È una bella varietà e mescolanza: i diversi modi di vivere rendono possibili vantaggiosi scambi culturali.

Peccato che non ci siano stranieri tra gli impiegati, qualche operatore che parli almeno una tra le più diffuse lingue straniere e che si occupi in particolare dei nostri problemi e del nostro reinserimento nella società. Tutte siamo d’accordo che la lingua si trova al primo posto nella lista dei nostri problemi. Non poter mai parlare nella lingua madre, per le straniere, che non sono circondate dai connazionali, significa solitudine e solo questo. Abbiamo spesso l’idea di non far parte di niente.

È difficile esprimere i propri bisogni e difendere i propri interessi, quando non si ha padronanza della nuova lingua, come la si ha della propria.

Il canale di comunicazione è impreciso e porta al malinteso fra italiani e stranieri. La nostra ignoranza della lingua è anche ignoranza dei nostri diritti, mentre i doveri impariamo a conoscerli a nostre spese. Per fortuna abbiamo una splendida insegnante d’italiano, che ci insegna e aiuta con inventiva e grande pazienza. Lei è la nostra salvezza: "Se impari la lingua, comincerai a sentirti più sicura".

 

La difficoltà di adattarsi a un modo di vita diverso, o l’arte di arrangiarsi

 

Uno straniero deve imparare a non paragonare tra loro i diversi paesi, se non vuole crearsi delle frustrazioni. Bisognerebbe staccare la spina e non pensare a tutto quello che non va.

Come funziona la giustizia in Italia è un mistero per tutte noi. Escluse da molti benefici, dobbiamo espiare il periodo di carcerazione quasi senza agevolazioni, pochi o niente permessi, niente arresti domiciliari. Subiamo perciò una discriminazione nei confronti delle altre detenute italiane. Eppure anche noi stiamo pagando il nostro debito con la società, come tutti gli altri. Vorremmo che, in cambio dei 45 giorni all’anno dei permessi premio, che per lo più non possiamo avere, a noi venisse ridotta la pena che rimane da scontare.

Soprattutto gli stranieri che rimangono in carcere per brevi periodi non possono costruire niente di positivo per il loro futuro, perché non riescono a comunicare con gli operatori, persone che hanno preparazione adeguata a seguire il percorso di vita dei detenuti. Le pene dovrebbero avere anche lo scopo di farti adattare alla vita sociale: ma come e a quale vita sociale, per noi stranieri, se a fine pena non c’è quasi modo di trovare un posto decente nella società, né qui, né al nostro paese?

La famiglia potrebbe essere un grande aiuto, se non fosse così lontana. La comunicazione, al telefono, con i propri famigliari attualmente è limitata a sei minuti ogni settimana, e questo tempo è spesso insufficiente per poter affrontare un discorso completo e ampio. Soprattutto con i bambini, che sentono la comunicazione interrotta bruscamente, quando parlano della scuola e degli amici, e interpretano questa cosa in modo molto negativo. A volte pensano che sia la volontà del proprio famigliare, quella di non volergli parlare. La situazione migliorerebbe, se la telefonata avesse una durata più naturale.