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Un’ordinaria giornata… di carcere
Quarta puntata: hai bisogno di soldi? Abbiamo "lavoro" per te
di Tiziano Fabbian, ottobre 1999
"Un’ordinaria giornata di… carcere". La cronaca a puntate di 24 lunghissime ore di galera continua con il protagonista, T., impegnato a farsi raccontare da G. i motivi del suo rapidissimo rientro in carcere, a soli sessantasette giorni dalla scarcerazione.
Sono stato scarcerato in novembre, il 28, ricordi? Mi sono trovato lì, nel piazzale antistante il carcere, con alle spalle il passato e il futuro in faccia, ma, forse a causa della fitta nebbia presente quella mattina, non riuscivo a scorgere chiaramente ciò che m’aspettava. In mano una sacca con pochi capi di vestiario, in tasca, poco più di 300 mila lire, in testa, la stessa nebbia che si trovava all’esterno e nella quale si muoveva una sola idea: tornare nella mia città B. Scuoti la testa, ed hai ragione! Che tornavo a fare lì se non avevo più nessuno? Mia madre non c’è più, quanto a mio fratello, dopo l’ultima condanna che ho preso, non s’è fatto più sentire. Vedi, a B. perlomeno ci sono strade con un nome che conosco; percorrendole so dove sono e dove mi portano. Nella mia vita ho percorso troppe strade che non conoscevo e mi hanno portato sempre in un unico posto: qui, in carcere. Così mi sono detto: fatti coraggio! E mi sono incamminato verso la fermata dell’autobus. Alla stazione, oltre al biglietto per il treno, dal giornalaio ho acquistato il maggiore quotidiano della mia città (oddio ne abbiamo solo due, ma questo è il più letto), era la prima copia che tenevo in mano dopo cinque anni. Non volevo arrivare ignaro di quanto stesse succedendo nel posto dove intendevo ricostruirmi una vita. Che fai, sorridi? Che vuoi che ti dica, al momento mi pareva un bell’inizio; poi, in viaggio, non sono riuscito neanche a sfogliarlo, troppi pensieri! Il viaggio non è stato come più volte me l’ero figurato: un riappropriarsi dei luoghi conosciuti, nel ricordo ormai consunto dall’uso. Oh si! Sono sempre stato al finestrino, ma in realtà non ho visto niente. Mi sentivo come un cane, di quelli che corrono dietro, abbaiando, a tutte le auto che passano, ma se riescono a raggiungerne una, poi non sanno che fare. Lo stesso per me; stavo finalmente tornando alla mia città, ma ora che le ero prossimo non sapevo proprio che fare. Ritornare nel "giro" avrebbe significato risolvere i problemi immediati e… a lungo andare, anche quelli futuri se ritieni il carcere una soluzione. M’è venuta quella barzelletta, sai… la frigida che dice al suo uomo tutto "sotto pressione": "…o dentro o fuori! Questo su e giù inizia a darmi fastidio!...", a me dava fastidio più il "dentro" che il "fuori" e su questo pensiero ho deciso di… Aspetta, se senti che t’incazzi, lasciami finire il discorso prima di dire la tua, o.k. ?! Allora, ho deciso di andare subito in Questura e dire loro: signori, sono stanco della galera e voglio ricostruirmi un’esistenza, quindi chiedo il vostro aiuto…! Aspetta t’ho detto! Lasciami finire! Senti "grillo saggio", che potevo fare nelle condizioni in cui mi trovavo, senza soldi, senza casa, senza lavoro, appena partorito dal carcere?! E poi ho pensato che non saranno mica lì solo per sbatterci dentro quando sbagliamo, no… Sarà ben interesse di tutti se ci danno una mano a ricostruirci una vita diversa dalla precedente… Spiritoso, la so la differenza tra sbirri e Assistenti Sociali, i secondi non portano la divisa. Era solo una battuta, ascolta! Arrivo ed esco dalla stazione; ora che sapevo che fare ero quasi convinto che le cose sarebbero andate bene. Ero carico, determinato e… nella mia città; un po’ fredda a dire la verità, e allora sono entrato in un caffè lì vicino ed ho investito quasi 5.000 lire nel sogno mattutino d’ogni detenuto: cappuccino schiumoso e croissant caldo. Solo che di croissant non ne avevano ed ho dovuto ripiegare su un Krapfen freddo. Mentre bevevo il cappuccino osservavo attraverso la vetrina del caffè le persone che passavano, velocemente affaccendate, e pensavo: ecco che mi distingue da loro, la velocità nel camminare. Al contrario di me hanno dove andare e sanno dove andare; la lentezza, in questa società, significa indigenza! Così, perché nessuno si accorga della mia situazione, esco dal caffè e velocemente mi avvio verso la questura… velocemente, e pensare che un tempo facevo un chilometro in più solo per non passarci davanti! Arrivo. Chiedo al piantone se c’è ancora l’ispettore C. C’è ancora, salgo e busso al suo ufficio, entro. Mi riconosce e dice: "Già fuori?!". Aveva ragione Einstein, penso, cinque anni a me son parsi un’eternità, per lui solo un "già fuori?!". Sorvolo su questa sua uscita e gli sciorino tutto il bel discorso che mi sono preparato: testa a posto… mai più nel giro… con il vostro aiuto. E lui, sai che mi dice? Anche se hai indovinato non ridere, stronzo! Aspetta che te ne dia io motivo. Allora si dice contento delle mie intenzioni; loro saranno ben felici di darmi tutto l’appoggio occorrente ma (è il "ma" che ti frega), innanzi tutto devo dar prova di voler veramente reinserirmi nella società. Dio mio, penso, vuoi vedere che dovrò sottopormi ad una prova d’iniziazione?! Quale sarà? Lui soddisfa immediatamente la mia curiosità: reintrodurmi nel "giro" e soffiare loro quello che sta per succedere! Ma come? gli dico, vengo a chiedere aiuto per evitare di essere nuovamente coinvolto in affari loschi e voi mi chiedete di riprendere la vita di prima? Non capisco proprio la vostra logica (se può essere una logica). Ma no! mi dice, solo per poco tempo, neanche un anno, e poi… una mano lava l’altra. Sì, però solo le mie mani hanno provato le manette ai polsi, anche quando mi hanno portato al funerale di mia madre. Volete togliermi quel poco di dignità che sono riuscito a conservare? "Tutti uguali i delinquenti!", così mi ha detto. Lì per lì stavo per saltargli addosso, ma mi sono trattenuto. Sono uscito sbattendo la porta, mi arrangerò da solo, mi sono detto. Così sono andato al dormitorio pubblico. M’hanno dato un posto letto, solo per una settimana però, e un pieghevole con indicati indirizzi e numeri di telefono di associazioni benefiche ed enti assistenziali. Meglio non lasciare la sacca, mi dice il custode, sai… Ed io mi chiedo il perché dobbiamo sempre fregarci tra poveracci. Dopo aver preso un caffè al distributore automatico esco per andare all’ente comunale d’assistenza come mi ha consigliato un ospite del dormitorio. Si trova dall’altra parte della città, ma decido per una passeggiata a piedi, voglio rendermi conto di quante cose sono cambiate durante la mia assenza. Tra un moto di stupore ed un altro, arrivo a destinazione. In attesa ci sono pochi uomini e tante donne con bambini che giocano su un corridoio sul quale si affacciano gli uffici. Siedo aspettando il mio turno che arriva dopo un paio d’ore d’attesa. Busso, entro e saluto, c’è un’impiegata che mi dice di accomodarmi. Siedo e le spiego la situazione nella quale mi trovo. Non batte ciglio, chissà quanti ex detenuti si sono seduti su quella seggiola. Inizia a compilare un modulo interrogandomi: le solite cose, dati anagrafici ecc. Poi inizia con le richieste: stato di famiglia, iscrizione alle liste di collocamento, certificato di nullatenenza (nullatenente? Nulla generale sono io, fin qui niente di complicato; domani mattina potrò fare tutto, penso) poi continua: certificato di detenzione… qui ho il foglio di scarcerazione, le faccio presente, CER-TI-FI-CA-TO-DI-CAR-CERA-ZIONE sillaba decisa (telefonerò all’educatrice in istituto forse potrà farmelo avere per posta), e per ultimo, dice, domicilio al quale sarà spedito l’assegno a proposta di sussidio accolta. Le spiego che non ho un domicilio e che per una settimana sto al dormitorio pubblico, poi… non so. Però, aggiungo, il problema non sussiste in quanto posso sicuramente passare di persona a ritirare l’assegno. Non si può, dice, gli assegni sono inviati rigorosamente tramite PO-STA, quindi serve il DO-MICI-LIO, risillaba. Bene, penso, andrò da qualche prete (caro, vecchio, bistrattato prete, ma quando c’è bisogno sei il primo al quale si ricorre), gli spiegherò la situazione e senz’altro mi presterà domicilio per la corrispondenza. Le chiedo quanto passerà tra la presentazione della richiesta e, sempre se accolta, l’invio dell’assegno. La commissione esaminatrice si riunisce ogni fine mese, quindi se avrà la mia pratica COM-PLE-TA entro una settimana… diciamo per la fine di gennaio. Cacchio… due mesi! Penso: ho circa 270 mila lire in tasca… diviso due… Senta, le dico, non ho soldi, né casa, né lavoro, non si potrebbe snellire la pratica? "NO!" è la risposta, ma come faccio, le chiedo. Avrà senz’altro qualche parente che la possa aiutare, mi dice. Nessun parente, dico io. Gli amici? Chiede lei. Sono proprio gli amici che devo evitare, dico io. Sono un’impiegata del comune, non una baby-sitter, dice lei, quello che mi compete l’ho fatto! E mi congeda. Esco con un modulo incompleto in mano. E ora che faccio, penso. Inizio a camminare perso in pensieri tutt’altro che sereni e, senza accorgermene, arrivo al quartiere popolare dove sono nato e cresciuto. Il casermone di cemento è lì, sempre più vecchio e macchiato. Guardo al quarto piano, quella finestra della cucina dalla quale mia madre chiamava per la cena, interrompendo le nostre partite di calcio, qui al campetto. Ora non c’è più mia madre e non c’è più il campetto, solo un grande parcheggio, nero asfaltato. E in quel momento mi cade addosso tutta la solitudine di questo mondo. Ma che ci sto a fare qui? Sono solo e a nessuno importa niente di me. Tengo ancora il modulo per la richiesta di sussidio in mano, l’accartoccio e lo scaglio a terra con un "‘fanculo!". Da una cabina telefonica chiamo un taxi. Arriva e mi faccio portare al bar "da M." Trovo lì R. e F. che come mi vedono mi abbracciano, mi fanno sedere alloro tavolo e mi offrono da bere, tra un "quando sei uscito…?", "racconta dai…", "hai bisogno di soldi?" e "abbiamo lavoro per te!" il senso di solitudine è sparito. Per farla breve, dopo 67 giorni, ad un posto di blocco, nel baule della macchina hanno trovato armi e passamontagna. Quattro anni e mezzo, ha detto il giudice… quattro anni e mezzo! "Non dici niente?". S’accende una sigaretta, s’avvicina alla finestra e soffia il fumo fuori, attraverso le sbarre. Lo guardo, è di spalle, mentre osserva l’esterno e penso. "Io ti conosco G., so che non sei un cattivo ragazzo, so che avevi veramente intenzione di rigare dritto e sistemarti nella tua città. Chi non ti conosce dirà senz’altro che alle prime difficoltà ti sei arreso, che non eri veramente intenzionato a cambiare vita; quella persona lo penserà stando nella sua casa e avrà una sua famiglia, avrà parenti ed amici. Non avrà mai provato a dormire in un dormitorio pubblico, non avrà mai dovuto vivere 60 giorni con 270 mila lire, non avrà mai provato a rimanere senza lavoro né la sensazione che può dare la vera solitudine, un senso di: perduto irrimediabilmente, un senso d’inutilità esistenziale. Quella persona, ti giudicherà! Io ti conosco G…". "F. scenda in rotonda 2!", mi distoglie da questi pensieri l’agente aprendomi il cancello…
(continua)
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