Ricordi della mia prima esperienza di inviato

speciale alla Mostra del Cinema di Venezia

 

Di Tiziano Fabbian, agosto 1999

 

In occasione della scorsa uscita in permesso premio oltre alla borsa da viaggio ho ritirato dal magazzino anche il portafoglio che non usavo da tempo. Non tanto perché mi servisse per riporci tutti i soldi risparmiati in un anno di lavoro intramurario, per quelli sarebbe stato più che sufficiente la capienza del taschino dei miei jeans, quanto per provare nuovamente l’ebbrezza, qui in carcere negataci, di sentire quel peso rassicurante, da uomo libero, nella tasca posteriore dei pantaloni.

Apertolo, dentro ho trovato, assieme ad una banconota da cinquecento lire turche e a una scheda telefonica, una tessera stampa plastificata d’accredito alla Mostra del Cinema di Venezia. Il famoso "pass" e, d’un tratto, mi sono ritrovato a girare e rigirare quel rettangolo di plastica marroncino ricordando con una certa nostalgia quei cinque giorni trascorsi in giro per il mondo di celluloide del festival. Un anti-mondo che ha bisogno del buio per essere percepito nello splendore dei suoi colori e storie in movimento, un mondo che, quando le luci si accendono, si dilegua nei titoli di coda.

Altri ricordi ora mi tornano in mente. Come il primo giorno, immerso in quell’atmosfera da luna park, giorno che avrei volentieri evitato essendo stato il più estenuante. Ricordo che avevamo bisogno di una fototessera per l’accredito.

Premetto che ho sempre odiato fare foto, fin da piccolo pensavo: se vado lì, come faccio poi ad essere qui? I miei genitori avevano il loro bel da fare per convincermi a rimanere fermo davanti a quel "ruba immagini" che chiamano apparecchio fotografico. Più tardi, a fatica, ci sono riusciti i poliziotti per le foto segnaletiche e poi gli operatori carcerari per l’immatricolazione presso l’Istituto.

La signora del negozio fotografico del Lido, vedendomi alquanto nervoso e volendomi mettere a mio agio, mi chiese se volevo pettinarmi prima dell’operazione, lo disse indicando uno specchio alla parete. Sennonché intesi la sua premura come uno sfottò, data la situazione crinologica del mio cuoio capelluto, per la quale anche un rastrello risulterebbe inadatto a fare da pettine per l’alta densità dei suoi denti.

Ancora più nervoso le dissi che mi sembrava una buona idea, e che ne diceva se un capello lo pettinavo a sinistra, uno a destra e l’ultimo lo lasciavo cadere sugli occhi con voluta nonchalance?

Alla fine mi sottoposi al barbaro rito fotografico, in cambio mi trovai in mano un cartoncino con quattro foto orribili nelle quali, a fatica, mi riconoscevo per la sommità liscia della testa. Le volle vedere la persona che mi accompagnava e, dopo un attento esame. lei che era già entrata nell’atmosfera di ambiente cinematografico che permeava tutto. disse che assomigliavo ad un tale regista norvegese che non avevo mai sentito nominare. Però ero certo che se una somiglianza avrebbe dovuto esserci tra la mia foto e qualcuno che avesse a che fare con la Norvegia, sicuramente non sarebbe stato un regista ma un merluzzo.

Questo, ricordo: poi il labirinto di stand dell’Excelsior, brulicante di persone che sapevano tutte dove andare, fuorché noi.

Prova ne fu il fatto che, dopo una torrida coda durata circa un’ora, ci trovammo davanti ad un’impiegata che ci disse che avevamo sbagliato sportello poté solo indicarci quello giusto, al quale stava una sua collega semidisoccupata Ricordo il timore, poi fugato dai fatti, che la nostra domanda d’accredito fosse andata smarrita, il che avrebbe comportato per noi il trascorrere cinque giorni da "fuori casta" alla Mostra del Cinema. Già pensavo a cosa scrivere sul cartello di supplica da appendermi al collo, al fine di mendicare biglietto ingresso omaggio. Avevo pensato. "Povero detenuto extrascreditato e per giunta con ristretti orizzonti: aiutatemi ad allargarli, grazie".

Ricordo le corse affannose da una sala di proiezione all’altra (a film iniziato non facevano più entrare) e più volte per la fretta sbagliavamo sala, o film, lo chiedevo alla mia accompagnatrice se quello che stavamo vedendo fosse un film in costume ambientato in Inghilterra verso la fine del XVII secolo, come diceva il programma.

Certo, mi diceva, si tratta della storia di Elisabetta Tudor, narrata con maestria dal famoso regista ...! Io ammiravo la sua competenza cinematografica ma non potevo fare ameno di chiedermi che ci facessero sullo schermo quei giapponesi che si sparavano mitragliate all’impazzata in una stazione metropolitana. Sarà quella di Londra, pensavo.

Ricordo le conferenze stampa con attori e registi, rigorosamente in inglese ma con una traduzione talmente simultanea che quelli che non sapevano la lingua iniziavano a ridere quando chi la lingua la conosceva aveva già smesso da tempo e smettevano di ridere quando gli altri già ricominciavano Una risata continua. Insomma, per difetto di sincronizzazione. non sapevi più se ridevi di quello che avevano appena detto o per quello che avevano detto prima. E le attrici? Viste dal vivo e non sullo schermo non puoi fare a meno di provare una certa delusione. Alcune sono di una magrezza da chiodi oltre che di statura molto bassa, nonostante i tacchi a spillo.

Insomma, tutte di una normalità fisica sconvolgente, a parte la Marini. Lei è "tanta" sullo schermo quanta nella vita reale. L’ho vista indossare un tubino di tessuto dello stesso colore del suo umore, dopo aver letto le critiche sull’ultimo film interpretato, cioè nero ed era "tanta!" È crudeltà meritata pretendere anche che sappia recitare.

Ricordo le interviste che abbiamo rilasciato ad alcuni giornalisti "professionisti" dei maggiori quotidiani nazionali. In modo speciale ricordo la prima, seduti sulla terrazza dell’Excelsior.

Lui: Qual è il reato da lei commesso che, diciamo, considera il più importante?

Io. In che senso scusi? Quello che rimane nel cuore? Importante come il primo amore che non si scorda mai?

Lui. Che tipo di reati ha commesso con maggiore frequenza?

Io. Mah, non saprei… mi prende alla sprovvista… dovrei consultare il mio certificato penale.

Lui. Che impressioni prova a trovarsi qui?

Io. In che senso?

Lui. Tutte queste luci, questo fasto, questa mondanità.

Io. Guardi che non sono vissuto in una grotta, è stato proprio l’eccesso di fasto e di mondanità che mi ha portato in carcere.

Poi, domande sul nostro giornale com’è nato, qual è il suo scopo, ed ancora quali dei film mi sono piaciuti di più, quali di meno, e così via. Un’ora di intervista, il risultato?

Un trafiletto con su scritto "Detenuto stronca il film della…

A posto siamo!", ho pensato, immaginando già i registi picchettare gli ingressi delle sale di proiezione per non farmi entrare. Ad ogni modo devo ringraziare quel cronista, perché mi ha insegnato qual è il modo sbagliato per fare giornalismo.

Ricordo l’esclamazione "drastico" impossibile non ricordarla, dal momento che Ornella l’aveva fatta diventare quasi un intercalare quando mi si rivolgeva. "Devi smettere di esprimere giudizi lapidari". Mi diceva: "Troppo facile stroncare con due parole la fatica di mesi di un regista. Devi rispettare di più la persona e il suo lavoro".

"Hai ragione", le dicevo, "riguardo al rispetto. Ma questo dovrebbe essere reciproco, non a senso unico. Certi registi dovrebbero rispettare di più il pubblico e non propinargli certe stronzate".

"Eccolo", diceva, "nuovamente drastico. Come puoi dire ‘stronzate’? Solo perché a te non è piaciuto, non significa che altri non lo apprezzino" "D’accordo, ribattevo, ma se tu chiedi il mio parere, solo quello ti posso dare, mica quello degli altri".

"Si, ma qui non siamo in carcere dove siete abituati a considerare le cose o bianche o nere, esiste anche il grigio con le varie sfumature, capito?"

"Hai ragione tu, ora ho capito. Tu vuoi, riguardo a quel film giapponese che non m’è piaciuto, che invece di scrivere che consiglio al regista di fare harakiri senza anestesia al fine di provare parte della sofferenza che ho provato io in due ore di visione del suo film, dovrei scrivere: Un film veramente sofferto che, nonostante di primo acchito possa sembrare ‘na strunzata’, alla fine certe soddisfazioni le dà (specialmente quando è finito e potete lasciare la sala). Che ne dici?" Non mi ha risposto, ma nel suo sguardo ho chiaramente letto l’augurio che Moby Dick (quella di Melville, ma nella trasposizione cinematografica), trovandosi occasionalmente a passare per la laguna, entrasse in collisione con il traghetto che dal Lido ti porta a Venezia, facendolo affondare ed io con lui.

 

Ora, a distanza di un anno. mi è stato chiesto di ripetere l’esperienza critico-cinematografica Dopo aver ponderato bene i pro e i contro (l’anno scorso non mi conoscevano, ma ora forse sì, quindi saranno attrezzati contro i detenuti drastici), ho accettato ponendo una condizione chiedere al Magistrato di Sorveglianza di concedermi di non essere più sottoposto al tour de force dello scorso anno, Venezia e rientro ogni sera in istituto per pernottarvi. Come un vero giornalista voglio pernottare nel luogo più prossimo alla Mostra del Cinema di Venezia. Hanno accolto subito la richiesta e ciò mi preoccupa.

Quest’ultimo mese mi allenerò seriamente a dormire in piedi, anzi su un piede solo perché, essendo a conoscenza della situazione finanziaria del nostro giornale, penso che l’unico posto che riusciremo ad affittare, più che una camera d’albergo, sarà la sommità di un palo da ormeggio, piantato in laguna.

Sempre per rimanere in tema cinematografico, avete presente Karatè Kid?