Un’ordinaria giornata… di carcere

 

Terza puntata: cinque del pomeriggio, si ricevono gli ospiti

 

Di Tiziano fabbian, agosto 1999

 

Piego il foglio e lo metto in busta, stasera lo spedirò.

Ora ho da accorciare i pantaloni che ho acquistato per corrispondenza. Non possiamo avere forbici, qui dentro, quindi mi arrangerò come al solito.

Prendo un rasoio "bic", con il tagliaunghie spezzo la plastica e metto a nudo la lametta. Lo scaldo con l’accendino poi l’inserisco nel manico di un coltello di plastica; in questo modo, mi sono fatto un valido taglierino.

Prendo la misura da un paio di pantaloni che mi stanno giusti e taglio la stoffa lasciando la lunghezza per l’orlo.

Ago, filo, e inizio a imbastire, procedo spedito. Tanti anni di carcere mi hanno fatto acquisire una certa esperienza riguardo ad orli, rattoppi e fissaggio dei bottoni. Ma l’inizio, ricordo, fu disastroso. Frustrazione conseguente ogni tentativo in tal senso. Ed è proprio in quelle situazioni di avvilimento psichico che il sentimento per la mancanza di mia madre si faceva struggente. Me la figuravo vestita da "moschettiere del Re", al posto del fioretto un lungo ago, dal quale pendevano chilometri di filo variopinto, mentre, venendomi in soccorso con abili finte, stoccate ed affondi, infilava ed attaccava: bottoni riottosi, orli sfuggenti, cuciture ribelli, senza pietà, risollevando così l’umore della nostra famiglia.

Penso dipenda anche dal riconoscimento delle sacre capacità sartoriali delle nostre genitrici il fatto che risulta oltremodo pericoloso "toccare" la MAMMA ad un detenuto.

L’ago e il filo.

Un’associazione a delinquere finalizzata a farti diventare isterico.

"Bisogna inumidirlo con la saliva!", mi ha detto un vecchio, saggio galeotto che portava sempre la camicia allacciata di sbieco, non riuscendo a capire se aveva un bottone di troppo o un occhiello di meno.

Allora, scoraggiato e non essendo riuscito a trovare uno di quei cammelli miscroscoici che sono soliti attraversare le crune degli aghi (pensavo di legargli il filo alla coda), mi sono rivolto a N., il trovarobe della sezione, il quale riesce a procurarti di tutto. Ed è così che, in cambio di un pacchetto di Alfa con filtro, sono diventato felice possessore di un ago (da lana (?) mi ha detto), un po’ grosso, per la verità, ma con una di quelle crune attraverso la quale passerebbe pure un "uomo ricco" tenendo il mio filo in mano.

Bene: il primo orlo è completato. Un tè, una sigaretta e poi passo al secondo. Per questa sera devo aver finito, se voglio indossare questi pantaloni domani per andare al Tribunale di Sorveglianza dove mi discuteranno la richiesta di liberazione anticipata. Novanta giorni all’anno di sconto pena, subordinati al buon comportamento tenuto.

Buon comportamento… rapido esame (di coscienza) mentre metto il bricco con l’acqua sul fornelletto. Allora. rapporti disciplinari? Che io sappia, non ne ho presi. Comportamento in questo anno? Complessivamente buono. Non ho rotto le scatole in modo particolare, cioè, più del necessario… a parte quella volta che non mi hanno ritirato il pacco speditomi da C. perché superava di un etto il peso consentito. 5 Kg!

Accidenti, se mi sono incazzato quella volta! Non mi hanno fatto rapporto perché erano dalla parte del torto, poi in quell’altra occasione, no! Lì avevo proprio torto io…, ma hanno lasciato perdere. Sì, questo posto genera instabilità emotiva anche nei più equilibrati… dura la convivenza quando consideri i rapporti, spesso, in termini di conflitto. Spengo il fornello e accendo una sigaretta. Do un occhio alla televisione, quadro vivente, amico ideale: sta accesa, volume al minimo per la maggior parte della giornata, quando ti stanchi la puoi spegnere; un compagno di stanza no!

Stanno trasmettendo un documentario sugli animali marini.

Guarda le foche… la miseria… vedi tu, anche loro lo fanno e noi no!

Spengo la sigaretta e la televisione, torno ai pantaloni. Sento lo sferragliare di un carrello lungo il corridoio. E’ troppo presto per la cena, penso. Ecco che arriva, ma… accidenti, è G.!

- Ciao T. come va? -, mi dice.

Mi riprendo dalla sorpresa.

- Ciao Papavero, cosa ci fai qui? Cosa è successo?

- I casi della vita! risponde. Ti racconto dopo. Sempre alle cinque la socialità?

- Sì, alle cinque, ma dove ti hanno messo?

- Alla diciotto, chi c’è là?

- A., un tipo a posto. Metti giù la roba e vieni qua. Ti va un tè o faccio il caffè?

- Caffè, grazie, il tè lo lascio a voi cinesi.

- Ti aspetto, ciao.

Se ne va. Devo controllare se mi è rimasto del caffè, ne tengo sempre una scorta per gli ospiti. Ma vedi un po’, penso preparando la moka, se n’è uscito sei mesi fa ed è nuovamente qui.

D’altronde non si scommette più sulla probabilità che uno rientri o no, ma su quanto tempo riuscirà a star fuori.

G., il papavero, non avendo né casa né famiglia, non era molto favorito dal pronostico, ma non si pensava nemmeno che tornasse così presto.

- Arrivo subito! -, mi dice al volo ripassando con il carrello vuoto, io intanto riprendo ago e filo.

Altro rumore di ferro in movimento, sono quasi le cinque, questa è la cena. Ecco Totò.

- Ciao T., hai visto chi è tornato? Durato poco vero?

- Ciao, ho visto: sei mesi, o giù di lì… che vuoi fare, siamo carne da galera -, considero a voce alta.

- Hai ragione, più che un problema sociale noi siamo un affare. Pensa un po’ se tutti decidessimo di mettere la testa a posto, non fare più danni, che ne sarebbe di giudici, sbirri assortiti e di tutto l’apparato mastodontico che ruota attorno al carcere? Credi a me, cavalieri del lavoro dovrebbero farci!

- Cazzo - , ribatto in tono sconsolato - sentivamo proprio il bisogno di un portavitto filosofo, dopo il "pensiero debole" il "pensiero pirla". Dai, TotòKant, che c’è da mangiare?

Solita domanda oziosa.

- Vedi qua, nemico delle scienze umanistiche, se non ci fossimo noi, a chi le darebbero ‘ste saponette?-, dice indicando sul carrello le porzioni di formaggio che, per forma e sapore, ricordano il sapone di Marsiglia bianco.

- Tu la compreresti roba del genere?

- Ma va Gabibbo, dalle tue parti mangiate solo fichi d’India in insalata, spine e tutto, e qui ti lamenti.

- Senti, polentone, quando i tuoi antenati non avevano ancora inventato il filo per tagliare la polenta nella mia civilissima terra usavano già la forchetta e il coltello, ricordalo!

- Certo -, ribatto, - per non pungersi con i fichi d’India.

Anche stasera ci siamo scambiati i complimenti: è un gioco che continua da quando ci siamo conosciuti, appunto perché siamo amici.

- Allora, troglodita di fatto e di gusti, lo vuoi ‘sto sapone? No? Minestra, insalata ... no?

- Vai a giocare a carte alla dodici dopo?

- No, viene qui G., vai tu, puoi giocare in coppia con M. -, gli propongo.

Un cenno di saluto e Totò se ne va. Arriva G. Entra e ci abbracciamo.

- Siedi, un minuto ed è pronto il caffè, poi parliamo, d’accordo?

Si siede sul letto - Qui le cose come vanno? chiede.

- Sempre la solita storia, gente che va, gente che viene… come te, e gente che resta, come me, tutto qui.

- Sai, T., sono stufo di questa vita di galera, non ne posso più -, lo sento dire in tono monocorde.

Ma perché non sei riuscito a rimanere fuori almeno tu, penso senza fargli la domanda, tanto quando sarà pronto me lo dirà lui.

Spengo il fornello, verso il caffè nei bicchieri e torno da lui.

- Le sigarette sono sul tavolo -, dico.

- Sai quanti giorni sono stato fuori? -, mi chiede.

Non lo so e glielo dico.

- Giusto sessantasette giorni, dopo cinque anni di galera: sessantasette giorni e ora altri quattro anni e rotti… bastarda la vita!

Si incazza più con se stesso che con la vita, mi pare di intuire.

- Senti -, gli dico, - abbassa il volume, anche se tutto il carcere non sente le tue sfighe fa lo stesso. Qui c’è gente che è messa peggio di te, quindi siedi, bevi il caffè che si sta raffreddando e racconta.

Si calma, beve il caffè.

- Mi passi una sigaretta? chiede.

Gli lancio il pacchetto, ne sfila una e l’accende, espira il fumo assieme a parole iniziando a raccontare.

Il racconto di G. alla prossima puntata.