Un’ordinarla giornata… di carcere

 

Seconda puntata: dalle docce al pranzo con polli a sei cosce

 

Di Tiziano Fabbian, giugno 1999

 

Gli amici di Legambiente senz’altro si appassionerebbero a studiare le nostro docce: qui, al Due Palazzi, possiamo vantare un raro esempio di biotopo a soffitto! A causa dell’umidità, sempre presente in questo locale (quando hanno costruito il carcere erano talmente impegnati a fare buchi nei fondi stanziati, che si sono dimenticati dei fori di ventilazione nelle docce), a causa dell’umidità, dicevo, oltre a poter godere di uno scenario da mini-Postumia, stalattiti e stalagmiti in erba. Il soffitto è coperto da un fitto strato di muschio e flora varia, tipo sottobosco di un verde brillante e pullulante di fauna, non solo batterica, suppongo.

Perché non pubblicizziamo la cosa?

Per il timore che il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, sempre restio a sprecare soldi, sotto la spinta delle varie associazioni ecologiste, decida di passare la responsabilità, per competenza, al ministero dell’Ambiente. Al Ministero dell’Ambiente, sempre restio a sprecare soldi, rimarrebbe come unica soluzione, per lasciare tutto così come si trova, il dichiarare i nostri locali-doccia oasi naturali e, non potendosi sbarazzare di noi detenuti, nei giorni di visita guidata per il pubblico costringerci a travestirci da papere e a starnazzare, appesi al soffitto.

"Agente, mi fermo un attimo a bere il caffè alla 6".

"Va bene, ma faccia presto, non vorrei salisse il capoposto…".

"Ciao, R.!", "Buongiorno, T.!", metto il bicchiere monouso sullo spioncino.

"Che fai per pranzo?" mi chiede versando il caffè. "Oggi ho da scrivere… quindi, casanza*.

"Perché non vieni qui? Sto preparando il ragù, faccio una pastasciutta, ti va?".

"Volentieri, grazie".

"Vai in doccia?", chiede.

"Perché, conciato così dove dovrei andare? A giocare a golf con il direttore?".

"Spiritoso!".

Volevo dirti, che dal momento che vai in doccia, al ritorno potresti portare un po’ di funghi da aggiungere al ragù". E ridiamo. Sì, perché, dato il muschio, è credenza comune che nel periodo di plenilunio sul soffitto spuntino anche i funghi.

"F. la doccia!", interrompe l’ilarità l’agente; accidenti, me ne ero dimenticato.

"Vado subito!", rispondo, "… Ciao, ci vediamo a mezzogiorno…".

Bene, tra un salto e l’altro, sono riuscito, anche oggi, a lavarmi e a fare il bucato.

Torno in cella e stendo la biancheria ad asciugare, in bagno.

Intanto penso alla lettera che scriverò a C., non so più che dirle.

Indubbiamente é piacevole ricevere posta, ma dopo tanto tempo durante il quale gli unici contatti con l’esterno sono stati la corrispondenza epistolare e sporadici, in quanto costosi, colloqui, si stenta a riconoscere anche gli affetti.

All’inizio, appena entrato, quando ancora i ricordi dei trascorsi comuni ci univano ed emozionavano, parlare e scrivere erano necessità, ma ora, dopo tanti anni di vite ed esperienze separate, anche i ricordi hanno perso il loro spessore, diventando sottili come diapositive. E penso: com’è possibile far procedere un rapporto affettivo essendo legati, ora, unicamente dai souvenir da un vecchio viaggio compiuto assieme?

No… questo, per lettera, non posso dirglielo… aspetterò il primo permesso-premio a casa.

"Ma quando vieni a casa in permesso?": domanda ricorrente, da parte sua. Giorni fa le ho scritto: "Ciao C., ieri ho fatto la domandina per parlare con l’educatrice. Vorrei mi dicesse, visto che l’equipe mi ha chiuso la sintesi, se in questa hanno previsto, come attività trattamentale, la possibilità di fruizione di benefici esterni, così potrò presentare istanza al magistrato di sorveglianza per il permesso premio… Ho voglia di vederti".

M’ha risposto: "Carissimo T., l’unica cosa che ho capito della tua lettera è che hai voglia di vedermi. Per il resto, penso sia ora ti mandino a casa, perché inizi a parlare in modo strano. Cambiando discorso, avete uno psicologo lì? Potete consultarlo? Preoccupatamente tua C.".

Questo in sintesi il contenuto della sua. Possibile, mi sono chiesto, qualsiasi detenuto riuscirebbe a capire quanto le ho detto, è linguaggio comune, qui in carcere.

Vuoi vedere che di questo passo dovrò allegare alle mie lettere un glossario… carcerario?

Un tempo ci si capiva anche stando in silenzio, ora… Penso, penso, e il foglio resta bianco…, quasi quasi, scrivo a J., anche lui in carcere, almeno capisce quanto dico.

Allora: "Ciao J., come va, ieri e venuto il corvo, mi ha portato un altro cumulo, e sono sei berrette in più perché si sono accorti del condono del ‘90 e l’hanno revocato…". Bene, anche questa è fatta…

"Panini illustrati, giornali imbottiti, pop-corn e tric-trac… se magna, forza gente".

Questo è Totò, il portavitto colpisce ancora! Manca 20’ alle dodici. Con un cigolio di ruote il carrello arriva.

"Ciao Totò", lo saluto.

"Ciao T., prendi qualcosa?".

"Che consiglia lo chef?". Domanda oziosa, in quanto ogni giorno della settimana ha il suo menù fisso.

"Lo chef consiglia il digiuno, così mi sbrigo presto, ma se insisti: pasta in rosso, coscia di pollo e patate lesse", "Dammi solo il pollo, stasera lo riciclo".

"Ok! Guarda che bestie: ma dove li trovano i polli con cosce così lunghe e ossute? Questi sono polli da salto in lungo".

"Saranno clonati, "Dolly" all’italiana, polli con sei zampe, così con uno sfami sei piccioni detenuti. Ad ogni modo, siamo sempre a criticare… li avessero in Africa…".

"E che vorresti, che per quei quattro soldi che mi pagano andassi fin laggiù con il carrello?".

"Sei una bestia insensibile!".

"E tu una bestia… e basta! Vuoi altro… no… ci vediamo all’aria, oggi?".

"No, ho un mucchio di cose da fare, un’altra volta, ciao".

"Ok ciao!".

 

A pranzo con qualche tristezza

Mezzogiorno. L’agente apre i cancelli per la socialità ed esco.

"Ciao R. sono qui, sei pronto?".

"Mannaggia, che faccia, ti è morto il gatto?".

"Hai sentito di E., quello del 4°?".

"No, che è successo?". "Se ne è andato… voglio dire… l’hanno trovato questa mattina in bagno stecchito".

"Morto? Ma come è successo? Chi te lo ha detto?".

"Prima ha bussato M., quello del piano di sotto, mi ha detto che lo ha trovato una guardia, con un sacchetto della spazzatura infilato in testa, legato intorno al collo, e una bomboletta di gas dentro". "Ma perché lo ha fatto, cazzo! E’ il terzo fino ad ora!".

"Non si sa… gli mancavano pochi mesi per uscire…, ha tenuto duro per tanti anni…". Sprofondiamo nei nostri pensieri. Perché? Sono tornato in cella. Il cibo era amaro. Abbiamo mangiato in silenzio. Accendo una sigaretta e la televisione, tra poco ci sarà il notiziario regionale. Scommetto che anche per questa, come per le altre volte, non si parlerà di quanto è successo. Chi era E. per fare notizia? Chi, di importante, lo conosceva? Mi sa, non si ricorderanno di lui, neanche gli sbirri che una vita fa lo hanno arrestato. Perché?

L’avevo invitato a cena, un paio di volte, non potevamo dirci amici, ma neanche estranei. In una di quelle occasioni mi aveva parlato di sua moglie, in A.I.D.S. all’ospedale, e di suo figlio del quale non sapeva più nulla, da quando era scappato dalla comunità per tossicodipendenti che lo ospitava.

Al tempo, lui non usciva ancora in permesso ed io ammiravo la sua forza d’animo, che, nonostante la situazione familiare disastrosa con la quale doveva fare i conti, gli permetteva ancora di essere amabile nei rapporti con il prossimo. Poi, circa un anno fa, ha iniziato ad uscire in permesso-premio e, da quel giorno (già al suo rientro), non era più la persona che avevamo conosciuto. Non scherzava, non rideva più, non cercava la compagnia ma la solitudine. Ci chiedevamo che gli fosse successo: aveva forse passato talmente tanti anni in carcere da non sentire il gusto della "libertà"?

Libertà poi è una parola di cui ci riempiamo ogni giorno la testa e la bocca. Non l’abbiamo, la desideriamo con tutte le forze, maledicendo quanti ce la negano. Libertà idealizzata, voglia di ricominciare, possibilità di avere un futuro nel quale costruire qualcosa di nostro: un lavoro, una casa, magari una famiglia. Qualcuno che ti aspetti, che ti consideri importante e creda in te. Un cammino di compagnia, non di solitudine, un pezzo di vita ed affetti da offrire, da condividere.

Poi, finito di pagare il tuo "debito", ti buttano fuori nella vita con un "buona fortuna!", che suona come un arrivederci.

Ed ecco Charlot, con in mano una valigia piena di progetti ma vuota di prospettive concrete, si avvia verso l’orizzonte; ad ogni passo che fa nella realtà, perde per strada un pezzo del progetto di vita serena, che si era costruito in tanti anni di inutile galera.

Probabilmente ad E., uscendo, la realtà ha strappato di mano la valigia, lasciandolo solo e senza sogni. Per chi uscire allora? Per chi vivere ancora?

E nel momento stesso nel quale mi pongo queste domande, capisco cosa posso scrivere a C.

Prendo carta e penna: "Ehi tu! Grazie di esserci. Grazie della possibilità che mi dai, anche solo di sognare una vita diversa.

Cambiando discorso. Sì! lo psicologo c’è. Sì! Lo possiamo consultare; non sto diventando matto, ho solo bisogno che la mia ombra si ricolleghi al mio corpo.

 

* Vitto della casanza: è quello che passa il carcere