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Bolzano città di confine anni ‘80...
In carcere, anni di prima "convivenza forzata" tra italiani e stranieri
Di Tiziano Fabbian, novembre 2000
Bolzano, nella cui Casa Circondariale mi trovavo verso la fine degli anni ‘80, essendo prossima ad un noto valico di frontiera aveva abituato noi, suoi ospiti-detenuti, a condividere normalmente lo spazio con cittadini stranieri di diversa nazionalità, tedeschi, olandesi, spagnoli, ognuno di loro portatore di una sua particolare cultura, ma tutte sviluppatesi in ambito occidentale. Culture che, pur differenziandosi nei particolari, concordavano nella sostanza in quanto, negli innumerevoli incontri-scontri avutisi nei secoli precedenti, s’erano, per necessità o per scelta, compenetrate a vicenda. Quindi, quanto rimaneva a distinguere una cultura, da una parte o dall’altra veniva considerato come curiosità, un tratto distintivo buffo al quale appigliarsi per costruire uno sfottò e farci delle grasse risate. Le diversità ci univano, non creavano certo distanze tra noi. Inutile dire che la convivenza, anche se forzata, non s’era mai posta come problema, la vivevamo in modo naturale.
Per loro, l’italiano era "arabo" e per noi l’arabo… rimaneva tale In quegli anni, iniziarono ad entrare in carcere, pochi per volta, quegli stranieri di nazionalità maghrebina destinati, assieme ai profughi dell’area dei Balcani, a costituire qui in Italia quella nuova fascia dell’emarginazione estrema alla quale, a tutt’oggi, non si riesce a dare soluzione. Erano persone, a quanto ricordo, dignitose nella loro indigenza. Infatti, ciò che le accomunava oltre al reato, detenzione o spaccio di eroina, era la mancanza cronica di mezzi economici di sostentamento. Pur dovendo, per forza di cose, convivere in stanze con diverse persone di nazionalità differenti, in un certo senso si trovavano isolati dalla vita della cella non per volontà nostra o loro, ma unicamente per il fatto che non si riusciva a comunicare se non a gesti: per loro, l’italiano era "arabo" e per noi, l’arabo… rimaneva tale. Anche con queste nuove presenze tra noi, non sorse il problema della convivenza ma qualcosa che definirei tragico: da parte loro si stava verificando uno strano tipo di integrazione, un’integrazione muta nella quale non avevano parola. Poi, in poco tempo, in un crescendo giudiziario wagneriano, la presenza di stranieri magrebini iniziò a salire irresistibilmente la scala delle percentuali nel già sovraffollato carcere di Bolzano (e con questo ricordiamo che il fenomeno del sovraffollamento nelle carceri risale perlomeno a 15 anni fa). Presto, la presenza di ragazzi magrebini raggiunse punte del 50-60% dell’intera popolazione detenuta. Cosa comportò questo, per noi, per loro, e per la Direzione dell’Istituto? Per gli autoctoni, significò improvvisi trasferimenti attuati d’urgenza in altri carceri del nord Italia, questo, per fare fronte alla necessità di reperire posti letto ai nuovi giunti. Significò, oltre ai disagi che un trasferimento comporta, una lunga serie di problemi di carattere affettivo ed economico legati ai nuovi costi da affrontare da parte dei familiari per recarsi a colloquio in città a volte distanti centinaia di chilometri.
Un bel giorno, per esigenze di spazio, le brande da singole diventarono a castello fino al 3° piano Per quelli come me, che rimasero in quell’Istituto, significò "restringersi", in vari sensi. Per esigenze di spazio le brande da singole diventarono, neanche tanto progressivamente, a castello fino al 3° piano con il rischio di rovinose cadute notturne; significò sottostare a nuove restrizioni nel modus vivendi sino ad allora permesso, in quanto la direzione e il personale addetto alla custodia, non possedendo né la preparazione né i mezzi per fare fronte a questa nuova emergenza, nell’emergenza endemica in cui versa da sempre il carcere, per questioni legate alla sicurezza decisero di dare il solito "giro di vite" alle già scarse permissioni. Che cambiò per gli stranieri maghrebini? Man mano che la presenza di connazionali si consolidò numericamente, anche quelli che si trovavano da tempo in cella con noi se ne andarono per mettersi assieme ai loro compaesani, dove, perlomeno, a sera potevano "ricordare" casa, con persone che li potevano capire. E il carcere si divise in sezioni per italiani ed affini e sezioni per maghrebini. Se prima c’eravamo trovati a vivere in una situazione caratterizzata dal pluralismo sociale, condizione che culturalmente riconoscevamo e che non richiedeva grandi doti d’adattamento, con l’immissione massiccia in carcere di tunisini, marocchini e algerini, la scena cambiò completamente e ci ritrovammo a fare i conti con una realtà a tutti completamente sconosciuta, caratterizzata dalla promiscuità multietnica. Qui serve un breve inciso. Il carcere è un luogo particolare dove, quando con un perverso mix di "concessioni su compromesso" si riesce a raggiungere un punto di equilibrio, ogni cambiamento viene a priori considerato foriero di disgrazia, quindi non ci si limita al solo guardarlo con sospetto ma, senza averne capito prima la portata, lo si osteggia fin dall’inizio apertamente, non aprendosi ad esso ma richiudendosi a difesa. Quindi, per reazione a questa nuova situazione, all’interno di quella "realtà obbligata" rappresentata dal carcere, si crearono delle forti identità di gruppo caratterizzate dalla stessa appartenenza etnica, ed ognuno di questi gruppi reclamava a gran voce spazi propri dove affermare e manifestare la propria specificità culturale. La diversità culturale che all’inizio, magari per curiosità (ma è sempre un buon inizio), ci aveva unito nella disgrazia comune della carcerazione, ora stava diventando il motivo che, a larghe bracciate, ci allontanava sempre più gli uni dagli altri. Già lo si dovrebbe sapere, in carcere un caffè ed una sigaretta per tradizione non si negano ad alcuno, per cui, anche in un Istituto piccolo come quello nel quale ci trovavamo, una decina di persone, anche del tutto sprovviste di soldi, non avevano difficoltà ad assicurarsi dagli altri "benestanti" queste piccole soddisfazioni che rendono appena un po’ più tollerabile la carcerazione. Ma quando "gli sprovvisti di tutto" iniziano a diventare 70/80 e proporzionalmente, per fare posto a loro, diminuisce la percentuale di chi qualche lira se la può permettere, si sta male tutti, chi non ha nulla e chi si vergogna del poco che può permettersi.
Che cosa può provare un ragazzo, un giovane, sradicato da tutto ciò che culturalmente l’ha nutrito, costruito e definito? E si arrivò presto a questo punto, perché per la Giustizia a volte ciò che conta è mettere in galera chi sbaglia e poi dimenticarsene, assolto il compito. Tutti i problemi che ne conseguono vengono gettati sulle spalle dei detenuti, tradizionalmente deputati alla risoluzione di ciò del quale non ci si vuole occupare. Non ci sono soldi? mantieniti e mantieni, se t’è possibile, chi non ne ha. Ti mettono in cella gente da ospedale psichiatrico? arrangiati a costo di uscire matto anche tu. C’è gente che cade in depressione? trasformati in psicologo o psichiatra e vedi di tenere sotto controllo la situazione; e così via. Se poi scoppiano incidenti, i rapporti disciplinari, le denunce, la perdita dei benefici investiranno solo te. Così funziona il carcere. Ma torniamo alla nostra storia: e poi che successe? Successe che alcuni detenuti maghrebini decisero di fare degli espropri sottoproletari ai proletari e da questo iniziarono i guai grossi per tutti. Non è vero che gli italiani sono tutti di cuore buono e antirazzisti. Ma è anche vero che sarebbe sbagliato considerare tutti gli stranieri come degli ingenui sprovveduti venuti apposta in Italia per guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte e poi caduti preda di loro loschi connazionali che li hanno costretti a delinquere. Dall’ ‘83 ad oggi, ne ho conosciuti a centinaia, e alcuni di loro erano razzisti all’estremo e persone partite dal loro paese unicamente per spacciare droga qui da noi. Allora, dopo questi espropri, del resto reiterati, iniziarono i guai. Si passò dalle scaramucce verbali alle risse e poi alla guerra vera e propria, non scevra di spargimento di sangue, ossa rotte, ed infine, nella battaglia finale, lancio di bombolette di gas incendiate (che per fortuna, esplodendo, fanno più rumore che altro) nelle celle dove s’erano arroccati i magrebini assediati. Finché, dopo tutto questo, il buon senso prevalse da ambo le parti: si ghettizzarono le persone che avevano dato il via a quel genere di situazione e pian piano si crearono le premesse per capirci e convivere serenamente. Riuscimmo anche in questo, per un buon periodo. Ma prima, vediamo come era messo uno straniero magrebino quando entrava in carcere. Tre fattori principali li accomunavano: il reato, l’indigenza e l’incapacità d’esprimersi, non solo in italiano ma nemmeno in francese o inglese. Ritenendo di possedere una buona immaginazione e una discreta facoltà d’immedesimazione, a volte uso queste "doti" per tentare d’immergermi nella situazione che sta vivendo un’altra persona in modo da capirne determinate reazioni all’apparenza illogiche. Nel caso dei ragazzi magrebini, pur avendo provato a immedesimarmi nella loro situazione, sono certo di non avere mai capito, appieno, i sentimenti che può provare un ragazzo, un giovane, sradicato da tutto ciò che culturalmente l’ha nutrito, costruito e definito. E’ stata una sua scelta! mi si potrà obiettare, ma a 20 anni, una scelta è veramente tale? In una situazione del genere può provare solo un sentimento profondo: un non sapersi più riconoscere né identificare. E tutto ciò amplificato dal fatto di trovarsi rinchiuso in una istituzione assoluta come il carcere, assoluta anche nella spersonalizzazione di fatto della persona fagocitata. E’ la perdita anche dello spirito di reazione razionale: come reagisci? a cosa reagisci, di fronte ad una situazione esistenziale-giudiziaria in evoluzione, della quale niente capisci e nella quale non ti si mette in condizione di capire? Allora, il signor K. magrebino non reagisce come il Kafkhiano signor europeo, non accetta, vittima sacrificale, passivo, una sentenza prestabilita di condanna, ma reagisce violentemente, il più delle volte indirizzando l’aggressività contro se stesso in gesti autolesionistici. Un modo di riaffermare la proprietà sul proprio corpo e la propria esistenza più che un "grido d’aiuto", che è quello che, come al solito sdrammatizzando le responsabilità, si tende a far credere. Per certi versi il carcere è un luogo dove le urla non trovano nessuno che le raccolga. Come siamo riusciti in quegli anni a costruire un modello di convivenza sereno con queste persone? Partendo dalla nostra esperienza, valida sia in ambito "esterno" che carcerario. Se vuoi che mi comporti da persona civile, vedi di trattarmi come tale; se mi tratti come un animale, da animale mi comporterò. Parecchi ricorderanno come risultavano essere le carceri nel periodo nel quale un detenuto era trattato come un subumano. Violenze, rivolte, vandalismo e omicidi erano all’ordine del giorno. Quando poi s’è pensato di umanizzare le carceri e la detenzione, dalla normalità, in simili comportamenti, s’è passati all’eccezione. In base a queste esperienze abbiamo iniziato a vedere in loro unicamente delle persone. Non persone-extracomunitarie, né persone-ospiti nel nostro paese, né persone-culturalmente-diverse, ma solo persone senza alcun aggettivo a circoscriverle. Tutt’al più, persone con maggiori problemi rispetto a tanti di noi, ma non loro stesse "problemi", solo persone. Se vuoi conquistare l’amicizia e il rispetto di una persona devi considerarti pari a lei. Chi dice, offrendoti il suo aiuto, di volersi mettere al tuo livello, sbaglia in partenza, tra esseri umani non esiste nessun tipo di livello, esiste solo l’essere umano. Tutto il resto, è razzismo.
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