Viaggio al bunker e (per fortuna) ritorno

 

Di Tiziano Fabbian, agosto 2000

 

Le disgrazie, come si sa, non arrivano mai da sole. Qui in carcere abbiamo un detto, ironico quanto appropriato, per esprimere l’intensità con la quale la sfortuna, in certi periodi, ti si accanisce contro.

Un detto, purtroppo non riportabile in questa sede, in quanto il linguaggio con il quale è formulato risulterebbe essere troppo colorito per gli attuali canoni del "comune senso del pudore".

E proprio questo detto, d’istinto l’ho recitato tra me quando, durante la fruizione di un permesso premio, mi sono trovato ammalato. Una febbre improvvisa, quanto misteriosa, ha indotto i sanitari del carcere, dopo il mio rientro dal permesso, a consigliare il mio ricovero presso il locale nosocomio, per un approfondimento di analisi. Ricovero, naturalmente, nell’apposito reparto ospedaliero riservato ai detenuti, il famigerato bunker.

Decisione, quella dei medici, da me accolta con una certa preoccupazione in quanto ricordavo che in uno dei primi numeri della nostra rivista avevamo pubblicato l’intervista ad una persona detenuta che, in seguito a problemi dermatologici, s’era ritrovata al bunker.

Aveva raccontato questo suo incontro come può farlo un sopravvissuto ad una esperienza allucinante, talmente insopportabile da indurlo, dopo 5 giorni e senza alcun miglioramento nel suo stato di salute, a chiedere d’essere dimesso da tale reparto, trovando preferibile tornare in carcere. Ma ricordavo inoltre che a piè d’intervista riportavamo pure la notizia che il Magistrato di Sorveglianza di Padova s’era recato in visita ai detenuti ospiti del bunker e, in seguito a questo, ci si augurava che le condizioni di ricovero in detenzione sarebbero diventate più umane. In questa speranza cercavo un po’ di sollievo alla mia preoccupazione.

E così, passata circa mezz’ora da quando il medico m’ha comunicato la lieta novella, portando con me unicamente quanto indosso, vestiti e febbre a 39 e rotti, mi trovo ammanettato e immobilizzato con cinghie ad una barella dentro l’autoambulanza, "il silenzio degli innocenti". E la maschera da hockei, quando me la mettete? chiedo al personale d’accompagnamento. "Come?", "Niente, lasciamo perdere".

Il viaggio dura una ventina di minuti, dopodiché, io e la mia delusione (non avevano acceso la sirena!) arriviamo al pronto soccorso.

Rimaniamo lì per un paio d’ore abbondanti, il tempo per avere i risultati delle prime analisi effettuatemi. Due ore e più nelle quali non sono fatto oggetto d’analisi unicamente dal personale sanitario, ma anche dalle numerose persone che si trovano a sostare, o passare, per i locali d’ambulatorio e mi vedono disteso su di una barella, ben ammanettato e affiancato da due agenti di Polizia Penitenziaria in divisa e con tanto di pistola d’ordinanza nella fondina.

Chissà che impressione di pericolosità sto loro comunicando, penso, non sanno che meno di due giorni fa, in permesso premio, stavo "libero" tra loro… e nessuno mi considerava pericoloso.

Ecco, sono in permesso e me ne vado libero per la città, mescolandomi, discorrendo e scherzando con la gente; rientro in carcere e improvvisamente mi ritrasformo in un pericolo pubblico che, se riportato tra quelle stesse persone, dev’essere ammanettato e accompagnato da una scorta armata. Tutto ciò è fuori della mia portata, non riuscirò ma a capire simili cose.

Nel frattempo, il medico del pronto soccorso, constatata la necessità, ha firmato le carte per il mio ricovero. Un breve tragitto ed eccomi al bunker, uno stretto corridoio a L che nel lato più lungo presenta tre porte blindate munite di spioncino in vetro antiproiettile, sono le ‘celle’ di degenza.

Mi tolgono le manette e mi fanno entrare nella stanza che sta in fondo al corridoio .

E’ accesa solo la luce notturna; l’ambiente mi sembra grande, vi sono due soli letti uno de quali occupato da una persona che pare stia dormendo. Mi dispiace disturbarla. Dopo pochi minuti entrano un paio di persone in camice bianco e subito si danno da fare per prepararmi il letto e, poi, un paio d’altre che, fattomi sdraiare, mi visitano facendomi un mucchio di domande. È l’una di notte, sono stanco ed ho sonno, spero solo che se ne vadano in fretta.

Rimasto solo (l’altra persona non ha dato cenno di vita), mi addormento, per risvegliarmi di lì a qualche ora a causa di uno scroscio d’acqua. È il "bell’addormentato", che svegliatosi sta facendo la doccia, alle sei di mattina, mi dice l’orologio.

Bell’educazione, penso. Sono sveglio, oramai, tanto vale mi renda conto della situazione abitativa della quale sono ospite. È una stanza grande a pianta rettangolare con il soffitto molto alto. Su di lato, un paio di grandi finestre, ognuna con le sue belle sbarre, e sigillate a filo muro con un pannello in plexigas (o vetro), attraverso il quale scorgo la sommità, piena di foglie, di alcuni alberi.

A qualche metro dal mio, c’è il letto del mio coinquilino, l’uomo attualmente in ammollo. Letti, non d’ospedale, ma rigorosamente, colore e tutto, uguali a quelli che abbiamo in carcere, vere "brande d.o.c.", naturalmente fissate al pavimento.

Dovrebbero essere tre ma, ho poi saputo, sempre il mio coinquilino, a causa di un raptus il terzo l’ha divelto, smontato ed usato la testiera come clava.

Se ne vedono ancora i segni sul muro. Vicino ai letti, due mensole in acciaio inox luride. Di fronte a me, sulla sinistra e prospiciente la porta d’ingresso con lo spioncino, in bella vista sta un water - scultura, in acciaio inox e più lurido della mensola.

Alla destra della scultura, ad un’altezza di un paio di metri, dalla parete esce un moncone di tubo di ferro, questa è la doccia, in stile essenzial – moderno, penso.

Di fronte alle due opere d’arte, a circa un paio di metri, si alza fino al soffitto un muro largo, anche, un paio di metri e, su di esso, un’altra scultura sempre in acciaio inox, che nell’intenzione dell’artista che l’ha creata dovrebbe rappresentare un lavandino; naturalmente lurido come il water e le mensole.

Penso che, dopo questa esperienza, all’acciaio inossidabile assocerò sempre un senso di sporcizia. Nella stanza, un’aria mefitica, mossa da un ventilatore d’ospedale, cioè ammalato anche lui, e penso di schizofrenia, dal momento che a tratti funziona e a tratti no. Per i rifiuti, nessuna pattumiera, solo un sacco per l’immondizia abbandonato per terra, dal momento che viene ritirato solo una volta al giorno, la mattina, contenente gli avanzi di pranzo e cena.

Una curiosità, forse per ingentilire l’ambiente, dopo tutto siamo in ospedale: il sacco non è di colore nero, come comunemente s’usa, bensì di un bel colore rosa; penso che, d’ora in poi, a questo colore assocerò l’impressione di cattivo odore.

Buona Pasqua, T., mi auguro, appena constatata la situazione, ed è, infatti, domenica 23 aprile. Rimango al bunker per sei giorni, dopodiché, d’accordo con il medico che segue il mio caso, ritorno qui in carcere. Alcune considerazioni relative a questa esperienza, mi auguro possano indurre chi ne ha la competenza ad ‘estirpare’ questa vera e propria vergogna, il bunker, indegna di una città che, come Padova, vanta tradizioni umanistiche.

Contrariamente al carcere dove, non le mura, ma determinate persone mettono a dura prova il tuo senso di sopportazione, al bunker è proprio la situazione fisica del luogo che ti rende insopportabile la degenza: una stanza con finestre sbarrate e sigillate, una porta blindata, una sensazione di chiuso mai provata, ed è impossibile, dopo un po’ di tempo, non farsi prendere dall’angoscia claustrofobica.

I servizi igienici (?), collocati a vista in un angolo della stanza, senza che vi sia perlomeno una tenda ad assicurarti il minimo di privacy, garantiscono ulteriori disagi fisici, provocati da una forma di stipsi autoindotta da ovvi motivi.

Poi, come non bastasse, l’igiene in primo luogo, assicurata dal sacco (rosa) per i rifiuti, lasciato a tenerti compagnia per ventiquattr’ore con il suo contenuto, e poi, delle solerti signore addette alle pulizie giornaliere (?) delle celle di degenza, le quali, ogni mattina, e solo le più scrupolose, fanno a finta di pulire lavandino e water, le altre se ne sbattono e passano direttamente, con la cosiddetta scopa, a spalmare lo sporco su e giù per la stanza.

Naturalmente, dal momento che non scopano, se incontrano qualcosa di solido sul pavimento, pezzi di carta o altri rifiuti, in mancanza del tappeto sotto il quale nasconderli, li spingono sotto il sacco rosa.

Non ricordo quale giorno (li ho vissuti con Alice, nel paese delle stranezze) ho visto un agente arrabbiarsi veramente con una di queste dispensatrici d’igiene, contestandole il fatto che da parecchi giorni non venivano più effettuate le pulizie nella cella, e intimandole poi di provvedere, altrimenti avrebbe fatto rapporto a chi di dovere. Risultato: quel giorno, invece degli usuali 40 secondi di pulizia, ne ottenemmo dai 45 ai 50!

Un’ultima considerazione: il più scalcagnato dei nostri "scopini" è da considerarsi un artista, rispetto a queste "professioniste". Poi, la luce sempre accesa la notte, lo sciacquone del bagno che non funzione e, per ottenere appena un rivolo d’acqua, devi infilare le mani in una cassetta nel muro, cercare e svitare una valvola, tipo quella dei termosifoni; la mancanza di un campanello per le chiamate d’emergenza in prossimità del letto ti costringe, in caso di malore, a trasportare treppiede, flebo e te stesso, fino alla porta in fondo alla stanza, e bussare per avere aiuto.

Di seguito, non avere alcun mezzo per lavarti la biancheria (non tutti hanno la famiglia a Padova che può provvedere a questo), significa stare per giorni e giorni con gli stessi indumenti addosso, non avere uno specchio per farti la barba e così via. Tutto questo è il risultato dell’aver voluto esportare la "mentalità carceraria" anche all’esterno, in un ospedale. E tu, in questa situazione, provi chiaro il senso che ti si voglia punire per esserti ammalato, infatti, la malattia in carcere viene considerata alla stregua di un’infrazione disciplinare e come tale trattata. Per i casi (d’infrazione) più gravi, come sanzione, ti si condanna all’isolamento continuo, fino a quando ti ravvederai, isolamento non in carcere, ma al bunker.

L’articolo 68 del D.P.R. 431/76, che tra l’altro regolamenta l’isolamento continuo per ragioni sanitarie, dice che può essere applicato solamente in presenza di malattia contagiosa e prosegue: "durante l’isolamento, speciale cura è dedicata dal personale all’infermo, anche per sostenerlo moralmente…". Vi assicuro che in tutti i giorni trascorsi lì dentro, non è mai venuto nessuno vestito da clown per tenermi su il morale, né tantomeno, a sera, qualcuno mi ha rimboccato le coperte e dato il "bacio della buona notte".

Ho dovuto fare tutto da solo: cercando di tenermi su raccontandomi barzellette, ma con scarsi risultati, dal momento che mi risultavano conosciute. Mi autorimboccavo le coperte e, non potendo autobaciarmi, la sera mi auguravo affettuosamente un buon sonno.

Conoscendo per esperienza una certa mentalità istituzionale carceraria, dietro tutto questo ho visto chiaro l’intento defatigatorio… meno ci sta, meno si spende… di chi ha voluto in questo modo un reparto ospedaliero. Quanto non capisco è la complicità passiva dei medici ospedalieri, che sembrano non voler vedere le condizioni vergognose nelle quali si trova a stare una persona ammalata, solo perché detenuta.

Questa è l’unica critica che posso muovere loro, per quanto mi riguarda, perché l’assistenza medica e paramedica è sempre stata: costante, competente e, aldilà delle aspettative, improntata ad un buon livello di cortesia.

Una non – sorpresa, il comportamento del personale di Polizia Penitenziaria, scorta e piantonamento, il quale, lontano in un certo senso dai pesanti condizionamenti del carcere, si è rivelato per quello che (non tutti, sfortunatamente) sono: delle persone sensibili alle sofferenze ed ai disagi altrui anche se "l’altrui" è persona detenuta. A proposito, la febbre, dopo una quindicina di giorni, ha deciso spontaneamente di lasciarmi, tutte le analisi fatte non sono servite ad individuare la causa; nell’evenienza tornasse e fosse per me necessario un ulteriore ricovero al bunker, ho preparato una borsa con quanto mi potrebbe essere necessario, vi ho aggiunto anche un sacco della spazzatura (nero) grande. Sul fondo ho fatto un buco per la testa, indossato al momento d’espletare le necessarie funzioni fisiologiche, coprirà interamente tanto me quanto la scultura, assicurandomi così un buon grado di privacy. In galera, si sa, ci si deve arrangiare.