Respira meglio, che il tempo passa...

 

Considerazioni su chi in carcere "ammazza il tempo" e chi lo utilizza in modo quanto più possibile costruttivo

 

Di Tiziano Fabbian, dicembre 1999

 

Nel ‘94, R. ed io ci trovavamo già da un paio di anni a scontare le rispettive malefatte ospiti di un carcere circondariale del nord Italia. Nei primi mesi di quell’anno, un Agente di Polizia Penitenziaria, per motivi propri, scaricò l’intero caricatore della sua pistola d’ordinanza all’indirizzo di un gruppo di suoi colleghi, uccidendone uno e ferendo, più o meno gravemente, gli altri malcapitati, poi si tolse la vita.

R. risultò essere una delle vittime indirette della sparatoria, in quanto un funzionario ministeriale, subito accorso, scartabellando i fascicoli di noi detenuti - ospiti, si accorse che R., per l’alto residuo pena da scontare, avrebbe dovuto essere ristretto in un penale. Detto e fatto, in sole due ore provvide ad "imbarcare" lo shoccato R., con destinazione Padova, Nuovo Complesso Penale.

Non era un delinquente per "vocazione" (ne esistono pochi), ma per sbaglio (ne esistono tanti): gentile, colto e disponibile nei confronti del prossimo e, in più, una di quelle rare persone "leggere", che non scaricano su chiunque gli capiti a tiro la soma delle loro disgrazie.

Così avevo avuto modo di conoscerlo e per questo eravamo diventati amici; ma ora, che si trovava a Padova già da un paio di mesi, stavo rivedendo questa mia considerazione. Dopo una prima lettera, arrivatami dalla sua nuova destinazione, comprensibilmente confusa, quelle che seguirono si risolvevano tutte in un’interminabile, lamentosa lista, di quanto in questo Istituto non gli era più permesso fare. Questo non si può! Quell’altro nemmeno! Insomma, non sapeva proprio come passare il tempo! Da parte mia lo compativo e cercavo d’incoraggiarlo dicendogli che le cose, appena si fosse ambientato, si sarebbero risolte: avrebbe trovato cosa fare. Ma presto m’accorsi che questa mia politica non pagava, anzi… più gli dimostravo compassione più si crogiolava nel vittimismo; da "leggera", s’era trasformato in una persona estremamente "pesante", sicché, stanco, lo affrontai a muso duro scrivendogli: "Smetti di pensare a "ciò che non posso fare" e inizia a riflettere su "ciò che posso fare". È poco? Ti lasciano solo respirare? Allora respira e impara a farlo in modo migliore rispetto a quanto hai fatto fino ad oggi! Così, occuperai il tempo, la tua salute ne trarrà vantaggio e smetterai di rompere le palle a me con le tue continue lamentele".

Pensavo d’essermi giocato il rapporto d’amicizia con un intervento del genere e invece, dopo circa una settimana ricevetti, da lui, una voluminosa busta contenente una decina di fogli manoscritti. In uno di questi R. diceva d’avere afferrato il mio sottile messaggio e, considerato che lo scrivere gli era permesso, aveva deciso di impegnarsi nella propria autobiografia, della quale (bontà sua) mi allegava la prima parte: 9 fogli, 18 pagine di fitta scrittura grondante ambizioni letterarie. Questo succede a non farsi gli affari propri, pensai, rimpiangendo la sua solita "paginetta" di lamentazioni.

Così, R. aveva raggiunto lo scopo: occupare il suo e il mio tempo, qui in carcere. Dopo circa un anno anch’io fui trasferito e lo raggiunsi in questo Istituto. Lo classificai subito come un grande parcheggio dal quale uscire a fine pena, carrozzeria impolverata, gomme sgonfie e batteria scarica. R. non aveva esagerato, qui non c’era modo di far passare il tempo e, visto che non nutrivo, come lui, ambizioni letterario - autobiografiche, già mi vedevo costretto a diventare un esperto di tecniche della respirazione.

Una situazione, quella del Penale di Padova, che nel ‘95 era definibile con un solo termine: desolante. Un paio di corsi scolastici, alfabetizzazione e scuola media inferiore (150 ore), una ventina di persone impegnate nello studio. Se per sfortuna li avevi già frequentati nella tua "vita" precedente, risultavi disoccupato a tutti gli effetti.

Non ti rimaneva altro che partecipare ai numerosi tornei di "cacciapalle" (a chi la racconta più grossa) o, per i più colti, l’auto-rimbambimento davanti alla TV (anche perché, se stai dietro, non vedi niente).

Pensatori antichi hanno definito il tempo: chi come "immagine mobile dell’eternità", chi "il numero del movimento secondo il prima e il poi" e, ancora, "l’essere che mentre è, non è, e mentre non è, è"; qui dentro l’ho sentito definire con termini meno forbiti ma ugualmente dettati da un’approfondita speculazione fenomenologia: il tempo in carcere è "una gran rottura di coglioni" (Padova, anno 1995).

Senonché, dopo un paio di anni, un provvidenziale avvicendamento nella direzione di questo Istituto portò aria nuova in questo luogo asfittico, con l’effetto di farci respirare meglio anche senza praticare l’hathayoga. E fu un susseguirsi di attività culturali e professionali, impossibili da elencare senza riempire una pagina solo con questo: corsi di formazione scolastica, culturale e professionale di tutti i tipi e per tutti i gusti, ma soprattutto d’alta qualità.

Oggi, possiamo affermare che il problema "tempo" s’è giustamente ridimensionato. Hai ancora poco da scontare qui dentro? Puoi scegliere di frequentare un corso "breve". La tua "vacanza" durerà ancora per parecchi anni? Puoi decidere di frequentare un ciclo scolastico di scuola media superiore o, se ti pare troppo impegnativo, puoi risolvere di frequentare un corso diverso ogni anno, finché non esci. In ogni caso avrai risolto il problema di come far passare il tempo.

Ma tutta questa attività, i corsi scolastici e professionali, i laboratori, gli attrezzi, i computers, fotocopiatrici, telecamere, etc., più tutto il corpo insegnante, davvero tutte queste risorse sono qui presenti al solo scopo di distrarci dalla reclusione, per fornirci un mezzo con il quale poter "ammazzare il tempo"?

Penso sia il momento di porci seriamente questa domanda e, altrettanto seriamente, di darle una risposta, perché da questa dipenderà, non il futuro della direzione dell’Istituto e nemmeno quello degli insegnanti occupati nei vari corsi, ma quel nostro futuro che, come categoria, abbiamo piuttosto indefinito.

Può anche darsi che, fino a qualche tempo fa, i corsi attivati in carcere fossero finalizzati, più che a promuovere la cultura nella persona detenuta, ad occuparla in attività, per un certo senso, anestetiche nei confronti degli effetti dell’inattività forzata, quali irritabilità e pedanteria; questo forse era lo scopo di corsi tipo "Come smettere di fumare", o "Come leggere un libro" (corsi che qualcuno ha proposto per l’attuazione in questo Istituto - N.d.A.), ma le attività possibili oggi al Due Palazzi, senza dubbio, carattere del genere non l’hanno. Tutti, per esperienza, sappiamo quanto sia difficile trovare lavoro per un ex detenuto, se poi "all’ex" aggiungi il fatto che è privo di qualsiasi qualifica professionale (quelle che avevamo al momento dell’arresto non valgono, non sono molto ben viste), da difficile, sconfina nell’improbabile.

Di conseguenza, senza un’occupazione lavorativa ci sarà senz’altro recidività e non certo reinserimento sociale, perché, lo si voglia capire o no, questo passa inevitabilmente attraverso il lavoro.

 

Dedicato a chi non vuole laurearsi in "tautologia e scienze confuse"

Ognuno può capire chi, un domani, avrà più possibilità di occuparsi in attività lavorativa, tra un detenuto che ha conseguito, durante la carcerazione.

un diploma in ragioneria e un altro che s’è laureato in "tautologia e scienze confuse", fissando per anni il soffitto e piangendosi addosso.

Allora, assodato che, per chi vuole, non esiste più il problema di come far trascorrere il tempo, penso risulterebbe utile passare ad una fase di pensiero successiva: l’utilizzare il tempo in modo costruttivo. Si tratta di iniziare un percorso di responsabilità, verso se stessi, e sociale di conseguenza; si tratta di promuovere in se stessi la cultura del lavoro.

"Che mi interessa di quello che succederà un domani!?", potrà dire qualcuno ancora fermo alla fase del "lo faccio per passare il tempo". S’iscriverà ai corsi mono-motivato e, dal momento che l’accesso a questi è limitato nel numero dei partecipanti, probabilmente toglierà la possibilità a qualcuno multi-motivato di frequentarli.

Questa è la tipica persona che solitamente non si vergogna di fare appello alla famosa "solidarietà tra detenuti" unicamente quando i "suoi" interessi sono in pericolo. Per fortuna, queste persone, oggi e qui sono poche, anche se riescono a far sentire la loro "pesantezza". C’è chi, invece, approfitta a piene mani delle possibilità che gli sono offerte, sfruttando l’opportunità d’autorealizzazione che la frequenza di queste attività, alla fine, comporta.

Questo è chi pensa: "Lo faccio per mettere un po’ d’ordine nei miei pensieri e nella mia vita; per usare il tempo che dovrò trascorrere qui dentro, per non subire la carcerazione, per riappropriarmi del mio futuro!" e, sempre per fortuna, di queste persone oggi e qui ve ne sono parecchie.

Sono queste, infatti, con il loro modo di pensare e per i risultati di questo, a giustificare di fronte all’Istituzione e a chi si sta impegnando per portare avanti queste attività, l’impegno di tempo e di denaro speso per l’istruzione in carcere.

Anni fa, per ottenere un grado di vivibilità appena decente, all’interno del carcere, erano necessarie sanguinose (sempre per noi) rivolte, e molte persone detenute hanno lasciato la pelle o la salute per ottenere risultati minimi ma importanti.

Poi sono arrivati i tempi della protesta "civile", non più "violenta", e i risultati sono riconoscibili nella situazione attuale. Ora, per come stanno le cose, almeno qui a Padova, mi sembra arrivato il momento di darci da fare, perché il grado di vivibilità di un carcere "scuola" come questo è condizionato dai risultati che riusciremo ad ottenere nella frequenza dei corsi, sia scolastici che professionali, attivati all’interno dell’Istituto.

Questa è la prima parte di un percorso di responsabilità che abbiamo da compiere, responsabilità verso il mantenimento di questi corsi ed attività, che si risolve nella responsabilità verso noi stessi e verso il nostro futuro, se vogliamo averne uno diverso dal ritornare periodicamente qui dentro.

Se falliremo, non lo faremo solamente nei nostri confronti, ma anche in quelli delle persone detenute che stanno in carceri dove queste possibilità non esistono, ma che sull’esempio del nostro potrebbero ottenere.

Se falliremo, la colpa questa volta sarà molto più nostra e molto meno della società e della sfortuna. E qui si tornerà come nel ‘95, e Ristretti Orizzonti dovrà pubblicare una serie di articoli dal tema "Respira meglio che il tempo ti passa!"