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Racconti di socialità - Seconda puntata
“Mi
ricordo quando sono passato dalle malandrinate ai reati, o perlomeno a quello
che gli adulti consideravano reato. Con i miei amici, aspettavamo che i
‘signorini’ fossero entrati all’oratorio e gli ‘facevamo’ le bici”. I
piatti sono ormai vuoti. Il mio ospite ha “spazzato” via tutta la pasta e
fatto “scarpetta”, alla faccia del pacchetto di crackers con il quale mi
aveva detto d’aver cenato, penso. -
Vuoi qualcos’altro.... magari un caffelatte con un paio di panini?, lo
sfotto accendendomi una sigaretta. -
Cumpà, sono a posto così,... magari un po’ di uva... -Vedi
di là, sotto il tavolo dovrebbe esserci, gli dico, indicandogli il bagno -
cucina. S’alza e ci va, lo sento armeggiare. -
Trovato?, chiedo. -
Sì, risponde, aprendo il rubinetto per lavarla. Poco dopo, torna con il
grappolo gocciolante nella mano e, da questa, sul pavimento. -
Senti un po’, gli dico, in collegio non t’hanno insegnato l’uso dei
piatti?! -
Magari, Cumpà, mi risponde, là avevamo solo delle ciotole di ferro
smaltato, poi quelle bianche con il filo del bordo blu; ti sto mica rovinando la
moquette?, dice, con una faccia da finta preoccupazione, indicandomi il
pavimento di cemento grigio. Lascio cadere l’argomento. -
Senti, incivile, fino a che età sei rimasto in collegio? -. Aspettava
solo questo. Da narratore consumato, lentamente mette un chicco d’uva in
bocca; fissa concentrato un punto imprecisato della parete alle mie spalle,
facendo passare il chicco dall’interno di una guancia all’altra e poi,
creata la suspense, attacca: -
Due anni, sono stato lì,… fino a nove, poi sono tornato a casa, cioè,
si fa per dire, perché dopo due anni di quel “carcere”, a casa mi vedevano
molto poco, solo per dormire. Con i miei amici ritrovati, si girava tutto il
giorno a fare danni. Erano i tempi delle battaglie tra ragazzi di quartieri
diversi ed ogni giorno erano botte da orbi; difficile tornassi a casa senza
tagli, lividi o contusioni varie. -
Scusa se t’interrompo, ma… la scuola? esisteva a quei tempi? -
E come no, cumpà! Per esserci, c’era; quello che mancava era la voglia
di andarci. Come avrai capito, anche come alunni non ci si sarebbe proprio
definiti “disciplinati” e i maestri, a quei tempi, assolvevano la funzione
pedagogica calandosi nella figura del padre putativo nei confronti
dell’alunno, usando metodi al tempo considerati molto adeguati
all’insegnamento: gli sganascioni! Non avevi studiato, o disturbavi la lezione
? Con un manrovescio ti faceva fare una capriola, dopo di che ti trovavi con le
mutande alla rovescia, senza esserti tolti i calzoni. -
Ma tu non reagivi?, lo provoco. -
Come no, cumpà, accidenti se reagivo! Come? Quando mi vestivo per andare
a scuola, mi mettevo già le mutande rovesce, così, quando ne uscivo, ero
sicuro di ritrovarmele a posto, nuovamente dritte! A
domanda stupida, risposta adeguata, ha voluto dirmi; accuso il colpo e gli
faccio cenno di continuare. -
Vedi, cumpà, a quei tempi vincevano i concorsi i maestri che avevano le
mani più grosse perché più forti erano gli schiaffoni, meno tempo impiegavi a
capire la materia di studio. E poi, mica potevi andare a casa a lamentarti
d’averle prese dal maestro, a meno che tu non fossi masochista... Dopo tutto,
la scuola ci occupava solo mezza giornata, poi avevamo tutto il pomeriggio e
sera per noi, per fare a botte, dispetti e malandrinate. -
Ad esempio ?, gli do corda. -
Beh!... ad esempio, a quei tempi, chi poteva permettersi il frigorifero? Silenzio
non interrogativo, ed infatti taccio. -
Nessuno, si risponde, perlomeno nei quartieri operai come quello nel
quale abitavamo, quindi, perché gli alimentari si conservassero freschi, le
donne li appendevano ad uno spago, fissato agli stipetti della finestra lasciata
aperta, in modo che prendessero aria. Salsiccia, caciotta, salami, roba così
insomma e noi, con delle canne lunghe munite di un gancio in cima, ci
procuravamo, quando andava bene, merenda e anche cena e, quando andava male, un
intero caricatore di schiaffoni sparati a raffica. Ma, a dire la verità,
qualcosa da mangiare riuscivamo a “farlo” ogni giorno. Così, quando
tornavamo a casa a sera, avevo sempre pochissimo appetito e mia madre, che certo
qualcosa immaginava, diceva “Figlio mio, non mangi proprio niente, stai
vivendo d’aria, e si vede che qui al nord, anche l’aria tiene energia, perché
stai crescendo bello robusto”. “Certo mamma”, le rispondevo, mangi una
bella fetta di nebbia ogni giorno e sei sazio, come avessi mangiato caciotta e
salsiccia.”. “E perché con me non funziona?”, mi chiedeva, continuando il
gioco, “Perché hai vissuto sempre al Sud, lì non c’è nebbia e non hai
imparato a digerirla”, le dicevo io, poi me ne uscivo a fare altri danni. Se
non avevamo intenzione di andare a scuola l’indomani... ci andavamo la sera,
appena faceva buio, a rompere i vetri delle finestre; così si saltavano le
lezioni. -
E dal “salto” delle lezioni... -
No, a quello delle finestre sono arrivato un paio d’anni più tardi. A
quei tempi non pensavamo ancora ai soldi. Hai
ragione, penso, a 10 anni non servono i soldi per divertirsi, basta la fantasia,
e quella non difetta. Il mondo nel quale si vive è quello della creatività e
non quello dei comportamenti conformi al quale si arriva crescendo. Il “mondo
adulto” nel quale gli stimoli, la fantasia, non produce più, ma puoi
comperarli, belli, confezionati, con il denaro. Esco da questi pensieri
riallacciandomi al suo racconto. -
...soprattutto eravamo affascinati dalla velocità; dalle auto, dai
motorini, dalla bicicletta. A questo proposito, ti racconto un fatto.
All’Oratorio, venivano anche i ragazzi di Cusano Milanino, figli di gente con
i danè, e arrivavano con delle bici
da sogno. I loro genitori potevano permettersi di comperargliele; per quanto
riguardava noi, potevamo solo permetterci di guardarle passare per strada, ed io
pensavo: perché loro sì e noi no? Che abbiamo di diverso noi da loro? Perché
io avevo dovuto usare l’abito che indossato alla comunione anche per la
cresima, quando i pantaloni m’erano diventati bermuda e la giacca un bolero,
tanto da sembrare un ballerino di flamenco sfigato? Noi non avevamo i soldi per
un abito, mi son vergognato come una bestia quella volta, e loro possono girare
su quella bici nuove di zecca e far finta d’investirci per prenderci in giro.
E non riuscivo a capire la cosa, e non riuscivo ad accettarla. Lì, sono passato
dalle malandrinate ai reati, o perlomeno considerati tali dagli adulti. Con i
miei amici, aspettavamo che i “signorini” fossero entrati all’oratorio e
gli “facevamo” le bici. Poi, di corsa alla cantina sotto casa di uno di noi
e via!... Una bella riverniciata al telaio in modo non si riconoscesse più. -
Ma, chiedo, non si vedeva che erano bici nuove riverniciate
a mano? -
Ma che a mano?, Cumpà! Lavoro professionale: le riverniciavamo a
spruzzo! -
E con che? -
Ma con la pompa del flit! Sai, quella che si usava per l’insetticida?
Mettevamo nel serbatoio smalto diluito e via... appena uscita di fabbrica” -
Ma non t’è venuto in mente di cercare un lavoretto per mettere da
parte un po’ di soldi e poi comperarne una? -
No! Ma è venuto in mente ai miei genitori di procurarmi un
“lavoretto”, non certo per comperarmi una bicicletta, ma per aiutare la
famiglia a tirare avanti. Così, a 10 anni, mi sono trovato ad alzarmi alle 4 di
mattina per andare a lavorare come garzone da un pescivendolo, che aveva un
banco a... Dalle 4 di mattina fino alle 13.30, senza sosta, 8 ore filate per 6
giorni alla settimana; estate ed inverno per 4 anni per 12 mila lire alla
settimana e, al sabato, mi regalava anche un paio di chili di pesce. Non era
poco, erano bei soldi, aiutavano, e anche il pesce, aiutava. -
Dev’essere per quello che ora non ti va molto, di mangiarlo, gli dico. -
Che vuoi, Cumpà, ora se avessi un acquario, ci metterei dentro i
criceti. E ci facciamo una bella risata. -
Allora, i soldi non ti mancavano? -
Scherzi Cumpà, quelli erano tutti per “casa”; io avevo iniziato ad
arrangiarmi per quanto riguarda le mie necessità. Piccoli furti, traffici;
ripensandoci oggi non avevamo l’aurea del reato, o perlomeno non la percepivo
in quanto quello era un modo di vivere, comunque a tutti i ragazzi del
quartiere; una sorta di “prendi quello che ti piace”. -
Non capisco quanto vuoi dire... spiegati meglio, gli dico. -
Voglio dire che in quello che facevamo non c’era avidità, voglia di
avere, di possedere, ma solo curiosità. Rubavamo i motorini per fare cross in
un campetto pieno di montagnole di terra da riporto degli scavi edili e, dopo
esserci divertiti, o quando finivamo la benzina, li piantavamo lì.
Inconsapevolezza morale? Devianza? Queste sono parole che sento oggi e stento a
capire, noi chiamavamo marachelle i
nostri eccessi, la legge li chiamava reati. -
E quand’è che ti sei
scontrato con la “dura realtà”?, lo interrogo. -
Vedi, io non mi consideravo un delinquente; scapestrato sì, delinquente
no. Poi, m’hanno arrestato e portato in galera a San Vittore, avevo 14 anni e
lì ho capito. Infatti, mi dicevano sempre, in carcere ci stanno i delinquenti e
se mi hanno portato qui, significa che sono un delinquente, ho pensato. Vedi,
pensavo che quando m’hanno portato in caserma mi avrebbero detto che il mio
era un modo sbagliato di comportarmi e dopo un paio di calcioni nel sedere mi
avrebbero mandato a casa. Invece no, mi hanno portato a San Vittore e mi hanno
detto: sei un delinquente, questo è il tuo posto! -
Ma, se avevi 14 anni, come mai ti hanno portato in un carcere
giudiziario? Non dovevi finire in un minorile? -
Sì, infatti, ma dal momento che dimostravo più della mia età ...
quando mi hanno chiesto quanti anni avessi, cioè quando sono nato, io gli ho
detto che essendo nato nel... avevo 14 anni, ma loro pensavano che li prendessi
per il culo e così: “quanti anni hai?”. “14, brigadiere!”, e giù
schiaffoni; “quanti anni hai?”. “Quanti
vuole lei signor brigadiere!” E non sapevo neanche perché mi menassero: che
ne capivo io di minorili o di giudiziari? Così mi hanno portato a San Vittore;
lì mi hanno detto che, avendo 14 anni, dovevo andare al minorile e così ho
iniziato a “cioccare”. Hanno deciso di fare accertamenti e dopo tre giorni
mi hanno trasferito al Beccaria, il minorile di Milano. -
Ho capito. Senti, facciamo una sosta; mentre sparecchio la tavola, vedi
se c’è il lavorante in sezione e fatti prendere una pentola d’acqua calda
per lavare i piatti. Ci
alziamo, inizio a liberare il tavolo e lui dal cancello chiama il lavorante. -
Che vuoi, M.?, chiede il lavorante arrivando. Il
lavorante, detto “l’orango – valzer”, una famiglia d’oranghi
leggermente più evoluta degli “orangu - tango”. -
Senti, panza di coniglio, lo apostrofa M., passandogli la pentola
attraverso il cancello, fai il bravo e prendi acqua calda in doccia; calda
capito?! -
Calda, sì, capito, risponde il quadrumane, e se ne va. -
Cumpà, vuoi una mano con i piatti?, si offre M. - No, grazie, è poca roba, rispondo accendendomi una sigaretta e il fornello per il te, tu continua pure a raccontare
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