Racconti di Socialità – Prima Puntata

 

Sono quasi le 17.00, tra poco avrò qui M., in socialità. S’è autoinvitato proprio ieri. 

- Domani sera ceniamo assieme - mi ha detto e, dal momento che, conoscendomi, sa che non mi piace troppo “girare” per le celle altrui…, implicita nel suo autoinvito stava per me la certezza di ritrovarmelo qui, tra i piedi, per quasi tre ore.

- Cumpà, non preparare niente di complicato, non preoccuparti. ci arrangiamo in qualche modo -  aveva proseguito. A dire la verità, preoccupato non ero proprio: difficile che qualcuno venga da me “per mangiare”, sanno tutti che preferisco utilizzare il tempo libero per altro che non sia lo stare a “spadellare” in cucina, quindi, quando me li ritrovo qui, so per certo che hanno “altruisticamente” deciso di farmi utilizzare, per loro necessità, il mio, di tempo libero. Per cui, prima che avessi la possibilità di accampare una scusa per liberarmi dall’impegno, M. s’era rivolto ad un nostro compagno lì vicino al quale aveva annunciato:

- T. m’ha invitato in socialità per domani sera - spiazzandomi. Questo è M, ed altro ancora. M., una vita che è dentro e non sa ancora per quanto ne avrà: ci sono processi ancora da fare, reati pesanti. L’ho conosciuto appena è arrivato qui, possiede una carica di simpatia che sa trasmettere ed io l’ho recepita subito. In più ha una particolarità che in quest’ambiente, soprattutto, ritengo singolare: la maggior parte delle persone, anche all’esterno, tende a farsi vedere più intelligente di quanto lo sia in realtà. M., contrariamente a questo, pur possedendo una notevole intelligenza (lo si capisce dal suo usare l’ironia) tende a dare l’impressione d’essere un paio di gradini sotto il suo reale quoziente intellettivo. Autodifesa? Modestia? Non lo so; quando gli ho chiesto il motivo di questo suo atteggiamento, s’è messo a ridere, mi ha guardato tra il serio e il faceto e mi ha detto:

-   Cumpà… va bene così.- . Ora sta arrivando, lo si sente già da metà sezione, ha una battuta per tutti.

-         E’ permesso, cumpà?, - mi fa, con il suo sorriso alla Funari.

-         Te lo sei preso ieri, il permesso, entra, - gli rispondo.

-         Guarda qua, - mi dice, dandomi una lettera, - leggi pure.

Leggo, è di sua nipote, studentessa al liceo. Lui le ha mandato il nostro giornale, Ristretti Orizzonti, e lei gli dice che le è piaciuto molto e, dal momento che i ragazzi del liceo pubblicano un loro giornalino, vorrebbe notizie sul carcere, da utilizzare per un articolo. Mi fa piacere che i giovani si interessino a questi argomenti e so già come impostare la risposta. M. mi sta guardando in modo interrogativo.

-         Le scriviamo subito e poi preparerò qualcosa da mangiare, ti va?! - rispondo al suo sguardo.

-         Lascia stare, ho mangiato un pacchetto di crackers prima di venire qui; sono già a posto.

Lo guardo, vedo la sua taglia extralarge, mi figuro un pacchetto di crackers come dimensioni, rapportato alla sua stazza.

-         Prendi per il culo, cumpà? , - gli chiedo e aggiungo: - dai, facciamo come ho detto!

-         In meno di mezz’ora abbiamo già risposto alla lettera della sua nipote.

-          Ora pensiamo a riempirci lo stomaco; vieni di là a farmi compagnia, mentre imbastisco qualcosa da mangiare, - dico dando un occhio alla merce disponibile. - Ti va un po’ di pasta con i broccoli?, propongo.

-         Broccoli, cime di rapa, va tutto bene… quanti ne ho mangiati da piccolo, siamo di origine pugliese, sai?

-         Davvero? Per l’accento pensavo fossi di Innsbruck, emigrato a Milano; dai, racconta, come siete finiti nella capitale del nord?, - gli chiedo, mettendo i broccoli a lessare.

-         Mah, avevo 5 anni, sai, erano gli anni del boom economico, gli anni ‘60. Allora le campagne si spopolavano e tutti, al sud, attratti dal miraggio del benessere e dalla richiesta di manodopera per le industrie, emigravano verso le città industriali del nord.

Sta prendendo la rincorsa, penso, e lo lascio fare; mi piace stare a sentire tutte le storie degli altri, così diverse dalla mia.

-         Noi veniamo da Rodi Garganico, vicino a Foggia. Campagna e mare a perdita d’occhio e un senso di libertà per noi ragazzini, in seguito mai più provato.

-         Ti credo, con tutti gli anni fatti, ti si direbbe “nato in matricola”; è una vita che stai dentro - non riesco a trattenermi dal dirgli.

-         Cumpà, vedi che fino a 14 anni la Madre Patria non m’ha mai ospitato, - ribatte tra l’orgoglioso e l’indignato alla mia interruzione.

-         Quattordici anni? Beh, allora…

-         Sì, fai lo spiritoso... lascia che ti racconti il resto e poi capirai perché, 14 anni, - e in tono rievocativo, mentre spezzo gli ziti, continua - giù da noi, per chi  non aveva un pezzo di terra, rimaneva solo il mare (quello non sono ancora riusciti a dividerlo in appezzamenti), e di conseguenza fare il pescatore. E non è una bella vita, perché il mare, oltre che pericoloso, è pure avaro con chi ha pochi mezzi per la pesca e, quindi, la fame la si conosceva bene. Noi avevamo parenti, che già s’erano trasferiti a Sesto San Giovanni; dietro richiesta dei miei genitori s’erano interessati e avevano trovato un lavoro in acciaieria per mio padre. Quindi, “un bel mattino”, come si usa dire, tutta la famiglia raccolse le sue poche cose nelle valigie di cartone legate con lo spago (scherzo, non avevamo nemmeno quelle) e si trasferì a Milano.

-         In quanti eravate?, - gli chiedo.

-         Padre, madre e sei figli, 4 femmine e 2 maschi, io sono il terzo nato. Famiglia numerosa, dici? No, solo persone responsabili: i miei genitori sono cresciuti in una Italia nella quale la crescita demografica era auspicata e premiata dal governo, il Duce predicava agli sposi di dare italiani all’Italia altrimenti non avrebbe saputo a chi darle, tutte quelle baionette; poi, dopo la guerra, visto che di padri e di figli ne erano morti a caterve, c’era la necessità di ripopolare la nazione; d’accordo, che lo Stato non aveva investito della missione solo i miei genitori, ma sai com’è, “una ciliegia tira l’altra” e così si sono trovati con 6 ciliegie  da mantenere.

-         Più che una ciliegia, mi sembri una papaya, - gli dico, sbucciando l’aglio.

Mi ignora e continua il racconto.

-         A Milano non si trovavano appartamenti; quelli erano tempi nei quali, sui portoni dei palazzi, un cartello avvisava: “Non si affitta a famiglie numerose e meridionali”. No, non scherzo, era così a quei tempi, ora c’è più civiltà; ai meridionali nessuno nega un contratto d’affitto, perché abbiamo spostato le frontiere del sud, di qualche centinaio di chilometri. Ora non si mettono più gli avvisi: “Non si affitta agli extracomunitari”, non si affitta a loro, e basta. Così, per un po’, abbiamo abitato in una casa di “ringhiera”, a Sesto, e poi ci siamo trasferiti a Cinisello Balsamo, in un quartiere semirurale abitato da gente operaia che lavorava in prevalenza nell’industria e nell’edilizia. La prima classe elementare…Togli quei broccoli dal fuoco o diventano puré… lasciali raffreddare nell’acqua di cottura!

La prima elementare l’ho fatta a Cinisello, poi il Comune decise di aiutare quelli che avevano tanti figli da mantenere; i miei hanno bisogno di aiuto… ed io mi ritrovo a trascorrere i successivi due anni in un collegio di suore. Penso siano stati proprio quei due anni a cambiare la mia vita, tra l’altro. Eravamo in 100 circa; non certo soggetti facili, per del personale non qualificato. Gli assistenti non è che avessero, come è d’obbligo oggi, studi specifici per esercitare quella professione; era povera gente che cercava di sbarcare il lunario con meno rottura di scatole possibile e per questo si dimostrava tollerante verso ogni nostra intemperanza, a patto che questa non turbasse il loro tran tran quotidiano. D’altro canto, all’atteggiamento permissivo degli assistenti, si opponeva, per legge di compensazione, la rigidità pedagogica delle suore, che gestivano colonia e collegio, e non mancavano di farci pagare, con una buona dose di bacchettate sul fondo schiena, ogni nostra minima mancanza.

-         Senti, saranno state le bacchettate a segnarti a tal punto da perdere coscienza di ciò che è lecito o illecito?!, - gli dico, unendo i broccoli a pezzi al soffritto d’aglio.

-         No, a meno che non consideri il didietro come ricettacolo della morale. Considera il fatto che, in pratica, ci trovavamo allo sbando, totalmente affidati a noi stessi, senza limiti di riferimento quale può essere la famiglia. I nostri modelli di comportamento li decidevamo noi in base all’ultimo film visto o ad un particolare fumetto letto. Educazione civica? Ma dov’era la società? Non certo lì, in collegio con noi! E poi, più che prepararci a vivere nella società, lì in collegio, sembrava sapessero che eravamo destinati a popolare le “patrie galere”, infatti, quando sono “entrato” in carcere per la prima volta, ho pensato subito d’essere tornato in collegio. Anche lì non potevamo uscire, e i colloqui con i familiari avvenivano in giorni prestabiliti, con una durata, pure prestabilita. Tutto ciò che si poteva fare, tutte le attività, era programmato: la preghiera, la doccia, lo studio, il pranzo e le ore d’aria nel parco. Un’unica differenza, più qualitativa che quantitativa: qui in carcere, a quei tempi, se “sgarravi” il direttore o il maresciallo non ti mettevano sulle ginocchia e ti sculacciavano, no, Cumpà, ti mandavano la squadretta, che ti massacrava a pugni e pedate; nemmeno oggi ti sculacciano, ma ti fanno un rapporto disciplinare, che a volte fa più male delle botte. Ma le analogie non si riducono a questo; anche in collegio, come qui, indirettamente si incoraggiava in noi ragazzi l’atteggiamento ipocrita, l’unico che ti permetteva di ottenere alcuni benefici e consisteva nel raccontare loro proprio quanto volevano sentirsi dire. Per questo, sebbene giovani (ma non scemi)  avevamo sviluppato una capacità recitativa degna di un premio Oscar. Cumpà, come riuscivo io ad impersonare l’archetipo della sfiga e della sofferenza, nel confronto, la “piccola fiammiferaia” sarebbe risultata essere privilegiato e gaudente.

-         Vedi di rimanere in tema, perché, a parere tuo, qui si incoraggerebbe l’atteggiamento ipocrita, - dico, mettendo la pasta in acqua.

-         Ti chiedono: “Senti, tu, tentativo mal riuscito di un inserimento sociale, la società è disposta, sì, a darti un’altra possibilità, ma prima vuole sapere se nel periodo trascorso qui dentro hai fatto una seria autocritica del tuo passato deviante e, se l’hai fatta, quali decisioni hai preso riguardo al tuo futuro. Continuerai a commettere reati?” Questa, in definitiva, la domanda che mi pongono. Se  potessi essere sincero, rivolgerei questa domanda a loro, perché si rendano conto che non dipenderà solo da me, quello che sarà il mio futuro. Troverò qualcuno disposto a darmi una mano, una volta uscito dal carcere? O, come al solito, mi ritroverò sulla strada senza una lira in tasca, senza un posto dove potermi lavare e dormire e nessuna prospettiva di lavoro? La risposta a queste domande dovremo darla sia io che la società; non basta la mia sola, di volontà, per tenermi fuori dai guai. O da me si pretende che mi lasci morire di fame pur di non contravvenire alle regole sociali?

Capito Cumpà, come stavano le cose, qui e oggi.

-         E lì, e ieri, mi stavi raccontando del collegio, - gli ricordo, scolando la pasta.

-         Lì, o si diventava di quelli che rubano o di quelli che sono derubati; il più sveglio aveva la meglio sul più ingenuo, questo ho imparato. Poi sono tornato a casa e a dieci anni sono andato a lavorare da un pescivendolo, poi a quattordici anni ho rubato una “600” e sono finito al riformatorio e poi…

-         Senti, mettiamoci a tavola e ceniamo, poi mi racconterai, d’accordo?, lo interrompo, invitandolo a seguirmi di là; il profumo della pasta lo sta facendo diventare troppo conciso per la mia curiosità.